CAMMINARSI DENTRO (205): L’empowerment professionale

*

Sabato 9 luglio 2011

Un elemento che caratterizza la condizione di tutti gli Educatori è dato dalla capacità personale di ‘proseguire’ nel lavoro avviato, senza aspettarsi troppe conferme e riconoscimenti per il lavoro svolto. Mi riferisco al sentimento, spesso inespresso, che accompagna tutte le fasi cruciali della carriera personale: ad ogni prova affrontata e superata con successo, ma anche a fronte di un impegno che si sia aggiunto ad altri impegni, come in seguito alla manifestazione esplicita di stima da parte di alunni e genitori, ci si aspetta che arrivino i veri riconoscimenti, quelli dei Colleghi e dei dirigenti scolastici. E se non arrivano, non si smette di attenderli. 

Non si tratta di insicurezza personale quando si ‘reclamino’ i necessari riconoscimenti: il bisogno è professionale, non ‘privato’. Dal momento, però, che nel tempo si sperimenta una solitudine che è senza rimedio, tanto vale capire prima possibile che non bisogna mettere nel conto nessun riconoscimento. Bisogna fare da soli.

 

Quando ero insegnante avevo alle spalle una laurea, un corso che abilitava all’insegnamento, un’immissione in ruolo, una sede definitiva: tutte cose che erano altrettanti riconoscimenti di uno status giuridico. Non dovevo affannarmi a dimostrare che ero un insegnante di Italiano e Latino. A volte si riproponeva il problema, all’interno della schiera dei Colleghi, dell’identità personale, ma dipendeva dal prestigio della Cattedra di Italiano e Latino, più o meno grande, a seconda delle scuola in cui ho insegnato. Anche per questo aspetto della mia condizione, però, presto ho scoperto che le mie scelte non erano condivise. Probabilmente, non godevo nemmeno della stima dei miei Colleghi. Se non ci fosse stato il riconoscimento unanime dei ragazzi e delle loro famiglie, sarebbe stata più dura la mia condizione! Altrettanto presto, però, ho provveduto a mettere al riparo il mio lavoro con un metodo inattaccabile: ho sempre scritto molto, dalla progettazione didattica all’inizio dell’anno ai giudizi sui compiti svolti in classe dai ragazzi. Un lavoro estenuante e meticoloso, teso alla documentazione rigorosa di tutte le scelte educative, didattiche, docimologiche. Tutto ciò che era condiviso – le decisioni del Dipartimento dei docenti di Lettere – era da me rispettato militarmente, per evitare ostracismi e manovre a mia insaputa. Posso dire che la professionalità raggiunta è stata il risultato di un lavoro ininterrotto di miglioramento personale, dal 1973 al 2008, lungo tutta la carriera di insegnante. Ho partecipato a tutti i Corsi di aggiornamento possibili. Ero abbonato a riviste di ogni genere, di Estetica, di Letteratura, di Filosofia. Acquistavo libri settimanalmente, per non lasciarmi sfuggire nessuna novità nel campo della critica, del costume, della mentalità… Per questa via, mi sono guadagnato stima e rispetto. 

Gli anni di scuola sono stati un lungo esercizio spirituale, vissuto all’insegna della sobrietà e della rinuncia: l’efficienza a scuola e l’efficacia della didattica dipendevano dal mio benessere materiale e spirituale, a cui ho mirato sempre, perché il lavoro educativo non risentisse della più piccola ombra personale.

*

Ben diverso è il caso dell’attività di Educatore che ho preso a svolgere nel 1989 con i tossicomani e con le loro famiglie: si trattava di ‘costruire’ una professionalità nuova, a partire dalla nozione di Volontariato, che oggi per me non significa quasi più nulla, a parte la gratuità della ‘prestazione’.

Come Educatore di Exodus condivido con la Fondazione tutte le idee che la animano e che ‘seguo’ dal 1992. L’esercizio concreto, tuttavia, del lavoro sociale nel Centro di ascolto è esperienza solitaria, riconosciuta per i suoi risultati indiscutibili – il numero dei ragazzi presenti nelle sedi residenziali – ma ancora solitaria. Anche in Exodus ci sono da sempre i momenti di formazione, dal Capitolo al piccolo Esodo agli incontri di formazione veri e propri, ma la fraternità che pure è operante non si traduce in discussione dei metodo di lavoro dei singoli Educatori o delle varie Case. E’ aperto, infatti, un dibattito all’interno delle Aree geografiche sull’offerta delle Case e dei Centri d’ascolto, per arrivare a una documentazione unificata di ciò che intendiamo per Ascolto e di ciò che si fa nelle Case.

Contemporaneamente, tuttavia, per ogni Educatore si pone il problema di come sia da vivere l’insegnamento che viene da don Antonio Mazzi e dall’esperienza vivente della relazione d’aiuto. Il Fondatore già da qualche anno ha trasmesso a tutti noi l’idea che sia tempo di raccogliere la sua eredità, con un testo che vale anche come messaggio:

Il vasaio

Sulle rive di un mare si ritira un vasaio negli anni della vecchiaia. Gli si velano gli occhi, gli tremano le mani, è arrivata la sua ora. Allora si compie la cerimonia dell’iniziazione: il vasaio vecchio offre al vasaio giovane il suo pezzo migliore. Così vuole la tradizione degli indigeni dell’America nord occidentale: l’artista che se ne va consegna il suo capolavoro all’artista che viene iniziato. Il vasaio giovane non conserva quel vaso perfetto per contemplarlo e ammirarlo, ma lo butta per terra, lo rompe in mille pezzi, raccoglie pezzetti e li incorpora nella sua argilla.

EDUARDO GALEANO, Parole in cammino

La questione del riconoscimento, dunque, non si pone proprio in campo educativo, se si è disposti ad ammettere che, oltre i titoli acquisiti, resta da ‘costruire’ la propria professionalità sul campo e con la formazione continua. Per questo, è importante stendere ‘mappe’ del territorio della formazione. Obiettivo da raggiungere: l’empowerment professionale.

*

L’idea mi è venuta da qui. Documentare gli strumenti conoscitivi e i metodi utili per arricchire la propria professionalità ‘sul campo’ è indispensabile, soprattutto nelle professioni d’aiuto. Le persone sono restie ad accettare da altre persone suggerimenti per il proprio lavoro. L’incorporamento di nuova conoscenza nel lavoro che si svolge è compito della ‘formazione in servizio’. Anche nei confronti essa, però, si scoprono resistenze. Può essere utile, allora,  imboccare la strada dell’autodidattica. In ogni caso, occorrerà imparare ad apprendere dall’esperienza, come è stato suggerito per questo ambito dalla psicoanalisi.

Lo psicologo Rino Rumiati dice: “Apprendere dall’esperienza non è affatto un processo automatico. Esso richiede che vengano ‘mobilitate’ abilità di base molto importanti. Dall’esperienza dopo tutto ci vengono soltanto i dati per la conoscenza, non la conoscenza: l’esperienza, infatti, fornisce degli insiemi di informazioni talvolta molto grezzi. Gli individui possono trasformarli in conoscenza solo quando sanno come trattarli e valutarli per ciò che essi realmente dicono. Ma purtroppo questo non è facile, dato che i dati che vengono dall’esperienza possono essere interpretati in più di un modo” (Rino Rumiati, Decidere, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 107).

La teoria dell’apprendimento dall’esperienza di Kolb (   ) ci aiuta a fornire un primo inquadramento del problema che abbiamo.

Nel campo delle professioni d’aiuto la teoria del resource exchange – «scambio di risorse» – descrive bene lo sviluppo della relazione interpersonale. Si tratta di una teoria dell’interdipendenza – esposta da Fabio Folgheraiter nel suo Manuale di metodologia del lavoro sociale – che rafforza l’idea dello scambio di risorse relazionale di cui si gode nella relazione d’aiuto. 

Un’occasione ravvicinata, poi, è data dal confronto professionale con gli altri Educatori e con le altre professioni d’aiuto. Forse, il miglior modo per apprendere dall’esperienza è osservare quella altrui, facendo tesoro degli errori compiuti.

Segnala questo post ai tuoi amici con Google +1:

*

Questa voce è stata pubblicata in Empowerment professionale e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.