E’ sempre meglio insegnare che lavorare

Uno dei miei colleghi più allegri amava dire nei momenti drammatici, rivolto ai presenti, in Sala dei professori: «Cari colleghi, è sempre meglio insegnare che andare a lavorare» e così dicendo si guadagnava le simpatie eterne di tutti. Potremmo prendere così ogni critica, anche la più severa, rivolta ai docenti, come una celia. Se invece si pensa che “gli insegnanti non fanno niente”, io suggerirei di andare dal Papa a dirgli la stessa cosa: anche lui, prevalentemente, chiacchiera. Nessuno, però, osa pensare, solo pensare, che forse, come gli insegnanti, non fa niente, mentre gli altri lavorano. Detto in un Paese come l’Italia in cui ci sono milioni di persone che letteralmente non fanno nulla e prendono regolarmente lo stipendio, viene da vomitare al pensiero che si giudica la relazione educativa come inesistente, le pratiche formative come irrilevanti. Quando sono l’unica cosa esistente. Roland Barthes ha scritto che insegnare è l’unica cosa che si possa fare. Certo, compito impossibile, come sosteneva Freud, assieme a curare e governare, ma si tratta di paradossi: non si ottiene il risultato sognato, di rendere la realtà a propria immagine e somiglianza, perché si ha a che fare con una realtà che non è la cera dello scultore. La cura delle anime non è compito facile. Si tratta di afferrare fantasmi e di danzare con loro, senza lasciarseli sfuggire mai. Il comportamento insegnante – come a me piaceva chiamare quello che facevo – si è attaccato alla mia pelle. Oltre ad essere comunista – cioè dalla parte dei poveri: sono i soli che mi interessino -, io sono un insegnante, cioè uno che insegna. Mi ritrovo sempre nella posizione di chi vuole spiegare come stanno le cose. Al mattino, leggo il giornale per scoprire ciò che vi è fuori, per procedere poi al lavoro di spiegazione a me stesso di quello che vi è. Sono fortemente interessato ad apprendere: mi piace che mi si spieghino le cose, perché non capisco niente. Anzi, non so niente. Passo il tempo a studiare cose che ho già studiato mille volte. Nel lavoro sociale che svolgo con i tossicomani dal 1989, costruisco narrazioni assieme ai ragazzi che si rivolgono a me, aiutandoli a scoprire le cose che non sanno: correggo apprendimenti sbagliati; li aiuto a colmare lacune, ché sono di un’ignoranza spaventosa. Come la gran parte di quelli che giudicano gli insegnanti, non sanno dare un nome alle loro emozioni. Per questo, quando parlano, parlano a vanvera. E’ importante collegare le parole alle cose. Quando si parla di scuola, non si allude mai a quello che è accaduto dal 1973 ad oggi tra me e i miei alunni. Io non ho mai trovato alcun riferimento reale alla realtà della scuola in tutto quello che è stato scritto nei millenni, detto dai politici, teorizzato dai pedagogisti più grandi e produttivi. Quando entravo in classe, provavo un’emozione violenta ma bellissima. C’era qualcuno lì che aspettava me: non uno qualsiasi che dovesse intrattenerli. Nell’economia dell’universo era scritto che in quel luogo e in quel momento potessi stare solo io. Solo io avrei parlato. A loro. Soltanto a loro. A tutti loro messi insieme, come gruppo umano. Oggi si dice gruppo-classe. E poi ad ognuno di loro, talvolta. Ad alcuni, in particolare. I miei alunni sapevano che alcune lezioni – senza che io lo abbia mai detto – erano dedicate ad alcuni in particolare. Si comunica a distanza, così facendo. Sempre in pubblico. Prima della parole c’è sempre il silenzio. Ai ragazzi di prima liceo quest’anno ho detto fin dalle prime lezioni che bisognava imparare dal silenzio. Come la musica, la parola nasce dal silenzio. Pretendevo da loro un lungo silenzio prima che iniziasse la lezione. Ripetevo più volte: «Questo non è ancora il silenzio!» – Quando tutti erano pronti, iniziava la lezione. Mi alzavo in piedi, per dare solennità alle mie parole, pronunciavo la nota o l’accordo su cui avrei modulato la voce e procedevo con le infinite variazioni alla maniera di un immenso ipertesto che si srotolava davanti a loro. Distribuivo testi per favorire l’ascolto. Riempivo la lavagna più volte di suggestioni – parole in greco, in tedesco, in latino, in francese, in italiano, perché alcune cose a volte sono state dette meglio in una lingua piuttosto che in un’altra -, di schemi, di script, di mappe mentali e concettuali, facendo materializzare le (mie) idee in forme rozze che servissero poi alla (loro) organizzazione della conoscenza. La produzione della materia della lezione richiede anche anni. Sono riuscito a sedurre i ragazzi spesso con ritagli di giornale di venti o trent’anni fa. Conservo accuratamente in tre appartamenti diversi le cose accumulate con il tempo. Oggi servono ritagli di giornale, fotocopie, CD ROM, DVD, VIDEOCASSETTE, posta elettronica, forum, wiki, chat, con tutto quello che sta venendo fuori dal web 2.0. Oggi comunico con i miei ex alunni con l’iPhone. Tutti gli strumenti di cui dispone l’uomo per comunicare immediatamente sono concentrati in quel dispositivo. Il primo giorno di scuola vado alla lavagna e scrivo il mio nome, il mio numero di telefono e l’indirizzo di posta elettronica. Il telefono resta acceso anche di notte. Se qualcuno ha bisogno d’aiuto, o più semplicemente vuole parlare con me, mi trova. Quando è stato necessario, ho telefonato a casa dei ragazzi, per comunicazioni urgenti. Ho prestato loro tutti i miei libri e gli altri materiali di cui dispongo. Ho ripetuto la stessa lezione infinite volte, senza limiti. Ho cercato di farmi capire. Ho lasciato che mi prendessero in giro, per arrivare a regole rigide che valessero per me e per loro. Quando hanno infranto le regole, ho discusso le ragioni della mancanza. Li ho messi nei guai, perché non potevano nascondersi. Ogni volta, davanti alla classe dovevano semplicemente ammettere: non ho studiato. Discutevamo il dramma, la realtà drammatica che si era creata. Non riuscire a studiare è cosa che merita di essere discussa. L’intero corso quinquennale è stato discorso sul metodo: non le cose, ma come arrivare alle cose. A che cosa ci servono le cose. Come entrano nella nostra vita. Ho sempre raccontato il modo in cui le ho scoperte io, il tempo che ho impiegato per capirle, l’uso che ne ho fatto. Un giorno ho cercato di far capire ai ragazzi di terza liceo perché sono stato per venti anni sull’opera di Massimo Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, del 1976. Tutti i sentimenti e tutte le emozioni e tutte le passioni hanno un nome. Perfino i filosofi fanno confusione fra di loro: chiamano passione alcuni sentimenti… I ragazzi debbono capire il significato di quei termini, per poter comprendere il senso generale dell’opera letteraria, che ha a che fare con immateriali. Subito dopo, un po’ prima e durante la ‘lettura’, le conoscenze acquisite – che andranno curate poi per tutta la vita – sorreggeranno e accompagneranno la comprensione di sé, delle proprie emozioni, dei propri sentimenti, delle proprie passioni. Il corso dei (propri) pensieri va seguito, capito, corretto, indirizzato. I ragazzi debbono imparare a pensare. Il nesso più potente è tra pensare e scrivere. Imparando a pensare, si riesce con il tempo a scrivere (di sé). Venire in chiaro di sé è compito permanente. Diventare se stessi significa anche imparare a interpretare i moti dell’anima, dando loro un nome. Il governo dei sentimenti, che indico nel Triennio superiore, è tentare di affrontare il magma sottostante, il sottosuolo da cui proveniamo, la materia incandescente dei ‘vissuti’ e delle vicissitudini dell’anima. Psiche, Anima, Spirito sono oggetto di riflessione continua. Noi ci occupavamo della nostra anima, del compito di fare anima, di coltivare la propria anima, di curare lo spazio interiore indispensabile per il dialogo silenzioso e per l’esame (di coscienza) da fare prima di andare a letto la sera. Abbiamo affrontato la morte del padre di un’alunna, che per anni è stato tema per noi. Non la Morte, ma i nostri morti, il rapporto con i nostri morti. Anche a loro occorre dare un significato. Custodire nel proprio cuore il ricordo. Alimentare i ricordi. Impedire che precipiti nella dimenticanza ciò che invece deve accompagnare i giorni è stato un compito per noi. Abbiamo pianto silenziosamente insieme. Ci siamo amati sobriamente, senza dircelo mai. Come è giusto che sia, lì dove la relazione che prevale non è quella ravvicinata che è propria dell’ambiente familiare. Abbiamo imparato ad abitare la distanza, perché solo così sarebbe stato possibile incontrarsi veramente. Si è trattato di un incontro. Dire quello che abbiamo fatto insieme è compito così grande che preferisco rinunciare. Lascio agli esperti di scuola il compito di scriverne. Non ci raggiungeranno mai.

POLITICA
BUSSOLE
Maledetti professori
di ILVO DIAMANTI

IL “PROFESSORE”, ormai, primeggia solo fra le professioni in declino. Che insegni alle medie o alle superiori ma anche all’università: non importa. La sua reputazione non è più quella di un tempo. Anzitutto nel suo ambiente. Nella scuola, nella stessa classe in cui insegna. Gli studenti guardano i professori senza deferenza particolare. E senza timore. In fondo, hanno stipendi da operai specializzati (ma forse nemmeno) e un’immagine sociale senza luce. Non possono essere presi a “modello” dai giovani, nel progettare la carriera futura. Molti genitori hanno redditi e posizione professionale superiori. E poi, la cultura e la conoscenza, oggi, non vanno di moda. E’ almeno da vent’anni che tira un’aria sfavorevole per le professioni intellettuali. Guardate con sospetto e sufficienza.
Siamo nell’era del “mito imprenditore” . Dell’uomo di successo che si è fatto da sé. Piccolo ma bello. E ricco. Il lavoratore autonomo, l’artigiano e il commerciante. L’immobiliarista. E’ “l’Italia che produce”. Ha conquistato il benessere, anzi: qualcosa di più. Studiando poco. O meglio: senza bisogno di studiare troppo. In qualche caso, sfruttando conoscenze e competenze che la scuola non dà. Si pensi a quanti, giovanissimi, prima ancora di concludere gli studi, hanno intrapreso una carriera di successo nel campo della comunicazione e delle nuove tecnologie.

Competenze apprese “fuori” da scuola. Così i professori sono scivolati lungo la scala della mobilità sociale. Ai margini del mercato del lavoro. Figure laterali di un sistema – la suola pubblica – divenuto, a sua volta, laterale. Poco rispettati dagli studenti, ma anche dai genitori. I quali li criticano perché non sanno trasmettere certezze e autorità; perché non premiano il merito. Presumendo che i loro figli siano sempre meritevoli.

Si pensi all’invettiva contro i “professori meridionali” lanciata da Bossi nei giorni scorsi. Con gli occhi rivolti – anche se non unicamente – alla commissione che ha bocciato “suo figlio” agli esami di maturità. Naturalmente in base a un pregiudizio anti-padano. I più critici e insofferenti nei confronti dei professori sono, peraltro, i genitori che di professione fanno i professori. Pronti a criticare i metodi e la competenza dei loro colleghi, quando si permettono di giudicare negativamente i propri figli. Allora non ci vedono più. Perché loro la scuola e la materia la conoscono. Altro che i professori dei loro figli. Che studino di più, che si preparino meglio. (I professori, naturalmente, non i loro figli).

Va detto che i professori hanno contribuito ad alimentare questo clima. Attraverso i loro sindacati, che hanno ostacolato provvedimenti e riforme volti a promuovere percorsi di verifica e valutazione. A premiare i più presenti, i più attivi, i più aggiornati, i più qualificati. Così è sopravvissuto questo sistema, che penalizza – e scoraggia – i docenti preparati, motivati, capaci, appassionati. Peraltro, molti, moltissimi. La maggioranza. In tanti hanno preferito, piuttosto, investire in altre attività professionali, per integrare il reddito. O per ottenere le soddisfazioni che l’insegnamento, ridotto a routine, non è più in grado di offrire. Sono (siamo) diventati una categoria triste.

Negli ultimi tempi, tuttavia, il declino dei professori è divenuto più rapido. Non solo per inerzia, ma per “progetto” – dichiarato, senza infingimenti e senza giri di parole. Basta valutare le risorse destinate alla scuola e ai docenti dalle finanziarie. Basta ascoltare gli echi dei programmi di governo. Che prevedono riduzioni consistenti (di personale, ma anche di reddito): alle medie, alle superiori, all’università. Meno insegnanti, quindi. Mentre i fondi pubblici destinati alla ricerca e all’insegnamento calano di continuo. Dovrebbe subentrare il privato. Che, però, in generale se ne guarda bene. Ad eccezione delle Fondazioni bancarie. Che tanto private non sono. D’altra parte, chissenefrega. I professori, come tutti gli statali, sono una banda di fannulloni. O almeno: una categoria da tenere sotto controllo, perché spesso disamorati e impreparati. Maledetti professori. Soprattutto del Sud. Soprattutto della scuola pubblica. E – si sa – gran parte dei professori sono statali e meridionali.

Maledetti professori. Responsabili di questa generazione senza qualità e senza cultura. Senza valori. Senza regole. Senza disciplina. Mentre i genitori, le famiglie, i predicatori, i media, gli imprenditori. Loro sì che il buon esempio lo danno quotidianamente. Partecipi e protagonisti di questa società (in)civile. Ordinata, integrata, ispirata da buoni principi e tolleranza reciproca. Per non parlare del ceto politico. Pronto a supplire alle inadempienze e ai limiti della scuola. Guardate la nuova ministra: appena arrivata, ha già deciso di attribuire un ruolo determinante al voto in condotta. Con successo di pubblico e di critica.

Maledetti professori. Pretendono di insegnare in una società dove nessuno – o quasi – ritiene di aver qualcosa da imparare. Pretendono di educare in una società dove ogni categoria, ogni gruppo, ogni cellula, ogni molecola ritiene di avere il monopolio dei diritti e dei valori. Pretendono di trasmettere cultura in una società dove più della cultura conta il culturismo. Più delle conoscenze: i muscoli. Più dell’informazione critica: le veline. Una società in cui conti – anzi: esisti – solo se vai in tivù. Dove puoi dire la tua, diventare “opinionista” anche (soprattutto?) se non sai nulla. Se sei una “pupa ignorante”, un tronista o un “amico” palestrato, che legge solo i titoli della stampa gossip. Una società dove nessuno ritiene di aver qualcosa da imparare. E non sopporta chi pretende – per professione – di aver qualcosa da insegnare agli altri. Dunque, una società senza “studenti”. Perché dovrebbe aver bisogno di docenti?

Maledetti professori. Non servono più a nulla. Meglio abolirli per legge. E mandarli, finalmente, a lavorare.

(la Repubblica, 25 luglio 2008)

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