DONATELLA D’ANGELO, Fallen Angels

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CAMMINARSI DENTRO (278): Spray Contest in onore di Benedetto – 10 settembre 2011, Sora

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SERGIO GIVONE, Don Chisciotte. La follia e la fede

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UOMINI E PROFETI
“Don Chisciotte. La follia e la fede” con Sergio Givone.

I puntata: “L’uomo di carta”

II puntata: “Il cavaliere dalla triste figura”

III puntata: “Dietro l’incanto”

IV e ultima puntata: “Nato per vivere morendo”

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (277): La profondità del sentire. Che cosa significa «attivare gli strati profondi della sensibilità»?

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Martedì 13 settembre 2011

Muovere verso l’altro significa fare i conti anche con persone che non ci corrisponderanno o che appariranno sulla scena con caratteristiche perturbanti: il modo di mostrarsi con la propria sensibilità è già rivelatore. Siamo portati ingenuamente a pensare che si debba essere profondi o che si sia profondi per natura e che si possa decidere se farsi coinvolgere emotivamente o no in una relazione umana. Certamente, potremo mantenere una ‘distanza’ grande, riservando all’altro un interesse solo formale oppure ostentare disinteresse. Ne faremo sempre una questione di sensibilità personale, di personale capacità di sentire l’altro e di mostrare di possedere una sensibilità viva…

In realtà, quello che mettiamo in campo è il nostro modo di orientarci verso un valore: noi attribuiamo all’altro un valore da cui dipenderà il ‘grado’ dell’affettività che esprimeremo nei suoi confronti. Gli affetti che proveremo traspariranno, in qualche misura. Riusciremo anche a dissimularli più o meno abilmente. Chi non ha nascosto, infatti, anche per anni un sentimento che non poteva in nessun modo essere dichiarato? Può darsi anche il fatto che procediamo a lungo inconsapevolmente, come se nulla stesse accadendo in noi. Un accidente improvviso o un brusco risveglio provocato ad arte da qualcuno ci rivelerà a noi stessi. Avvertiremo chiaramente di essere stati colpiti da una presenza, di essere ormai affetti da interesse.. Ci sentiremo affezionati a quella persona. Essa si distinguerà tra le altre cose del mondo. Avrà un significato per noi e un valore.

A insensibilità, anaffettività, superficialità del sentire non dovremo opporre profondità del sentire? e questa profondità dovremo intendere come espressione di una grande sensibilità personale o come capacità di attivare gli strati profondi della sensibilità propria di ogni persona?

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (276): L’entrata inaugurale della morte nella vita

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Lunedì 12 settembre 2011

Affermare che si debba imparare a morire risulta sempre un paradosso agli occhi di chi non abbia ancora pensato il compito e non si sia posto il ‘dovere’ di dedicarsi a questo esercizio spirituale. L’espressione suona a volte sinistra e suscita sentimenti angosciosi alle orecchie di chi sarà portato subito a pensare che si stia parlando addirittura di suicidio, di procurarsi la morte in qualche modo, o di augurarsela, o di mettersi in attesa dell’evento!
A me piace ricordare che il carme foscoliano Dei Sepolcri, definito sempre dalla critica letteraria meditatio mortis – una meditazione sulla morte -, è stato subito dopo definito dalla stessa più chiaramente meditatio vitae – meditazione sulla vita.
Negli anni della Scuola elementare la vecchia maestra che avevamo ci ricordava che dovevamo pensare alla morte almeno nove volte al giorno! In quel tempo e a lungo poi, abbiamo riso sguaiatamente di quella prescrizione morale. E’ arrivato molto più tardi il tempo della comprensione.
L’esperienza della malinconia d’amore negli anni dell’adolescenza non è stata vissuta bene: ognuno di noi avvertiva come destino ingrato il ripetersi ossessivo di vicissitudini della coscienza dolorose e incomprensibili. Ogni volta di nuovo, il timore di perdere lei, l’angoscia dell’abbandono, lo strazio della lontananza, il sentimento acuto dell’assenza…
Nessuno si è mai occupato di noi, sedendo magari accanto a noi, sul nostro letto – come nei film americani – per spiegarci che è sempre così, che è sempre stato così, che non può non essere così, per ognuno di noi: la sensazione più volte provata della morte nell’anima come esperienza della separazione; il dolore conseguente al venir meno, anche solo per un po’, delle persone per le quali l’attaccamento è più forte; la distinzione tra lutto e malinconia

L’ingresso della morte nella vita è stato inaugurato per noi dall’esperienza che tutti abbiamo fatto da bambini, quando la nostra madre si è allontanata da noi, per lasciarci momentaneamente soli, magari spostandosi in un’altra stanza e per poco. Abbiamo vissuto quell’assenza come lontananza, mancanza, abbandono, perdita. Al timore di averla perduta per sempre, che potesse essere morta, si associava il terrore della solitudine, della nostra morte. Senza di lei ci siamo sentiti perduti.

E ogni volta è così, sempre di nuovo: quando si allontanano da noi le persone che ci sono care, avvertiamo la mancanza, soffriamo la lontananza, fino al sentimento dell’abbandono e della perdita.

L’Irreparabile rappresentato dalla morte fisica è solo l’esempio più forte ed emblematico di una condizione per la quale dobbiamo riconoscere che la morte non è solo il decesso, il venir meno della vita, il punto terminale della vita stessa, come se cadesse al di fuori di essa: la morte è già dentro la nostra vita. Perché cos’altro è se non un morire quello che proviamo quando siamo lasciati soli, privi del calore della vita che promana dalle esistenze altre, alle quali chiediamo sommessamente ad ogni piè sospinto di accorgersi di noi, di volgere lo sguardo benevolo verso di noi, di parlarci, di dire sì, magari di accarezzarci, di abbracciarci, di consolarci, quando è necessario?

Degli affetti naturali come di tutti i nostri amori elettivi facciamo esperienza in forme contraddittorie e a volte oscure: l’esperienza del riconoscimento e dell’accettazione ci esalta; il silenzio, l’assenza, il diniego ci abbattono. Non potremo mai andare alla guerra di tutto ciò che è parte della vita stessa, dunque non ci resta che educare la nostra sensibilità alla comprensione della vita tutta, delle sue luci e delle sue ombre. Recalcitrare contro quello che è ‘destino’ comune e interrogare all’infinito i silenzi e le assenze, come se avessimo ricevuto un torto grave e ci fosse stato tolto quello che pure ci era stato promesso, è segno di grave insecuritas. Chiedere sempre ragione del dolore equivale a non ricordare il bene ricevuto e quindi a non sperare che lo riceveremo ancora.

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Quando noi parliamo di imparare a morire, intendiamo riferirci agli esercizi spirituali come pratica di libertà. Coltivare l’anima, autoeducarsi, crescere, realizzarsi, individuarsi è possibile a condizione che si pratichino i necessari esercizi per dare senso e dignità alla propria vita.

LEGGERE Sigmund Freud, Jacques Lacan, Marie–France Balta, Jacques Sédat, Moustapha Safouan, Il gioco del Fort / Da. L’entrata inaugurale della morte nella vita (si tratta di una raccolta di saggi in formato PDF – Il file è protetto: può essere stampato dopo essersi iscritti al sito)
MORENO MANGHI, Introduzione al gioco del Fort/Da, pag.3
SIGMUND FREUD, Il gioco del Fort/Da, pag.14
Thesaurus Lacan: Il gioco del Fort/Da (Jacques Lacan), pag.19
MARIE-FRANCE BALTA, Il “gioco del Fort/Da” tra Freud e Lacan, pag.33
JACQUES SEDAT, La “pulsione di appropriazione” nel gioco del Fort/Da, pag.41
MOUSTAPHA SAFOUAN, L’amore come pulsione di morte, pag.4Appendice – Oggetto transizionale, pag.64 

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Gabriele De Ritis

Il mio nome è Gabriele De Ritis. Insegnante di Italiano e Latino per 35 anni, in pensione dal 1° settembre 2008. Volontario nel campo delle tossicodipendenze dal 1989; Educatore della Fondazione Exodus di don Antonio Mazzi, dal 1993 al 2016 in Libera Mente, un Centro di ascolto che aveva la sua sede legale e operativa a Sora, in via Agnone Maggiore, 1.
Abito a Sora
(CAP 03039), in provincia di Frosinone, in via Francesco Vanni, 1.

Sto curando uno spazio in cui raccoglierò la documentazione indispensabile per la formazione degli Educatori che operano nei Centri di ascolto. (In realtà, si tratta di materiali che si sono accumulati nel corso del tempo. Li propongo all’attenzione dei passanti solo per documentare la mia formazione, non per fornire ad altri la via da seguire: non sono un Formatore). Si tratta di percorsi, aree tematiche, piani di realtà che hanno segnato e continuano a segnare la mia formazione. Credo nell’autoeducazione, per questo mi permetto di suggerire documentazione scientifica agli Educatori di tutte le età. Sicuramente, chi legge avrà la propria Enciclopedia mentale, mappe del territorio della conoscenza personale, Bibliografie da proporre. Non conta la mole dei materiali: piuttosto, aiuta a comprendere la visione d’insieme che ne viene fuori. Non possiamo fare a meno di restituire sempre – anche attraverso frammenti di senso – il valore che noi diamo a una cosa piuttosto che a un’altra. L’intero che cerchiamo di rappresentare dovrebbe orientare il nostro intervento educativo e funzionare da riferimento ideale per chi chiede aiuto.

L’indirizzo di posta è posta@gabrielederitis.it
Il mio spazio web è https://www.gabrielederitis.it.
Sono reperibile, altresì, all’indirizzo Skype gabriele.de.ritis.
Il mio Canale Youtube contiene i video più significativi da me prodotti negli ultimi anni.

Il titolo, che spero definitivo, che ho dato a questo sito, è Ai confini dello sguardo – “Solo il vero sapere ha potenza sul dolore” (Eschilo).

Non si vive (bene) senza riconoscimenti, senza il conforto di una voce amica che dica sì ai nostri sforzi e che attribuisca il giusto valore a ciò che facciamo, se quel che facciamo ha qualche pregio. Il carattere metonimico del desiderio, tuttavia, imprime al soggetto inconscio del desiderio che noi siamo indirizzi e modi di consistere cangianti, talora contraddittori. La vita di relazione e in essa le relazioni significative – quelle che io chiamo vere presenze – contribuiscono a rendere salda la radice errante su cui riposa la nostra esistenza.
‘Ai confini dello sguardo’ significa ‘nel luogo e nel momento del contatto e dello scambio’.
Ciò che più mi preme descrivere, raccontare, spiegare è l’incontro con le esistenze altre, dagli allievi agli utenti del Centro di ascolto, alle donne, agli stranieri… 

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Incontro con Erri De Luca

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INCONTRI CON L’AUTORE organizzati dall’Assessore alla Cultura del Comune di Sora (FR), Bruno La Pietra, e dal rappresentante frusinate di Einaudi, Bruno Paolozzi.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (275): Incontro-testimonianza con tre sopravvissuti della Shoah: PIERO TERRACINA (10.12.2007), SAMUEL MODIANO (15.1.2008), SHLOMO VENEZIA (12.2.2008)

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Giovedì 8 settembre 2011

Alla cultura ebraica ho dedicato alcuni decenni della mia vita, con uno studio ininterrotto della letteratura, della musica, della filosofia che dura ancora. Ho ripercorso infinite volte la strada che porta dall’intolleranza ai Lager, per comprendere cosa si annidasse nel cuore di coloro che odiavano. Ho scoperto con Hannah Arendt che il male radicale che secondo Kant sarebbe connaturato all’uomo doveva essere sostituito da un concetto meno alto e più ‘quotidiano’: dai gerarchi nazisti che avevano responsabilità nei campi fino agli scrivani che annotavano i numeri dello sterminio, non c’è nessuno che non abbia detto di essere impegnato in un ‘lavoro’ da cui non poteva essere distolto in nessun modo. Era ‘lavoro’. La banalità del Male è tutta qui: non occorre essere grandi criminali o immaginare che Hitler fosse psicotico o peggio ancora: gli stessi diligenti attori del Male non hanno mai smesso di riconoscere che sapevano bene quello che facevano e a loro non sembrava poi così terribile, trattandosi solo di un lavoro!
Questa è una delle esperienze esemplari della mia vita. Non parlo dello studio, ma di quello che segue. Parlo dell’incontro con tre sopravvissuti con i quali, dopo un incontro-dibattito con gli studenti della mia scuola, ho pranzato e discusso ancora. I loro volti e la loro voce, i racconti e i sentimenti vanno a costituire un contributo alla cultura dell’Ascolto di cui qui discutiamo. 
Quando entro nel Centro d’ascolto e mi accingo a parlare ogni volta con qualcuno che viene per la prima volta non ho dubbi su di me. Ho vissuto momenti che hanno segnato la mia vita, modificandola nel profondo.
Quando parlo delle emozioni degli Operatori nella relazione d’aiuto mi riferisco anche a questo: l’ordine del cuore prevede un posto anche per i tre che sono sempre in primo piano nei video che seguono. Essi fanno parte del mio paesaggio affettivo, con la loro voce e i loro volti.
Conservavo gelosamente i tre video realizzati da me. Ora è tempo di metterli a disposizione di tutti.

Si tratta di video personali realizzati in coincidenza con Incontri organizzati nella scuola in cui insegnavo: il Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” di Sora (FR). L’occasione è stata data dalla Giornata della memoria del 2008.
Martedì 6 ho scoperto la possibilità di caricare (upload) su Youtube video di durata superiore ai 15 minuti. Allora, ho inserito nel mio Canale i tre video che seguono.
Ho rinunciato al copyright per consentire a tutti il riutilizzo di questi documenti eccezionali.

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Incontro con PIERO TERRACINA (10 dicembre 2007)

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Incontro con SAMUEL MODIANO (15 gennaio 2008)

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Incontro con SHLOMO VENEZIA (12 febbraio 2008)

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (274): LAURA BOELLA, La scoperta dell’esistenza dell’altro

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L’incontro con la professoressa Laura Boella è stato organizzato da me presso il Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” di SORA (FR) il 22 maggio 2006. Il primo video contiene la conferenza, il secondo video contiene il dibattito.
Questo incontro è nato dalla lettura dell’opera Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia (2006).
Proprio ieri ho scoperto la possibilità di caricare (upload) su Youtube video di durata superiore ai 15 minuti. Allora, ho inserito nel mio Canale la Conferenza di Laura Boella.

Segui anche l’Intervista del 28 settembre 2009. (Sintesi)

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CAMMINARSI DENTRO (273): Nella foresta dei sentimenti

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Domenica 4 settembre 2011

La questione più grande resta questa: cosa interviene a condizionare la scelta personale in una vicenda sentimentale? In altri termini, cosa succede quando ci innamoriamo di una persona? Il sentimento si instaura misteriosamente, per vie che non riusciamo mai a percorrere razionalmente? La forza del sentimento è tale che non ha senso opporsi? E se fosse possibile scegliere con un criterio, di quale persona sarebbe preferibile innamorarsi? Cosa scegliamo quando scegliamo una persona? scegliamo la persona o una parte di essa o ciò che essa è stata o ciò che potrebbe essere? E’ urgente rispondere a queste domande, per il fatto che dalla risposta che daremo dipende la qualità del nostro lavoro educativo.
Lungo tutta l’esperienza di insegnante ho lasciato trasparire l’idea complessa che siamo il risultato di ciò che abbiamo ricevuto in eredità come organismo e ciò che andiamo conquistando giorno dopo giorno con la crescita personale. Ma non ho mai chiarito cosa sia crescita. Come se studio, lavoro, sacrifici e rinunce potessero da soli spiegare come si dia crescita. Ho affermato che le persone non cambiano, crescono. Si diventa ciò che si è, oscillando tra progetto e destino.

Io credo fermamente che le basi dell’educabilità di se stessi – le tre condizioni dell’educabilità di un Educatore: muovere verso noi stessi, verso gli altri, verso il mondo – siano la condizione dell’educabilità dei ragazzi. Quest’ultima dipende interamente dalla capacità di educare se stessi.
Quello che c’è da mostrare ai ragazzi non è tanto un esempio, quanto, piuttosto, un ‘metodo’, un atteggiamento di costante ricerca di fronte alla natura e alla vita: più che un sapere conchiuso i ragazzi hanno bisogno di vedere una direzione di marcia che conduca a sempre più grandi porzioni di senso: come noi, essi hanno bisogno di annettere al territorio della mente sempre più realtà. Aprirsi a sempre nuove evidenze è ciò che serve ad attivare strati sempre più profondi della sensibilità personale.
Bisogna far comprendere ai ragazzi che, al di là dei talenti ricevuti, dobbiamo far fruttare i doni e le doti personali per crescere in consapevolezza e in capacità di riflessione. Tra Stimolo e Risposta – a differenza dell’animale – noi dobbiamo prevedere il necessario intervallo della riflessione: la coscienza vive in quell’intervallo. Tutto quello che riusciamo a fare di buono si realizza grazie all’apprendimento consapevole del significato di porzioni sempre più ampie di realtà.
Non i miei principi e ideali e valori, né quelli della famiglia della società e del tempo, né l’esempio dato, né la somma delle abilità professionali basteranno – non sono mai bastati – a far sì che l’altro riesca ad attivare gli strati profondi della propria sensibilità, esprimendo con sentimenti adeguati il proprio consentire al valore delle persone che gli vanno incontro. Questa apertura all’evidenza del bene ricevuto è la via che conduce alla comprensione di come sia possibile apprendere a vivere in modo diverso, meno disfunzionale, cioè malato. […]

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (272): Conoscere (se stessi e gli altri) con le emozioni e conoscere le emozioni

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Domenica 4 settembre 2011

Grazie a Umberto Galimberti, ho scoperto nel 1992 – quando uscì presso Garzanti il suo Dizionario di psicologia – «l’errore di Cartesio», che non è dato tanto dal dualismo mente-corpo quanto dalla contrapposizione rigida tra intelletto e sensi, ragione ed emozione. Che tutto ciò che non è ragione sia stato ‘estromesso’, depotenziato come sragione, non-ragione, ed escluso dal campo degli oggetti degni di considerazione per scienza e filosofia non ha avuto conseguenze di poco conto. 
La scoperta successiva dell’opera di Antonio Damasio mi ha convinto della necessità di ‘superare’ l’astratto dualismo ragione-emozione, a vantaggio di teorie che studiano i rapporti tra pensiero ed emozione.
La tradizione ‘platonica’ dell’Occidente, tuttavia, ci tiene ancora fermi, soprattutto a livello di senso comune, al dualismo mente-corpo. I progressi delle scienze e le aperture della filosofia alle evidenze della scienza non ci consentono di dire che sia avvenuta la svolta antropologica tanto desiderata. Anche nei rapporti umani, nelle relazioni sentimentali, pesa come un macigno quella contrapposizione, per cui ci sentiamo soprattutto mente: il linguaggio quotidiano è fatto di impacci di ogni genere. Considerare il corpo di una donna, della propria donna, come oggetto di interesse primario è errore che non ci sarà facilmente perdonato. Si potrà obiettare che nell’età della spudoratezza persone che abbiano ancora un sentimento così forte del corpo – del corpo come altro da sé e come parte ‘bassa’, di cui è prudente parlare il meno possibile – sono solo vittime di un’educazione sentimentale sbagliata, ma apparteniamo alla nostra generazione: non possiamo certo ‘abbandonarla’ – come sono soliti fare i vecchi laidi e malati -, per andare a cercare un più umano sentire presso i giovani, che sono distanti come lo sono i nostri alunni, quasi sacri per me.

Tornando sull’opera maggiore di Ignacio Matte Blanco in questi giorni, riscopro la sua teoria dell’emozione. Comprendo meglio come fosse ‘infinita’ l’emozione sempre uguale che provavo quando appariva mia madre o quando da lontano sentivo la sua voce. La dolcezza di quell’emozione risuona ancora dentro di me. Chissà se quell’«esperienza infinita» – come Matte Blanco chiama l’emozione – è anche ‘eterna’! E’ certo che il suono di lei è ancora vivo.

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Dal Dizionario di psicologia di Galimberti si ricava facilmente l’idea della complessità delle questioni aperte (i testi risalgono al 1992):

Emotività (ingl. Emotivity; ted. Emotivitat; fr. Emotivité). Capacità di provare emozioni (v.), che può essere scarsa, normale, eccessiva a seconda del modo e dell’intensità di reazione dell’individuo ai vari stimoli che riceve. Presente a diversi livelli in ogni individuo, quando risulta preponderante rispetto ad altri tratti caratteriali si parla di «personalità emotiva» caratterizzata da un eccesso di reazioni agli stimoli e da fragilità psichica, con conseguente difficoltà nell’adattamento socio-ambientale. Decisiva in questo campo è la categoria dell’intensità perché stati emotivi moderati sono generalmente tonici e salutari, mentre quelli più forti hanno conseguenze debilitanti e disgregatrici. Ricerche sperimentali condotte da R.M.Yerkes e J.D.Dodson hanno mostrato che quanto più è difficile il compito da svolgere, tanto maggiore è l’effetto disgregante dell’intensità emotiva. Le differenze emotive individuali di carattere permanente sono espresse dal temperamento (v.), le disposizioni transitorie dall’umore (v.). Stati emotivi persistenti possono provocare malattie psicosomatiche, come pure un’eccessiva rimozione o repressione del vissuto emotivo (v. psicosomatica, § II).

Bibliografia
Riva A., Genesi e dinamica della vita emotiva in Nuove questioni di psicologia, La Scuola, Brescia, 1972, vol. I
Yerkes R. M., Dodson J. D., The relation of strength of stimulus to rapidity of habit-formation, in «Journal of Comparative Neurology and Psychology» 1908, n. 18


Emotivo-razionale, Terapia, v COGNITIVISTA, terapia

Emozione (ingl.   Emotion, ted.  Gemutsbe wegung, fr. Emotion). Reazione affettiva intensa con insorgenza acuta e di breve durata determinata da uno stimolo ambientale La sua comparsa provoca una modificazione a livello somatico vegetativo e psichico Le reazioni fisiologiche a una situazione emozionante investono le funzioni vegetative come la circolazione, la respirazione, la digestione e la secrezione, le funzioni motorie tramite un’ipertensione muscolare, e quelle sensorie con vari disturbi alla vista e all’udito. Le reazioni viscerali si manifestano con una perdita momentanea del controllo neurovegetativo, con conseguente incapacità temporanea di astrazione dal contesto emozionale. Le reazioni espressive riguardano la mimica facciale, gli atteggiamenti del corpo, le abituali forme di comunicazione. Le reazioni psicologiche si manifestano come riduzione del controllo di sé, difficoltà ad articolare logicamente azioni e riflessioni, diminuzione delle capacità di metodo e di critica 

I. NATURA E STRUTTURA DELL’EMOZIONE — Circa la natura dell’emozione, due sono le teorie che si contrappongono: quella innatistica di Ch. Darwin,  secondo cui le manifestazioni emotive sono residui di risposte un tempo funzionali al processo evolutivo (ad esempio, il riso beffardo sarebbe il residuo del ghigno ringhioso con cui l’animale si prepara ad attaccare), e quella antiinnatistica, che si basa sulla constatazione che molte emozioni hanno un significato diverso da cultura a cultura e, nello stesso soggetto, da momento a momento, per cui è impossibile stabilire una corrispondenza tra situazione ed emozione, mentre è probabile un’interpretazione dell’emozione come variabile individuale nella logica della regolazione, quindi come l’effetto di un’indivi­duazione dei meccanismi omeostatici (v.  OMEOSTASI).

Se c’è contrasto interpretativo sulla natura innata o acquisita dell’emozione, ce n’è meno sulla sua struttura che prevede tre fasi: percezione, commento, ammortizzamento: a) La prima fase corrisponde alla percezione di una situazione o alla sua evocazione che genera una destabilizzazione a tutti i livelli di organizzazione, dove è impossibile stabilire un rapporto di proporzionalità tra stimolo e risposta Questa fase può essere istantanea o differita, in questo secondo caso la reazione è più forte e dura più a lungo. In ogni caso non c’è percezione che non sia accompagnata da tonalità emotiva. b) La seconda fase è caratterizzata da uno stato di tensione connotato da «privazione» degli abituali schemi di organizzazione a cui il soggetto solitamente ricorre, e «potenzialità» per una nuova attualizzazione del campo di possibilità. Quanto più ampio è lo scarto tra privazione e potenzialità, tanto più duraturi e destrutturanti finiscono con l’essere gli effetti dell’emozione. e) La terza fase è caratterizzata dall’en­trata in gioco dei meccanismi omeostatici che ristrutturano schemi di risposte organizzate producendo distensione, che non è un ritorno allo stato precedente la tensione, ma un guadagno organizzativo ottenuto dalla potenzialità liberata dalla destrutturazione.

II. CLASSIFICAZIONE DELLE EMOZIONI — La Classificazione delle emozioni differisce in base ai principi di ordinamento che si adottano.

1. Principi logici. Questo criterio risale ad Aristotele che incluse le emozioni nella categoria della passività, in quanto «passioni» e non «azioni» (Categorie, 9 b, 27-34). Aristotele riteneva anche che le emozioni hanno relazioni con l’apparato cognitivo, perché si lasciano modificare dalla persuasione (Retorica, II). Dello stesso parere erano gli Stoici, che consideravano le emozioni giudizi irrazionali distinguibili dalla qualità dell’evento «buono» o «cattivo» e dalla sua «presenza» o «attesa», che consentono di determinare quattro emozioni principali: il desiderio per un evento buono e atteso, la paura per un evento cattivo e atteso, la gioia per un evento buono e presente e il dispiacere per un evento cattivo e presente. In epoca medioevale, oltre alla categoria della qualità dell’evento e della sua presenza, la classificazione si arricchì dell’intenzionalità verso eventi atemporali, che consentì di includere tra le emozioni anche la speranza e la disperazione Con la filosofia moderna le emozioni sono state contrapposte alla ragione e considerate alla base di tutti i comportamenti irrazionali, da quelli religiosi a quelli morali, dove si evocano emozioni più di quanto non si stabiliscano dei fatti, fino alla fondazione kantiana della morale come esclusione di tutte le emozioni. Col positivismo di fine secolo le emozioni furono considerate coscienza di eventi fisiologici, mentre con la fenomenologia della prima metà del nostro secolo furono lette o come sentimenti ontologici, perché pongono l’uomo di fronte non a questa o quella cosa, ma di fronte alla totalità (M.Heidegger), o come tentativi di ristabilire un rapporto col mondo dopo un’improvvisa destrutturazione (J.P.Sartre), confermando la natura dell’uomo come originariamente intenzionato a un mondo (v. analisi esistenziale).

2. Principi psicologici. In questo ambito nascono classificazioni che non sono dedotte dal «significato» dell’emozione, ma indotte dal comportamento nel suo adattarsi o disadattarsi alla situazione. Così C.E.Osgood assume come criteri la piacevolezza (P), l’attivazione (A) e il controllo (C) della situazione, dalla cui diversa combinazione risultano le emozioni fondamentali come la gioia (P+, A+, C neutro), la compiacenza (P+, A-, C neutro), la ripugnanza (P-, A+, C+), l’orrore (P-, A+, C-), la noia (P-, A-, C+) e la disperazione (P-, A-, C-). R.Plutchik cataloga le emozioni in base ai processi adattivi del comportamento per cui avremo la paura (protezione), la rabbia (distruzione), la tristezza (reintegrazione), la gioia (riproduzione), l’accettazione (affiliazione), il disgusto (rifiuto), l’attesa (esplorazione) e la sorpresa (orientamento). Da queste emozioni considerate primarie C.E.Izard ricavò quelle complesse, come ad esempio l’amore, che è un misto di gioia e accettazione. Questi due modelli sono paradigmatici del modo di procedere in ambito psicologico dove o si identifica un piccolo numero di emozioni fondamentali dalla cui combinazione nascono quelle complesse, o si identificano pochi attributi fondamentali di molte emozioni dalla cui combinazione nascono le diverse emozioni. Come si vede i due approcci sono sostanzialmente empirici, perché nulla vieta di considerare come emozione fondamentale quella che nell’altra catalogazione è un attributo di molte emozioni.

3. Principi sociologici. In questo ambito si distinguono emozioni «egoistiche», che possono essere di affermazione di sé o di difesa di sé, emozioni «altruistiche» che vanno da quelle sessuali e familiari a quelle propriamente sociali, ed emozioni «superiori» che producono tonalità affettive che oltrepas­sano la sfera lo-Tu, per abbracciare il sociale o l’umano. In questo ambito le emozioni vengono considerate in relazione alle ideologie, alla convalida e al rafforzamento delle convinzioni di gruppo, alla frequenza di determinate emozioni a seconda dello stato sociale, della cultura di appartenenza, dell’or­ganizzazione gerarchica o egualitaria della società.

4. Principi biologici. Considerando le emozioni in relazione ai sistemi biologici a cui sono connesse si ottengono classificazioni che, rispetto alle precedenti, godono di un maggior grado di oggettività, anche se di un minor indice di senso perché, come osserva Sartre, «certe modificazioni quantitative e, perciò stesso, quasi continue nelle funzioni vegetative, come possono corrispondere a una serie qualitativa di stati fra loro irriducibili? Per esempio, le modificazioni fìsiologiche che corrispondono alla collera non differiscono che per intensità da quelle che corrispondono alla gioia (ritmo respiratorio un po’ accelerato, leggero aumento del tono muscolare, accrescimento degli scambi biochimici, della pressione arteriosa, ecc.): e tuttavia la collera non è una gioia più intensa, è ben altro» (1939, p. 121). A criteri biologici rispondono le classificazioni di A.F.Ax, che predispose un piano di rilevatori fisiologici della risposta emotiva (velocità del polso, battito cardiaco, respirazione, temperatura del viso, temperatura delle mani, riflesso cutaneo galvanico, cor­rente d’azione muscolare registrata al di sopra degli occhi) e poi, individuata l’emozione, prese a studiare i tipi di reazione che variavano da soggetto a soggetto per cui, ad esempio, in presenza di un’emozione di rabbia c’era chi reagiva con l’ira e chi con l’ansia. Invitando i soggetti a descrivere l’emozione di base, non si migliorava il risultato perché le risposte avvenivano in termini che non illustravano l’emozione, ma descrivevano le circostanze di attivazione, cioè quello che li aveva mandati in collera o aveva fatto loro piacere o dispiacere.

III. INTERPRETAZIONE DELLE EMOZIONI. — Esistono diverse interpretazioni che si rifanno ai prin­cipi che hanno consentito una suddivisione delle classificazioni. Tra le più significative ricordiamo le seguenti:

1. La teoria di Darwin offre una lettura evoluzionistica nell’interpretazione delle emozioni fondata su tre principi: a) il principio delle abitudini associate, per cui, se lottando si mostrano i denti, questo atteggiamento diverrà il modo di esprimere la collera, se si sporgono le labbra per sputare questo movimento verrà adottato per esprimere ribrezzo; b) il principio dell’antitesi, per cui, se il rannicchiarsi è un movimento con cui ci si difende da un’aggressione, l’aprirsi del corpo indicherà l’emozione contraria; e) l’azione diretta del sistema nervoso, per cui alcune reazioni come quella di tendersi e contorcersi nel dolore sono un’intensa e diffusa risposta fisiologica, che oggi si chiamerebbe «attivazione», che poi viene assunta per «abitudine associata». Il principio evoluzionistico della teoria di Ch. Darwin potrebbe giu­stificare l’ipotesi diffusa che nell’emozione vi siano delle componenti primitive tra cui il controllo esercitato su di essa dalle parti più antiche del cervello.

2. La teoria di James-Lange sostiene l’importanza della risposta somatica nella percezione soggettiva delle emozioni per cui «si ha paura perché si scappa», «si prova ira perché ci si scontra fisicamente». Questa interpretazione, pur nella sua paradossalità, sottolinea il fenomeno di retroazione o feedback delle risposte somatiche scatenate dalle emozioni, per cui se qualcuno ci insegue scappiamo prima di avere il tempo di riconoscere il nostro stato emotivo. La plausibilità della teoria è proprio nel fatto che il riconoscimento dell’emozione avviene dopo la risposta fisiologica.

3. La teoria funzionalista elaborata da J.Dewey integra le teorie di Darwin e di W.James e C.G.Lange, interpretando le emozioni come funzioni psichiche che permettono una valutazione delle situazioni ambientali in funzione dell’adeguamento. Le emozioni si accentuano in presenza di un grave ostacolo che impedisce l’attività adattiva, per cui se la lotta e la fuga sono attività adattive, i loro connotati emozionali sono modesti se esse possono realizzarsi, si fanno invece più acuti assumendo i toni della rabbia o della paura se un ostacolo impedisce l’azione. La connessione tra cattivo adattamento e reazione emotiva è stata sottolineata anche da P.Janet, che definisce l’emozione «reazione dello scacco», descrivendola come una forma di comportamento non riuscito o di grado inferiore al buon adattamento. Una funzione adattiva e non di «scacco» è sostenuta da S.Hall e J.R.Angeli, esponenti del funzionalismo americano. Secondo quest’ultimo, «le emozioni sembrano in rapporto solamente con l’organismo fisico e così strettamente connesse con le strutture del corpo attraverso l’eredità, che servono a proteggere dal male o a conseguire dei vantaggi, senza l’intervento della riflessione» (1904, p. 26). L’aspetto comune alle posizioni a orientamento funzionalista è nel porre l’attenzione sul significato delle funzioni emotive anziché sulla loro descrizione, e sulla relazione dell’emozione all’ambiente anziché alla coscienza o al sistema nervoso.

4. La teoria gestaltica interpreta l’emozione come l’effetto di buona o cattiva forma che l’ambiente assume agli occhi dell’individuo: «Un paesaggio — af­ferma K.Koffka — può apparire triste anche se personalmente siamo del tutto allegri. Un pioppo non può forse apparire superbo? Una giovane betulla timida? E non ha forse Wordsworth immortalato la gioia degli asfodeli?». Questi connotati emozionali delle nostre percezioni non sono solo il frutto delle proiezioni dei nostri stati d’animo all’esterno, ma derivano dalle forme (Gestalten) secondo le quali i dati esperienziali si organizzano nella nostra percezione. La percezione è sempre un’attribuzione di significato, e che uno stimolo risulti emotigeno è già di per sé un’attribuzione di significato.

5. La teoria comportamentista di J.B.Watson interpreta l’emozione come una risposta periferica dell’organismo a stimoli periferici. A partire da questo principio Watson individua tre emozioni fondamentali: la paura, come risposta a rumori molto intensi o a mancanza d’assistenza, la collera, come risposta al disagio provocato da fasciature troppo strette, l’amore, come risposta alle carezze e al dondolamento. Tutte le altre emozioni si instaurano nell’organismo mediante un processo di condizionamento a partire dalle tre emozioni primitive lette come risposte periferiche a stimoli periferici.

6. La teoria omeopatica di W.B.Cannon assegna invece al sistema nervoso centrale il ruolo fondamentale nel meccanismo dell’emozione, per cui in risposta ad una stimolazione eccessiva, come avviene nel caso di una situazione emotiva, l’organismo libera una quantità di energia potenziale che consente la preparazione di reazioni intensive adeguate, anche se non disgiunte da una disorganizzazione dei comportamenti dovuti a questa liberazione energetica.

7. La teoria dell’attivazione sostenuta da M.B.Arnold e D.B.Lindsley integra gli elementi più validi della teoria periferalistica con quella centralistica di Cannon, perché sostiene che lo stimolo determina a livello della corteccia un eccitamento che a sua volta ha il doppio e contemporaneo effetto di suscitare un atteggiamento emotivo e di liberare schemi dinamici ipotalamici che si esprimono a livello periferico, le cui alterazioni vengono percepite come lo stimolo iniziale, e di rimbalzo modificano l’atteggiamento emotivo che ha sede nella corteccia.

8. La teoria percettivo-motivazionale accoglie della teoria dell’attivazione che l’emozione non è solo passione ma anche azione, precisando però che l’azione è anche «organizzazione», il che consente la costruzione di una sequenza che prevede: percezione-valutazione-emozione-espressione. Così, se l’emozione, termine medio di questa serie, si accosta a situazioni spiacevoli, innesca un’azione organizzata volta a evitarle e a porvi fine. R.W.Leper articola questa teoria in tre principi: a) non bisogna accentuare il carattere di rottura delle emozioni, perché i processi emotivi proseguono nell’organizzazione di comportamenti, b) questi comportamenti sono motivati, e) la motivazione è strettamente connessa alla percezione della situazione.

9. La teoria fenomenologica riprende la relazione emozione-motivazione in base al principio che l’uomo abita il mondo con senso. Un senso che l’emozione rende incerto e la motivazione ricostruisce a partire da un nucleo di certezze che permette di dirigersi verso oggetti che, dopo l’azione di incertezza provocata dall’emozione, la motivazione ri-conosce. L’incertezza provocata dall’emozione è dovuta alla sensazione di non poter evadere dal presente, per cui l’esistenza si trova costretta all’«in-sistenza» in un mondo senza passato e senza futuro. A restituire all’esistenza queste dimensioni temporali è la motivazione o ricerca di senso che spezza l’insistenza emotiva, dilatandola nelle dimensioni temporali che lo stato emotivo chiude. Sul piano dello spazio, la ricerca di senso apre all’esplorazione preclusa dall’emozioneche concentra lo spazio in un punto che sfugge ad ogni localizzazione possibile. L’emozione riflette la costrizione del mondo esterno che rende impossibile ogni rapporto; la ricerca di senso, che si esprime nella motivazione, proietta una necessità interna attraverso la quale un’interiorità si afferma su un ambiente. Nell’inte­razione di questi due momenti, il soggetto avverte il suo limite (emozione) come relazione (ricerca di senso, o motivazione).

10. La teoria psicoanalitica ritiene che le emozioni siano affetti (v.), ossia quanti di energia legati alle idee, e che la loro presenza alteri l’equilibrio psi­chico e interferisca nell’adattamento. In proposito H.Hartmann scrive: «Dal punto di vista della psicologia delle nevrosi, l’azione affettiva, in contrasto con l’ideale teorico dell’azione razionale, appare spesso come un misero residuo di condizioni mentali primitive e come una deviazione dalla norma. […] Tuttavia noi ben sappiamo la parte cruciale che l’affettività ha nell’organizzare e facilitare molte funzioni dell’Io. Questo intendeva Freud quando disse che non bisogna aspettarsi che l’analisi liberi l’uomo da ogni passione» (1939, p. 131). La psicoanalisi non ha accolto la distinzione introdotta da W.Mc Dougall nel 1908 tra emozioni primarie come la paura, l’ira, la tenerezza, ed emozioni complesse come l’ammirazione, l’invidia, il rispetto, perché spesso s’è trovata a interpretare emozioni semplici quale l’odio come conseguenze di quelle complesse come l’ira, o a supporre emozioni complesse come l’in­vidia all’inizio della vita psicologica.

11. La teoria insiemistica di I. Matte Blanco considera l’emozione come il prodotto di uno stimolo che è percepito come esterno anche se proviene dal nostro corpo, perché, «in quanto oggetto di percezione, anche il nostro corpo ci è alieno, cioè alieno alla nostra intimità» (1975, p. 289). Lo stimolo esterno è investito dal «pensiero dell’emozione» che differisce dal pensiero della vita ordinaria per tre caratteristiche: a) la generalizzazione, per cui l’oggetto sembra in possesso di tutte le caratteristiche che in via potenziale possono evocare l’emozione in esame. Così un’emozione d’amore nei confronti di una donna possiede, agli occhi dell’innamorato, tutte le possibili attrattive che evocano l’amore quale si può presumere non solo per quella donna, ma per tutte le donne nella loro capacità di suscitare amore; b) la massimizzazione, per cui le caratteristiche attribuite all’oggetto vengono considerate al loro grado più elevato; e) l’irradiazione dell’oggetto concreto a tutti gli altri, che in tal modo vengono ad essere rappresentati dall’oggetto stesso. Per questa ragione il pensiero emozionale non vede un individuo, ma un insieme o classe attraverso la generalizzazione, per cui la persona pericolosa diventa la «pericolosità» al massimo grado e in tutti i suoi aspetti. L’identità tra individuo e classe è il modo proprio di pensare dell’inconscio, per cui l’emozione è un pensiero inconscio che pensa «per collezione di insiemi infiniti» (1975, p. 304).

12. La teoria cognitivista ritiene che la risposta emozionale non sia da cercare nella reazione fisiologica o in quella comportamentale, perché questi sono solo sottoprocessi di quel processo che è la valutazione cognitiva dell’informazione in ingresso, a sua volta legata al significato che soggettivamente attribuiamo alle esperienze che andiamo facendo. K.H.Pribram sostiene che ogni individuo, quando si trova in situazione di disquilibrio con l’ambiente, mette in atto dei piani di comportamento elaborati dalla mente prima che qualsiasi sequenza comportamentale abbia inizio. L’emozione insorge quando il piano di comportamento non può essere effettuato e quindi non può essere raggiunta la situazione di equilibrio con l’ambiente. Si attiverebbero allora, come conseguenza dell’emozione, dei «piani di arresto» dell’azione che innescano una fase nuova di raccolta di informazioni per la programmazione di nuovi piani. Quando, dopo reiterati tentativi, non si riesce a superare il blocco dell’esecuzione del piano, allora si ha una sorta di «regressione» verso piani comportamentali più primitivi come la fuga, l’aggressione o tutti quei comportamenti emotivi che indichiamo come conseguenza di una «perdita di controllo». Le reazioni emotive non sono solo connesse alle attività cognitive, ma questa connessione è al servizio dei bisogni biologici, perché lo scopo origi­nario per cui si sono evolute le capacità cognitive è, secondo Plutchik, «quello di mettere in grado l’organismo di costituirsi una mappa del suo ambiente e di predire il futuro in riferimento al significato emozionale o motivazionale degli eventi circostanti» (1980, p. 38). In questo senso va interpretata l’ipotesi cognitivista secondo cui i processi cognitivi si sviluppano all’interno e a partire dalle esperienze emozionali, intese come la prima forma secondo cui l’organismo si orienta nel suo ambiente al fine di soddisfare i suoi bisogni biologici. In questa ipotesi il numero e l’intensità delle emozioni è inversamente proporzionale alla quantità di informazioni di cui ciascun individuo dispone.

IV EMOZIONE E MOTIVAZIONE — Gli stati emotivi agiscono sia come motivo sia come concomitante del comportamento motivato. Il sesso, ad esempio, non è solo una fonte di vissuti emotivi, ma anche una potente motivazione che determina un comportamento, allo stesso modo un’emozione paurosa spinge alla fuga, così come una gioiosa promuove una ricerca della sua ripetizione Tra le emozioni che promuovono un comportamento motivato ricordiamo:

1. La paura (v.), che promuove una tendenza ad evitare quelle situazioni in cui è probabile che si manifesti l’oggetto o l’evento temuto. Nelle sue forme estreme la paura assume quegli aspetti patologici noti come fobie (v.), che determinano pesantemente la condotta di chi ne soffre. Oggetto di fobia possono diventare i luoghi chiusi, quelli aperti, gli animali, lo sporco, le malattie e qualunque cosa caricata di un alto valore emotivo.

2. L’ansia (v. angoscia), che è una paura senza oggetto, e quindi indeterminata, che condiziona il comportamento in termini positivi quando i valori d’ansia sono a livelli bassi, destrutturanti quando sono a livelli elevati, dove tutto sembra minaccioso e invivibile

3. La gelosia (v.) che, come emozione carica del timore di perdere l’affetto di una persona a favore di un terzo che interviene nella situazione affettiva, promuove comportamenti di controllo, reazioni violente, atteggiamenti ostili, dove l’emozione non agisce solo come stato di eccitazione dell’individuo, ma anche come motivazione di determinati comportamenti.

4. L’ira (v.) che, come frustrazione dell’attività che tende a uno scopo, è riscontrabile in ogni sequenza motivazionale interrotta. Risvegliata, l’ira scatena un’attività di rappresaglia contro l’oggetto o la persona ritenuti responsabili dell’interruzione della sequenza.

5. Il riso (v.) che, come emozione piacevole in se stessa, promuove comportamenti in grado di ottenerlo. Sottesa al riso c’è una scarica di tensione che l’organismo avverte come piacevole e ne va alla ricerca.

6. Il pianto (v.), che promuove comportamenti connessi al rapimento che può destare l’ascolto di una musica o la contemplazione di un panorama, al cordoglio che, espresso, produce sollievo, alla partecipazione affettiva al dolore altrui, e all’autocompassione che lenisce un’ira impotente Questi esempi mostrano come alcune emozioni forniscano un commento al comportamento motivato, dove è contenuto un segnale che si sta verificando qualcosa di importante dal punto di vista motivazionale

V. EMOZIONE E TENSIONE — II binomio motivazione ed emozione è alla base dell’intero campo affettivo e lo si può descrivere in termini di tensione, dove si esprime il rapporto ambiguo tra interiorità ed esteriorità, che è anteriore alla forma conflittuale che lo esprime Tale tensione si manifesta in ogni essere come tendenza all’apertura e alla chiusura, senza che sia possibile raggiungere l’una o l’altra se non a rischio di un’inevitabile destrutturazione Il processo di oggettivazione della tensione si realizza secondo tre modelli:

1. Riduzione della tensione, per cui tutte le azioni sono interpretabili secondo il modello omeostatico, come riduttori di tensione in vista dell’autoconservazione Naturalmente questa riduzione non deve arrivare all’eliminazione della tensione, perché altrimenti si avrebbe la stasi del sistema e la cessazione di ogni interazione tra individuo e mondo.

2. Produzione di tensione, constatabile in ogni azione che oltrepassa la visualizzazione logica del sistema in cui l’azione si esprime. Questo «altrove» rispetto alla visione logica è quello che S.Freud chiama, ad esempio, Es (v.), dove resistenza diventa una pura constatazione non giustificata e non giustificabile logicamente, perche «è», prima di potersi esprimere in conformità a un disegno. Nell’intervallo tra resistere immotivato e la ricerca di mo­tivazioni si danno le condizioni per la produzione di tensione.

3. Deduzione della tensione dalle relazioni che la esprimono. Le relazioni danno forma alla tensione, e questa forma permette di rappresentare resistenza tensionale. La tensione, che dal punto di vista esistenziale è privazione, dal punto di vista insistenziale è potenzialità. Da questa asimmetria si comprende perché la tensione superi qualsiasi rappresentazione che tenti di raffigurarla, e possa solo essere seguita nel suo divenire, e sentita, per dirla con I. Kant, come «esigenza incondizionata».

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CAMMINARSI DENTRO (271): Deliri del terzo tipo

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Domenica 4 settembre 2011

Non sono frivolo. Posso dire di non essere frivolo. Timido, sì. E sensibile alla bellezza femminile. Ma frivolo al punto da mettere in pericolo l’equilibrio generale della mia vita, no.
Mi piace raccontare un apologo inventato da me, e raccontarlo come se fosse vero. Entro in Sala dei Professori. Noto che in fondo al lungo tavolo che campeggia al centro della Sala c’è una collega bellissima intenta a leggere. Mi pongo sempre il quesito: entro, saluto e me ne vado? oppure, entro, saluto, mi siedo intorno al tavolo, a una certa distanza a fare le mie cose? oppure, entro, saluto, mi avvicino alla collega, mi siedo di fronte a lei e dopo aver finto di fare le mie cose mi metto a parlare con lei?
Nel primo caso, decido di andar via perché so che è preferibile così: non mi avventuro con l’immaginazione, spingendomi fino ad intrecciare una relazione sentimentale con la collega, come accade che si ritrovi a fare la mente estatica.
Nel secondo caso, debbo dimostrare a me stesso che posso benissimo stare accanto a lei, a pochi metri da lei, magari fare le mie cose, senza rimpianti dopo essere andato via.
Nel terzo caso, mi accingo senz’altro a inaugurare una condotta di malafede, entrando e andando a sedere vicino a lei: il tavolo è lungo e vuoto, per cui non è indispensabile avvicinarsi a lei. Invece, è proprio quello che io faccio, serenamente convinto di non correre pericoli. Dopo tutto, una bella donna non ha mangiato mai nessuno! Naturalmente, c’è di peggio che essere mangiati… Ad esempio, può darsi che quella austera presenza resti a lungo tale, assorta nei suoi pensieri e presa dalle sue cose. Ma la situazione rivelerà presto tutta la sua carica emotiva quando lei risponderà al rito della chiacchiera di circostanza. Da quel preciso istante sarò io a decidere se di sola chiacchiera di circostanza si tratta oppure no. 
La mia frivolezza potrebbe portarmi a concludere senza costrutto che qualcosa è accaduto: che il suo sguardo, che la sua voce, che le parole… insomma, che quella austera presenza ha cessato di essere austera quando le ho rivolto la parola. E da lì, chi potrebbe impedirmi di mettere in moto la macchina dell’illusione, immaginando scenari di sogno, tutti senza fondamento!? 
Se veramente una presenza austera cessa di essere per noi austera presenza e si apre all’evidenza del nostro apparire e prende a dare senso ad esso, allora dobbiamo sicuramente incominciare a porci il problema delle conseguenze della nostra scelta. Non dovremo sottovalutarne le conseguenze.

Io credo che sia sempre così: che la vita ci venga incontro nei modi più disparati e che poi tocchi a noi decidere se arriva alle nostre orecchie una composizione di Bach o solo una canzone di Cole Porter.
Ci sono segni inequivocabili del Destino che ci appartengono e ad essi ‘ci arrenderemo’, anche senza valutare le conseguenze delle nostre scelte. Questo accade quando, anche nel terzo caso, si tratta solo di una bella canzone d’amore che durerà il tempo di una canzone d’amore: ci risveglieremo presto, magari felici di aver sognato, ma torneremo a fare le nostre cose.
Accade, però, anche quello che non possiamo prevedere e che pure può essere ricavato dai segni che si mostrano inequivocabili allo sguardo: le nostre orecchie avvertiranno il pericolo. La sua voce prometterà cieli nuovi e terre nuove, ma è saggio credere alle promesse? prestar fede a tutte le voci che parlano al nostro cuore, non importa per lasciar intravvedere solo un timido e occasionale spiraglio o una distesa di luce, che non si comprende bene se sia prodotta da quella fonte di luce o se siamo noi la lampada che diffonde luce intorno, con i trucchi di radianza che tanto piacciono al cuore? E’ facile sentirsi inondati di luce in un mattino d’inverno, in una vecchia scuola, in una Sala qualsiasi, intorno a uno dei tanti tavoli di cui sono pieni le Scuole, mentre una austera apparizione ci parla già, prima di iniziare a parlare, di cieli nuovi e terre nuove, del miele dell’acacia e del vento che sbatte alle finestre insistente! Non è forse meglio consistere lì, ora, e sentire improvvisamente il sentore d’eterno che ci vuole per far essere evento un semplice incontro occasionale che si è dato in una Sala qualsiasi, di una Scuola qualsiasi? Era un giorno qualsiasi della nostra vita, ma è proprio questo che non potevamo sopportare a lungo. Ci è sembrato giusto fare di quella austera presenza una vera presenza per noi. Siamo andati oltre il suo mero apparire. Le abbiamo chiesto di consistere per noi oltre l’attimo breve di un’ora e basta. Abbiamo chiesto l’istante eterno che non passa e che è destinato a restare nel nostro cuore, intervallo ampio e divertito stupore. La felicità segreta appena intravista è allegra deriva già e attesa! Il confidente abbandono che concediamo a quel nunc è esattamente ciò che ci salverà o che ci perderà. Tutto dipende dalla nostra frivolezza. Solo il Tempo provvede ad istituire file di continuità per noi, ma perché sia dono occorre un altro sguardo, un altro cuore, un’altra voce.

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CAMMINARSI DENTRO (270): Lo statuto dell’Ascolto

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Sabato 3 settembre 2011

A proposito di “emozioni degli operatori nella relazione di aiuto”, c’è da dire che non si tratta certo di simpatia o di antipatia, di attrazione o di amicizia… E’ in questione, qui, il ritmo dell’intervento, la qualità delle idee, la tonalità dell’umore, l’impiego della voce, la distanza emotiva, l’impianto generale del ‘lavoro’ che con una persona è di un certo tipo e con un’altra sarà sicuramente diverso. Interrogarsi su quello che si fa in un Centro di ascolto non è domanda peregrina. Dopo ventidue anni, io mi chiedo ancora cosa sia tutto ciò che interviene a favorire il successo o l’insuccesso di una ‘presa in carico’.

Potrei riassumere ogni preoccupazione al riguardo nella ricerca dello statuto dell’Ascolto. Alla data di oggi mi sembra che le direzioni della ricerca – di una ricerca in corso – siano cinque:

  • la relazione d’aiuto (che tipo di relazione è la relazione d’aiuto?);
  • il colloquio di motivazione come terreno elettivo dell’incontro con l’altro (che cos’è un colloquio?);
  • le emozioni degli operatori implicate nella relazione d’aiuto (quali emozioni intervengono a favorire/ostacolare il ‘progresso’ della relazione?);
  • il tempo della coscienza nell’operatore (nei processi empatici che si attivano come è operante il sentimento del tempo?);
  • la voce umana quale ruolo svolge nella relazione?

Le risposte parziali di cui dispongo sono le seguenti:

  • la relazione d’aiuto è relazione sociale;
  • nel colloquio con se stessi e con l’altro, la verità è il tono di un incontro;
  • le emozioni implicate nella relazione sono tutte relative al tempo vissuto; il dinamismo etico da imprimere al ritmo della vita personale dell’altro è ‘veicolato’ da un’idea dell’esperienza come ‘cammino’ e non come ‘vissuto’; ‘camminare’ è possibile, a condizione che il tempo della coscienza sia ‘curato’;
  • il tempo con i suoi ritmi è scandito da resistenze e ambivalenze, angustia della mente e apatia dei sensi, quando non anche aridità del cuore; il tempo debito atteso non è la giusta distanza ma la qualità dell’accordo;
  • la voce è la via d’accesso all’invisibile dell’esperienza personale.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (269): «L’emozione è la madre del pensiero»

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Sabato 3 settembre 2011

Sono partito oggi dalla seguente affermazione: «l’emozione è la madre del pensiero» per tornare sull’opera di Ignacio Matte Blanco, in cui sarebbe stata rinvenuta da Silvia Biferale e Rita Toti (Il corpo della voce, la voce dell’ascolto), per risalire a Sartre e a Marianella Sclavi: in questione erano le emozioni, di cui mi preme fissare la portata e l’azione nella relazione d’aiuto.

Le sette regole dell’arte di ascoltare di Marianella Sclavi:

1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.

2. Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva.

3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché.

4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai com-prendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.

5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze.

6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.

7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sè.

L’enfasi assegnata alla quarta regola proposta da Marianella Sclavi corrisponde all’esigenza di approfondire la questione delle emozioni degli operatori implicate nella relazione d’aiuto.

Prenderò da lontano l’argomento. Il giorno 8 luglio 1970 ho acquistato il volume di Sartre edito da Bompiani che comprende L’immaginazione (pp.9-140) e Idee per una teoria delle emozioni (pp.143-198). Assieme a La trascendence de l’Ego. Esquisse d’une description phénoménologique (1938) – che tradussi dal francese per me – e a L’essere e il nulla, il breve saggio fu alla base della mia tesi di laurea, intorno alla quale lavorai per tre anni.

Il saggio Idee per una teoria delle emozioni risale al 1939. Lo psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, in fondo alla sua opera maggiore – L’inconscio come insieme infiniti. Saggio sulla bi-logica, del 1975, edito da Einaudi nel 1981 – dedica un’importante Appendice a Sartre: L’emozione, il magico il «numinosum» e l’infinito. Un commento a Sartre (pp.509-515). Egli dichiara che Sartre è arrivato venti anni prima di lui alle stesse conclusioni, a proposito del carattere delle emozioni, e che l’opera di Sartre è suscettibile di notevoli sviluppi; che L’inconscio come insiemi infiniti procede ‘parallelamente’ all’opera sartriana, fornendo della natura dell’emozioni delle spiegazioni più accurate e verificabili. I riferimenti all’opera sartriana, cioè le citazioni che propone estesamente, ci guideranno nel nostro ragionamento.

L’emozione è una certa maniera di cogliere il mondo.

Ora possiamo intendere che cos’è un’emozione: è una trasformazione del mondo. Quando le vie tracciate diventano troppo difficili o quando non scorgiamo nessuna via, non possiamo più rimanere in un mondo così pressante e così difficile. Tutte le vie sono sbarrate, eppure bisogna agire. Allora tentiamo di cambiare il mondo; cioè di viverlo come se i rapporti delle cose con le loro potenzialità non fossero regolati da rapporti deterministici ma dalla magia… Questo tentativo… è, prima di tutto, l’apprensione di rapporti e di esigenze nuove.

Non insisteremo sulla collera… che è, forse, di tutte le emozioni, quella il cui ruolo funzionale è più evidente.

La gioia è una condotta magica che tende a realizzare per incanto il possesso dell’oggetto desiderato come totalità istantanea. Questa condotta è accompagnata dalla certezza che presto o tardi il possesso sarà realizzato e cerca di fare delle anticipazioni su questo possesso.

Ci troviamo di fronte ad una forma sintetica: «per credere» ai modi di condotta magici, ci deve essere un disordine corporeo.

Tuttavia l’emozione, come tale, non assorbirebbe in tal modo la coscienza se cogliesse sull’oggetto solo l’esatta contropartita di ciò che essa è noeticamente (per esempio, a quest’ora, sotto questa luce, in queste circostanze un uomo è terrificante). Costitutivo dell’emozione è il fatto che questa coglie sull’oggetto qualcosa di infinitamente traboccante nei suoi confronti. Infatti vi è un mondo dell’emozione… in cui il rapporto delle cose con la coscienza è sempre ed esclusivamente magico… Un mondo: cioè sintesi individuali che hanno rapporti reciproci  e che posseggono qualitàogni qualità viene conferita all’oggetto solo mediante un passaggio all’infinito. Per esempio, questo grigio rappresenta l’unità di infinite valutazioni (Abschattungen) reali e possibili di cui certe sarebbero grigio-verde, grigio visto a una certa luce, nero, ecc. Parimenti le qualità che l’emozione conferisce all’oggetto e al mondo, le conferisce per l’eternità. Certo, se improvvisamente colgo un oggetto come orribile, non affermo esplicitamente che resterà orribile per l’eternità. Ma la sola affermazione dell’orribile come qualità sostanziale dell’oggetto è già in se stessa un passaggio all’infinito.

La coscienza può «essere-nel-Mondo» in due maniere differenti. Il mondo può apparirle come un complesso organizzato di utensili tali che, se si vuole produrre un determinato effetto, si deve agire su determinati elementi del complesso. In questo caso, ogni utensile rinvia ad altri utensili e alla totalità degli utensili… modificare un utensile particolare e questo per mezzo di un altro utensile, che rinvia a sua volta ad altri utensili e così di seguito, all’infinito. Ma anche il mondo può presentarsi come una totalità non-utensile, cioè modificabile senza intermediario e a blocchi. In questo caso, le classi del mondo agiranno immediatamente sulla coscienza, le sono presenti «senza distanza»… Questo aspetto del mondo è del tutto coerente, è il mondo «magico». Chiameremo emozione una brusca caduta della coscienza nel magico. O, se si preferisce, c’è emozione quando il mondo degli utensili svanisce improvvisamente e il mondo magico compare al suo posto.

I corsivi sono tutti di Matte Blanco.

Nella struttura de L’inconscio come insieme infiniti all’emozione è riservata la parte sesta: La natura dell’emozione.

Capitolo ventesimo: Un approccio fenomenologico psicoanalitico-logico (pp.237-245)
1. Giustificazione
2. Emozione, feeling, affetto e sentimento.
3. L’emozione appare come un evento psicofisico.
4. Nei suoi aspetti puramente psicologici l’emozione non è una manifestazione semplice ma rivela almeno due componenti fondamentali.
5. Sommario.
6. Un confronto tra questa ed altre concezioni dell’emozione.

Capitolo ventunesimo: Un esame più dettagliato della sensazione-sentimento (pp.246-261)
1. Il problema della terminologia e delle sue implicazioni.
2. Il passaggio dalla sensazione-sentimento all’immagine ed alla percezione.
3. Sensazioni inconsce.
4. Introspezione e tempo. L’attenzione e i suoi oggetti.
5. La possibilità di sensazioni «pure».
6. Sensazione e pensiero: rapporto con la coscienza maculare e periferica.
7. La «temporalità» del pensiero e l’«atemporalità» dell’emozione.
8. Sommario

Capitolo ventiduesimo: Il secondo componente dell’emozione: il pensiero (stabilimento di relazioni) (pp.262-278)
Premessa
1. Alcuni esempi.
2. Il pensiero implicito nell’emozione comporta generalizzazione, massimizzazione e irradiazione.
3. Espressione in termini di logica simbolica.
4. Un esame più dettagliato della logica del pensiero emozionale.
5. Sommario, prospettive e significato di questa visione.
6. Un confronto con la letteratura su quest’argomento.
Un commento

Capitolo ventitreesimo: Il problema della misurabilità dell’emozione: formulazione generale. Sensazione-sentimento e misurazione (pp.279-293)
Premessa
Un avvertimento
1. Introduzione: un compendio e qualche commento.
2. Identificazione dello stimolo.
3. La sensazione-sentimento nel suo aspetto orientato verso l’interno: gli aspetti «interni» o intimi.
4. Un breve sommario.
5. La differenza tra sensazione-sentimento maculare e periferica nel loro rapporto con la misurabilità.
6. Sensazione-sentimento, percezione e immaginazione.
7. Ulteriori osservazioni sulla coscienza maculare e periferica nella sensazione-sentimento.

Capitolo ventiquattresimo: Il problema della misurabilità dell’emozione: emozioni come insieme infiniti (pp.294-304)
Premessa
1. La possibilità di misurare l’«aspetto di pensiero» dell’emozione. Emozione come insieme infinito.
Alcune riflessioni sulla «sedietà» (chairness) e sulla femminilità.
I vari infiniti impliciti nell’emozione.
2. Emozione: non-misurabile e misurabile. Emozione come matrice del misurabile e come matrice del linguaggio.
3. Emozione: insieme infinito intensivo ossia insieme infinito entro limiti finiti?

Capitolo venticinquesimo: La funzione di traduzione e il quantum di intelletto-emozione (pp.305-335)
Premessa
1. Un esempio clinico.
Analisi logica del caso.
2. Un commento sulla’«inserzione laterale dell’istinto sulla mente».
3. Breve commento sul livello di complessità logica di questa visione.
4. Presenza, densità ed interazione tra relazioni simmetriche ed asimmetriche.
5. Funzione di traduzione, «luce» e «buio».
Un’annosa questione: vi è pensiero nell’emozione?
Un concetto generale che comprende pensiero e sentimento.
La «luce» e il «buio» del pensiero e dell’emozione.
6. Un esame ulteriore della relazione tra essere simmetrico ed asimmetrico. Origine strutturale delle dinamiche.
Il «riversarsi» dell’emozione nel pensiero o l’«estrazione» del pensiero dall’emozione.
7. Vari aspetti del lavoro di traduzione osservati in un esempio clinico.
Commento preliminare sui dati riportati.
Emozione simmetrica e consapevolezza (coscienza) asimmetrica.
8. Il quantum intelletto-emozione.
9. Le potenzialità della funzione di traduzione e il significato delle relazioni interpersonali.
Possibilità di misurare l’emozione come insieme infinito.
10. «Dov’era l’Es, sarà l’Io» (Freud 1933).
11. Il ruolo rispettivo del sollevamento della rimozione e della funzione di traduzione. I due tipi di barriera.

Capitolo ventiseiesimo: Il ruolo dell’emozione nella concezione psicoanalitica (pp.336-340)

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CAMMINARSI DENTRO (268): Destino e Responsabilità

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Mercoledì 31 agosto 2011

Quello che la cultura antica chiamava Destino – ma anche Necessità, Fortuna, Caso – noi chiamiamo Responsabilità: l’asse della Realtà si è spostato dal ‘cielo’ – in cui veniva proiettato il senso di ciò che accadeva ai singoli o che implicava scelta – alla ‘terra’ della coscienza personale.

Per quanto riguarda me, ho sempre detto ai miei alunni che mi ritengo interamente responsabile di tutto quello che mi accade, perché non lascio che le cose mi ‘accadano’, e se questo succede, se non posso prescindere da quanto può non dipendere da me, non mi appello a forze e ragioni esterne, ‘superiori’ a me, per darmene una ragione. Non c’è principio o ente che agisca per conto mio a mia insaputa.

Quando muore un uomo, tutte le persone care cercano faticosamente una ragione, una spiegazione, e se non la trovano – ma quando accettiamo ‘a cuor leggero’ che qualcuno a noi caro se ne vada? – si appellano al Destino. E’ vero che

Un uomo che muore a trentacinque anni è in ciascun punto della sua vita un uomo che morrà a trentacinque anni. Questo è ciò che Goethe chiamava l’entelechia. – Moritz Heimann

ma il senso comune, anche quando sia sostenuto da una fede religiosa e riscaldato dall’azione di una Provvidenza, non rinuncia a pensare che le sventure siano volute da una forza astratta superiore, sicuramente cieca. Non sa spiegarsi diversamente il morire e ogni altro enigma della vita individuale. Eppure, alla fine dei conti, che cosa spiega veramente un Destino proiettato fuori di noi e che interverrebbe solo in alcuni casi? Probabilmente, la ‘sopravvivenza’ di una credenza così importante deriva dalla mancanza di valide ‘alternative’ che valgano a spiegarsi ciò che in sé non sarebbe veramente inspiegabile, sicuramente inaccettabile.

E’ stato detto dell’uomo che è la creatura che non muore perché si ammala, ma che si ammala perché deve morire. La condizione mortale, che costituisce il vero Destino, la destinazione di ognuno di noi, può essere ‘esorcizzata’, allora, solo a condizione che il suo termine sia assunto dentro lo stesso orizzonte del vivere. Parlare di un’esistenza mortale può aiutare a comprendere il senso del morire, se impareremo a morire. A questo scopo serviranno sia l’imparare a vivere sia l’imparare a leggere. Ogni esercizio spirituale servirà il compito della coltivazione dell’anima. L’interiorità personale acquisterà ‘spazio’ e diventerà il ‘luogo’ del dialogo muto con se stessi.

In assenza di ogni altro ‘soggetto’ a cui far risalire le ragioni del nostro vivere e del nostro morire, tutt’al più resterà il Caso a costituire una ragione a cui appellarsi, per non ritrovarsi privi di ragioni di fronte all’imprevedibile e all’imponderabile, ma soprattutto di fronte all’Irreparabile.

Se, però, ogni tempo della nostra vita e ogni gesto da noi compiuto saranno ascritti a nostra esclusiva responsabilità – se non accamperemo pretesti, per allontanare da noi il peso della responsabilità -, tutto ci apparirà chiaro, soprattutto se inscritto nell’orizzonte della nostra condizione di mortali.

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