CAMMINARSI DENTRO (267): Un’altra voce

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Domenica 28 agosto 2011

Perché le parole dell’anno passato appar- tengono al linguaggio dell’anno passato / e le parole dell’anno prossimo attendono un’altra voce.
– THOMAS STEARNS ELIOT, Four Quartets, Little Gidding, II, vv.65-66

La contemplazione del tempo è la chiave della vita umana. E’ il mistero irriducibile sul quale nessuna scienza fa presa. – SIMONE WEIL, Quaderni, IV

La cognizione del dolore che portiamo in dote nella relazione d’aiuto proviene dall’esperienza ripetuta di contatto con l’esistenza spezzata e da un’esperienza di studio che coincide con quasi tutta la nostra vita. Non si tratta di accumulo di esperienze di lettura. Lo studio è stato coevo all’esperienza di intervento sul campo, a scuola e nel centro d’ascolto. C’è interazione tra un’esperienza e l’altra. La conoscenza condiziona l’azione educativa, che è guidata dalla conoscenza.
Il dolore di cui parliamo è la condizione di solitudine in cui si ritrova chi si è sottratto alla comunicazione significativa con le persone del mondo personale, chiudendosi in un ostinato silenzio degli affetti che non è scelta: la discontinuità del tempo della vita e la frammentazione interiore hanno generato la dissociazione e il sentimento della perdita. Incomprensioni e fraintendimenti hanno fatto il resto. Il farmaco lungamente cercato e finalmente trovato, nella sua ambivalenza, produce nuova infelicità: il disagio sottostante non viene certo curato. La ferita è solo ‘ricoperta’: le si impedisce di sanguinare, ma ad ogni timido ‘risveglio’ della coscienza, essa torna a produrre dolore. Allora, parliamo di fuga dalla libertà e dal dolore, per significare il bisogno di cure.
La tossicomania è una forma di autoterapia (Luigi Cancrini).  

L’apprendimento di ciò che si intende per addiction è il ‘risultato’ di infinite correzioni e integrazioni. A questa conoscenza, che non è un sapere, un astratto sapere disciplinare, il sapere di una sola disciplina, contribuiscono libri e scambi culturali diretti con persone a loro volta impegnate sul campo, psichiatri e filosofi, psicoterapeuti e giuristi, fondatori di comunità e genitori.

L’osservazione e la riflessione ininterrotte su ciò che accade sotto i miei occhi mi portano oggi a ‘concludere’ che la dimensione del tempo della coscienza, che più di ogni altra contraddistingue la condizione umana, subisce gravi alterazioni nella coscienza tossicomanica, che non è più la stessa, a causa delle condotte d’abuso.

Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. E’ inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro è l’attesa. – AGOSTINO, Le confessioni.

In ogni esperienza depressiva, in ogni forma di tristezza (“normale” o “patologica”), si fa evidente la discontinuità, la disarticolazione, del tempo interiore: del tempo vissuto. La metamorfosi del tempo interessa emblematicamente la dimensione del futuro, del presente del futuro agostinianamente inteso, attenuandosi e dileguandosi la speranza e l’attesa: si ha un futuro privato della speranza.

La contrazione del tempo dell’attesa e della speranza è accompagnata da una separazione del timore dalla speranza, come se fosse preferibile rinunciare al ‘futuro’, piuttosto che vivere angor e tristezza! Timidezza, insicurezza, senso di inadeguatezza, mancanza di consapevolezza, assieme ai dolori innominati conducono ad ansia e angoscia, i perturbanti per eccellenza, che non si lasciano domare facilmente, soprattutto quando sono il portato di momenti di dissociazione e di silenzio, se la comunicazione è stata interrotta da dinieghi e abbandoni. Non sentirsi (sufficientemente) amati è già preludio al fallimento, alla sensazione di scacco, di messa fuori gioco.
La macchina dell’illusione poi – una delle emozioni più distruttive – non viene anche messa in moto per anticipare affrettatamente il guadagno impossibile o difficile da ottenere? Precorrere i tempi e mettersi a consumare quello che non si ha (ancora) non è malattia del tempo? Non cerchiamo altra felicità, la felicità che non abbiamo, in ogni abbandono al regime delle chimere? E tutto ciò che c’è di malato nel nostro sentimento del tempo non dipende dal nostro presente?

E’ per questo che occorre un’altra voce, ma non la voce di una sola persona: altre voci interverranno a istituire file di continuità e a riparare l’infranto. L’amore che non abbiamo ricevuto – o che non abbiamo saputo, non abbiamo potuto accogliere -, per niente diverso da quello che un tempo pure ci è stato dato, con la sua continuità e la sua saggezza curerà la nostra parte malata. Torneremo a pensare di poter essere amati. Acquisteremo questa nuova sicurezza. In noi si daranno quelle file di continuità che sole costituiscono la forza di cui abbiamo bisogno per poter finalmente dire a ciò che merita che si dica sì e no a tutto ciò che ‘deprime’ e nega la nostra esperienza.
Chi si prenderà cura del nostro io bambino ci salverà, cioè ci restituirà la dimensione del presente del futuro, dell’attesa e della speranza.

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Rai Podcast Radio3 – I MAESTRI CANTORI: Gustav Mahler, un titano e i suoi interpreti

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Gustav Mahler, un titano e i suoi interpreti (7 ore di ascolto)

I MAESTRI CANTORI (8 agosto 2011) – 1/10
I caratteri generali dell’arte di Mahler, la sua rinascita nel secondo dopoguerra; le celebrazioni del 1960, primo centenario della nascita, a New York sotto il patrocinio dei più grandi direttori del tempo. Linee interpretative: Leonard Bernstein e i caratteri ebraici della Prima Sinfonia.

I MAESTRI CANTORI (9 agosto 2011) – 2/10
La genesi della Seconda Sinfonia, il rapporto con i Lieder; Pierre Boulez e la chiarezza polifonica e strutturale; tenerezza del Laendler austriaco e “umor nero” dello Scherzo.

I MAESTRI CANTORI (10 agosto 2011) – 3/10
La concezione passionale e drammatica del Mahler di Claudio Abbado nella Terza Sinfonia; il Settecento rivisitato del Minuetto, e l’elegia romantica del Corno di postiglione sentito come personaggio.

I MAESTRI CANTORI (11 agosto 2011) – 4/10
Una Sinfonia “non problematica” che incomincia dal fondo, dall’ultimo movimento già composto come Lied: la Quarta Sinfonia. Leonard Bernstein e il concetto di “rubato” adattato allo stile sinfonico.

I MAESTRI CANTORI (12 agosto 2011) – 5/10
La testimonianza interpretativa di Bruno Walter che conobbe Mahler da vicino; Mahler come un “secondo Schubert” nella storica esecuzione dei Kindertotenlieder registrata a Londra nel 1949 con la voce di Kathleen Ferrier.

I MAESTRI CANTORI (15 agosto 2011) – 6/10
La “marcia funebre” come categoria espressiva di Mahler; Dietrich Fischer-Dieskau e Daniel Barenboim interpretano il Lied del tamburino condotto al patibolo. La Quinta Sinfonia nell’interpretazione di Herbert von Karajan: l’estenuata dolcezza dell’Adagietto e la trionfante solennità del Finale.

I MAESTRI CANTORI (16 agosto 2011) – 7/10
Ancora sulla Quinta Sinfonia e il concetto espressivo di ‘marcia funebre’ nell’interpretazione di Hermann Scherchen: il collegamento con l’Espressionismo di Schoenberg e Berg. Il senso del ‘timbro puro’ di Scherchen nella Musica della notte n.2 della Settima Sinfonia.

I MAESTRI CANTORI (17 agosto 2011) – 8/10
Il Mahler di Giuseppe Sinopoli, il suo impeto drammatico nel primo brano del Canto della terra e nello Scherzo della Settima Sinfonia; una testimonianza di uno dei ‘maestri’ di Sinopoli, Dimitri Mitropoulos, in un movimento della Settima Sinfonia.

I MAESTRI CANTORI (18 agosto 2011) – 9/10
Caratteri generali dell’ultimo Mahler: il Canto della terra nell’interpretazione di Otto Klemperer del 1964 con due cantanti d’eccezione, Christa Ludwig e Fritz Wunderlich; il carattere ieratico di Klemperer e il senso d’angoscia del lungo Addio finale.

I MAESTRI CANTORI (19 agosto 2011) – 10/10
Il primo movimento della Nona Sinfonia come punto di arrivo di una parabola creativa ed equivalente strumentale del messaggio del Canto della terra; la poetica del frammento, il pessimismo temperato in una luce di utopia nella interpretazione di Leonard Bernstein con la Filarmonica di Berlino.

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Film documentario – durata: 1:29:12 – sulla vita e l’opera di Gustav Mahler, trasmesso da Classica TV in occasione del centenario della morte. Con Hernry-Louis De La Grange, Claudio Abbado, Pierre Boulez, Philippe De Chalendar, Daniele Gatti, Thomas Hampson, Daniel Harding, Jonathan Nott.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (266): Leggere Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi di GUSTAVO PIETROPOLLI CHARMET (2008), LATERZA

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Sabato 27 agosto 2011

Gli adolescenti di oggi però, a differenza degli adolescenti studiati dai pionieri della psicoana- lisi nei primi decenni del secolo scorso, non vogliono «uccidere sim- bolicamente» il padre e la sua legge, per il semplice motivo che non hanno più alcun motivo di farlo. Né devono rinunciare a misteriosi e sotterranei complessi col genitore del sesso opposto, nei confronti del quale non nutrono più smodate e ambigue passioni, né lubriche tentazioni o sublimi e intimorite idealizzazioni.
I nuovi adolescenti sono occupati da ben altri pensieri ed emergono da un sistema educativo che non ha affatto l’obiettivo di farli sentire in colpa per i loro desideri e bisogni. Al contrario, la loro educazione infantile ha avuto come fine fargli credere che la cosa giusta e buona da fare sia essere se stessi, non come gli altri vogliono che tu diventi. Perché essere se stessi, cioè il bambino che sei, è meraviglioso; la natura ti sospinge a fare la cosa giusta, non a commettere orrendi peccati o spregevoli incesti o altri atti sovversivi e vandalici.
Oggi, gli adolescenti non hanno paura del castigo e non si sentono in colpa, perché gli adulti hanno abbandonato il sistema educativo della colpa e giustamente i figli non si sentono rei nei confronti del loro corpo e dei loro intimi pensieri. La crisi dell’autorità del padre e la nuova interpretazione del ruolo materno attivata dall’ingresso massiccio delle donne madri nel mondo produttivo, come abbiamo già avuto modo di osservare, hanno prodotto dei figli molto meno schiacciati dal conflitto edipico rispetto a quelli di una volta.
Tutto ciò consente di sostenere l’ipotesi che il processo creativo nell’adolescenza narcisistica non è finalizzato alla riparazione del Sé o dell’oggetto, secondo quanto afferma la disputa psicoanalitica tradizionale. Il processo creativo non sembra ascrivibile al rimorso per il danno inflitto all’oggetto o al tentativo di riparare la propria colpa ricostruendo e ridando vita all’oggetto, che si pensa deteriorato a causa degli attacchi portati in fantasia dal soggetto, o per invidia o come reazione alla sua supremazia e splendore.
Questa ipotesi, a dire il vero, apparirebbe particolarmente verosimile in adolescenza, fase del ciclo di vita durante la quale il soggetto è costretto, per crescere, ad attaccare lo «splendore» dei genitori idealizzati dell’infanzia. Sembrerebbe perciò comprensibile che si possa sentire in colpa e poi in dovere di ripararla attraverso gesti dall’alto valore simbolico.
In effetti molte espressioni artistiche adolescenziali, a livello di contenuto, sembrano alludere proprio a questa vicenda: da un lato una rabbia impetuosa destinata a lacerare ogni vincolo, dall’altro la nostalgia di un’appartenenza ormai sconnessa e la dolente consapevolezza della cacciata dal paradiso infantile che alimenta la solitudine dovuta all’essere rimasto orfano a seguito dell’uccisione simbolica dei genitori. La canzone o la poesia che ne derivano sembrano costituirsi come la produzione artistica di un processo creativo alimentato e promosso dalla colpa per la distruzione dei legami familiari.
Anche la perdita della silenziosa innocenza della corporeità infantile sembra spesso costituirsi come tema di espressione artistica più o meno ben riuscita. La malizia e il dolore, che conseguono la sessualità appena conquistata, sembrano parlare di un corpo attaccato e ridotto male, trasformato in quello di uno scarafaggio ripugnante, dedito a riti lubrichi, costretto dalla propria intrinseca natura o meglio dall’ignobile trasformazione subìta a sperimentare desideri e bisogni «sporchi». Si leva allora la canzone dedicata alla bellezza dell’altro confrontata con la propria presenza indesiderabile, condannata alla contemplazione dell’altrui bellezza, senza alcuna possibilità di scambio.
Se però non si tratta del tentativo di riparare il danno subìto o inflitto, se il processo creativo non ha questa finalità e non persegue questo obiettivo, allora cosa costringe il soggetto ad impegnarsi nella fatica di trovare canali espressivi adeguati per intonare il canto che potrebbe ridare simbolicamente vita all’oggetto perduto o nuovo splendore al soggetto deteriorato dalla propria incapacità di averne cura e portarlo verso la bellezza e la salute naturale? (pp.52-54)

Chi è lo sconosciuto seduto sui banchi delle nostre scuole, sperduto nel labirinto dei centri commerciali, intento ad ascoltare e produrre una musica mai sentita prima d’ora, in cerca di se stesso, apparentemente disinteressato a ciò che gli adulti hanno da dirgli? Malato di fragilità narcisistica, sostenuto da una spavalderia irriverente e da un’indifferenza corrosiva, il nuovo adolescente ha una creatività inattesa che lo aiuterà a crescere, come emerge da questo ritratto sorprendente – frutto della lunga e simpatetica esplorazione del mondo dell’adolescenza fatta da Pietropolli Charmet. [dalla quarta di copertina]

Indice del libro
Introduzione
1. Come nasce Narciso
2. L’adolescente di oggi: un animale simbolico
3. La creatività di Narciso
4. La distruzione dei legami
5. Narciso e la noia
6. Narciso e la vergogna
Conclusione
Bibliografia

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RECENSIONI

dal sito de LA BIBLIOTECA DI GARLASCO

Marco Romani su: Il Venerdì di Repubblica (22/08/2008)
È il bambino più bravo, il più bello, il più intelligente. Tra Io stupore e l’incoraggiamento incondizionato della famiglia a due anni già risponde a tono, a quattro si legge da solo le favole prima di addormentarsi, a sei canta e balla come le veline. Ma poi, crescendo, i ragazzi iniziano a capire che trovare un pubblico sempre pronto all’applauso non è poi così semplice. E la delusione e la vergogna iniziano a prendere il sopravvento creando disagio e solitudine. Sono i giovani della Generazione N (come Narciso) che lo psicanalista Gustavo Pietropolli Charmet descrive in Fragile e spavaldo (Laterza, da settembre in libreria), un ritratto della nuova adolescenza che verrà presentato il 29 agosto al Festival della Mente di Sarzana. «Narciso», dice Pietropolli Charmet «è cresciuto in un ambiente dove le regole non sono universali ma vengono decise famiglia per famiglia e dove la cosa più importante è la realizzazione della propria creatività». A lui si contrappone il vecchio Edipo, «figlio del sistema educativo della colpa che viveva il contrasto continuo tra le regole morali che gli venivano imposte e le pulsioni adolescenziali». E se il problema principale di Edipo era farla franca dai castighi, Narciso corre il rischio di essere umiliato per non riuscire a realizzare gli obiettivi che si era dato durante l’infanzia. «Edipo deve vedersela col sentimento della colpa, Narciso con quello della vergogna».

Quand’è che Edipo ha lasciato il campo a Narciso? «La crisi dell’autorità del padre viene da molto lontano, ma è negli anni Sessanta e Settanta che diventa più evidente. È allora che nasce l’idea che essere un buon genitore significa non tanto tramandare valori ma trasmettere affetto. La coppia decide di mettersi a completo servizio di quel figlio, spesso unico, sul quale si proiettano aspettative di realizzazione e di visibilità sociale. E così appare Narciso, bello, creativo e prodigioso».

Ci sono frasi che possono aiutare a caratterizzare i due modelli di educazione? «A casa, a scuola o in chiesa gli adulti che circondavano Edipo gli dicevano continuamente “taci e ubbidisci”. A Narciso dicono “dimmi chi sei. Balla, canta, esprimiti. Raccontami la tua storia in prima serata”. A Narciso la mamma dice “tu sei molto più importante di me e io do la mia vita affinché tu sia te stesso”».

A chi fa comodo una generazione di Narcisi? «Le aziende si sono accorte che se si riesce a far comprare agli adolescenti un determinato prodotto, dall’abbigliamento alla musica e al cinema, si influenza il mercato complessivo. Fa poi comodo anche ai genitori che sono al lavoro tutto il giorno vedere il proprio figlio che se la cava benissimo anche da solo. Narciso ha meno bisogno di presenza, di ordini e di controlli. È un bambino che nasce molto buono, molto creativo, molto espressivo e va volontariamente verso la società».

Ma anche l’educazione del dialogo crea danni… «Sì, oggi vediamo gli esiti incerti di un’educazione che richiede all’adolescente continui successi. E la volontà di essere visibili ad ogni costo, può anche sfociare in comportamenti socialmente non legittimi. È difficile dire se questo modello crei più o meno danni del “taci e obbedisci”, certo è che in alcune famiglie si respira un clima da stadio nei confronti del successo del figlio piuttosto che un sano appoggio neutrale alla sua autonoma realizzazione».

Peggio la vergogna dei sensi di colpa? «La colpa è sempre legata a un’azione e si può superare chiedendo scusa o accettando un castigo. La vergogna invece, mettendo in dubbio il valore della persona, non è facilmente riparabile. La mortificazione dura nel tempo con la stessa intensità. Per superare questa situazione il percorso è più lungo perché implica il recupero dell’autostima».

Ma qual è il modo in cui si reagisce alla vergogna? «Chi si sente umiliato, o decide di sparire, chiudendosi in casa, o si vendica. Ci sono adolescenti che meditano per mesi la vendetta contro la professoressa o contro una ragazza che li ha traditi. Non trovano pace finché chi ha inflitto loro un’umiliazione non l’ha pagata cara».

Perché Narciso si riempie di tatuaggi, piercing e cicatrici? «Perché ha bisogno di comunicare socialmente chi è e che cosa vuole. Nel momento in cui adotta una moda, anche massificata come il piercing, ha l’impressione di differenziarsi, di portare sulla superficie del corpo un contenuto interno leggibile da chi condivide i suoi stessi codici. La tendenza di questa nuova generazione a manipolare anche violentemente il corpo ha alcuni aspetti molto espressivi e altri che sono segno di un disagio e di una nuova complicazione».

Quale? «Il rifiuto del corpo naturale. È il caso del dimagrimento eccessivo delle ragazzine che decidono così di conquistare una fisicità che esprima indipendenza e autonomia dal cibo e dalla mamma. Ed è il caso degli adolescenti che potenziano i loro muscoli con estrogeni e sostanze dopanti. Tutte manipolazioni violente che impongono al corpo di parlare e di soffrire. Lo usano come una lavagna su cui scrivere il proprio nome d’arte e su cui sbandierare la propria sofferenza».

Questa Generazione N esisterebbe anche senza YouTube? «La visibilità sociale è uno degli obiettivi specifici della generazione di Narciso. Mettere il proprio video a disposizione del mondo intero evidenzia il bisogno di parlare in prima persona, di essere nello schermo e non davanti ad esso. Edipo non potrebbe mai parlare di sé, della propria sessualità, dei conflitti con i genitori. Narciso è invece spudorato e ha bisogno di raccontarsi, di esibirsi, di diventare famoso. Tutta l’enfasi sul bullismo, sulla delinquenza minorile, sulle violenze del branco mi pare però eccessiva. Le aree di disagio sono più limitate di quanto si è indotti a credere».

Un consiglio a Narciso per soffrire meno? «Fare un inventario serio di ciò che davvero sente essere la sua verità e la sua missione, rifiutando le aspettative che si sono insediate nella sua mente, ma che vengono dall’esterno. L’importante è portare avanti il proprio progetto originario».

E ai suoi genitori? «Devono capire che non funziona più la pretesa di essere rispettati e obbediti senza fare nulla per meritarselo. Di fronte all’incompetenza di certi adulti i ragazzi hanno buoni motivi per dire “chi l’ha detto che bisogna fare così?”».

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Giuliano Ladolfi su: L’Avvenire (08/08/2009)
Leggo con grande interesse, e con un preciso desiderio di apprendere, gli studi di psicologia adolescenziale, perché mi aiutano nel lavoro di educatore a contatto con più di mille studenti. E se poi chi scrive presenta l’autorità e l’esperienza di Gustavo Pietropolli Charmet («Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi», Roma-Bari, Laterza 2009), il confronto con la realtà in cui opero si presenta immediata e continua. Eppure durante la lettura, nel riflettere sul discorso dello psicologo, aumentava la consapevolezza che il ritratto da lui delineato si poneva in antitesi con la realtà da me vissuta quotidianamente nei colloqui e nelle relazioni con l’adolescente contemporaneo.
Senza dubbio condivido molte parti di carattere generale, come quelle riguardanti il bisogno di ricerca di identità, la crisi della personalità, il cambiamento del rapporto con l’adulto, come pure la constatazione della diversità del percorso adolescenziale odierno rispetto alla generazione precedente. Tuttavia il modello del «Narciso» non corrisponde alla totalità della mia esperienza. Non sono all’oscuro che il comportamento identificativo-sentimentale dei genitori rispetto all’atteggiamento precedente di carattere educativo abbia accresciuto una tale componente, del resto caratteristica di quell’età, ma questo non ne ricostruisce l’intero perimetro psicologico.
Quotidianamente mi trovo a lavorare con adolescenti seri, determinati, generosi, altruisti, capaci di vivere e di richiedere autenticità e coerenza, desiderosi di condividere con gli adulti un progetto educativo, impegnati nel volontariato, creativi, in grado di comunicare entusiasmo, nonostante la loro timidezza, la loro sensibilità, la loro debolezza di fondo, alla loro fragilità psicologica, la loro difficoltà di gestire la responsabilità connessa con l’autonomia e la libertà.
Mi sono allora domandato dove vada cercata la diversità di esperienza. Nella certezza della relatività della mia conoscenza (difficilmente mi confronto con casi-limite), ho riscontrato in questo lavoro, frutto «della lunga e simpatetica esplorazione del mondo dell’adolescenza», un’impostazione «iatratica» (mi si conceda la coniazione del neologismo «iatrite», cioè «malattia del medico») che consiste nell’elaborare modelli tratti dalla patologia e nell’applicarli all’intera società o ad una precisa categoria. Questa pratica risale a Freud, il quale, dopo aver ideato la psicanalisi come terapia, ne ha esteso le problematiche allo sviluppo di ogni individuo.
Pur nella consapevolezza che ogni modello interpretativo è limitato e parziale, sono convinto che esistono gerarchie di modelli e assumere quello patologico per una descrizione universale e necessaria appare rischioso e spesso deviante. Non è un caso, infatti, che l’opinione comune, ripresa dai mass media, dai divulgatori e dai teorici puri, diventi patrimonio generale e induca a ritenere, per limitarci a questo caso, che tutti gli adolescenti siano unicamente «spavaldi e fragili».
L’effetto «riflettore», proprio del mondo della comunicazione, che seleziona il reale in base a criteri eccessivamente semplificatori, non aiuti gli educatori (genitori, insegnanti, sacerdoti, allenatori ecc.) a guardare con realismo alla complessità di un mondo estremamente ricco di potenzialità ideali, che, se condivise con fiducia, aiutano a formare una personalità equilibrata e ricca di valori umani.

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Camilla Tagliabue su: Il Sole – 24 ore (08/11/2009)
0gni tre secondi nel mondo muore un bambino con meno di 5 anni: 24.000 vittime al giorno, quasi 9 milioni all’anno. È questo il bilancio a vent’anni dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Onu il 20 novembre 1989 e ratificata da 193 paesi a eccezione di Stati Uniti e Somalia. Lontani dal garantire il primo e fondamentale diritto alla vita, gli stati si sono posti il più modesto obiettivo (Millennium Development Goal 4) di ridurre di due terzi la mortalità infantile: per Save the Children sarà raggiunto nel 2045 anziché nel 2015. Eppure il cambiamento è possibile, basti pensare che nel 1900 in Gran Bretagna morivano 140 bambini su mille, molti più che nell’attuale Liberia. Il diritto all’istruzione, poi, è ostacolato dallo sfruttamento del lavoro minorile e quasi nulla è, in molti paesi, la tutela dell’incolumità fisica e psicologica: subiscono violenza, ad esempio, il 95% dei bambini in Palestina, il 94 nello Yemen e il 92 in Sierra Leone, Camerun ed Egitto (che detiene pure l’infelice primato delle mutilazioni genitali femminili).
Le proporzioni del fenomeno sono enormi: la popolazione mondiale sotto i 18 anni è di oltre 2 miliardi, di cui 1,9 nei paesi in via di sviluppo, 0,4 in quelli meno sviluppati e 0,2 in quelli industrializzati. Anche in questi persistono ingiustizie, specie nei confronti dei minori immigrati. È quanto emerge da due report di Human Rights Watch e uno di Unicef: i primi (Lost in transit e No Refuge) denunciano i maltrattamenti dei piccoli migranti in Francia e Grecia, il secondo analizza la loro condizione di vita in otto paesi Ocse, tra cui l’Italia. Qui, il loro numero è quadruplicato in 10 anni (nel 2007 erano circa 660.000): il 22% vive in famiglie a rischio povertà e 3 su 5 abitano case sovraffollate. A causa soprattutto della scarsa scolarizzazione, possibilità e settori d’impiego sono quantitativamente e qualitativamente inferiori ai coetanei italiani. E questi come stanno?
Tenta di rispondere il bel libro dello psicoanalista Gustavo Pietropolli Charmet. Fragile e spavaldo, l’adolescente italiano non è più Edipo, schiacciato tra senso di colpa e castigo, ma Narciso, innamorato di sé, incurante del mondo, vocato alla realizzazione della propria identità e bellezza. «Ha bisogno di vedere riflessa la propria immagine nello specchio sociale, nel consenso del gruppo»: questa la debolezza di chi considera l’altro un «fan» e «ha la certezza di avere diritto» al successo e alla visibilità. Non contesta la scuola, la politica, le istituzioni perché non dà loro alcuna importanza, avendoli svuotati di senso e ruolo; non trasgredisce, ma distrugge le relazioni che gli causano dipendenza e si vendica contro chi l’ha umiliato: inversamente proporzionale alla fragilità, come per il diamante, è la sua durezza. È stata in buona parte l’educazione a trasformare Edipo in Narciso: dalle ceneri del «perverso polimorfo» è risorto il «cucciolo d’oro» di mamma e papà, che chiede obbedienza per amore e non per paura. Corteggiato anche dalla televisione e dal mercato dei consumi, il nuovo adolescente trionfa ovunque, «sente che può liberamente dedicarsi al culto del sé». All’etica preferisce l’estetica, a costo di manipolare il corpo al limite della morte. L’archetipo ha seducenti richiami filosofici: da un lato, il Narciso marcusiano, eroe della liberazione erotica; dall’altro, il Don Giovanni di Kierkegaard, che rincorre il proprio desiderio sull’orlo di un abisso di noia e disperazione. Anche il ragazzino spudorato e creativo di Pietropolli Charmet rischia di morire, letteralmente, di vergogna e di noia.
Il mondo dell’infanzia si configura così paradossalmente: i più non hanno diritti, alcuni nemmeno alla vita; pochissimi, come nel caso italiano, si ritrovano impacciati nel gestire i propri, lo straordinario potere acquisito, con conseguenze psicologiche e fisiche talvolta gravi. Rimane da chiedersi se per questi sia in corso un’indigestione di libertà o se non si tratti di una nuova e più subdola violazione dei diritti. Già Baudrillard profetizzava il «narcisismo in termini di controllo sociale» e «l’esaltazione della bellezza solo a titolo di sfruttamento».

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dal FESTIVAL DELLA MENTE: La mente adolescente che crea e distrugge (audio e video)

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (265): Leggere Le figure dell’ansia di EUGENIO BORGNA (1997)

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Sabato 27 agosto 2011

Perché le parole dell’anno passato appar- tengono al linguaggio dell’anno passato / e le parole dell’anno prossimo attendono un’altra voce.
– THOMAS STEARNS ELIOT, Four Quartets, Little Gidding, II, vv.65-66

Il libro L’ansia fa parte della vita, e ciascuno di noi ha a che fare con essa: con le sue figure fuggitive e arcane, camaleontiche e crepuscolari, nelle quali si riflette come in uno specchio la linea misteriosa e affranta delle realtà psicopatologiche e umane: al di qua, e al di là, di ogni malattia. Come riconoscere le figure dell’ansia, e come cogliere le sue trasformazioni e i suoi possibili sconfinamenti nella depressione, nelle malattie psicosomatiche, nell’esperienza ossessiva e in quella dissociativa, ma anche nelle situazioni umane contrassegnate dalla solitudine e dalla timidezza nell’adolescenza come nella maturità, dalla nostalgia e dall’attesa, dalle infinite agostiniane inquietudini del cuore: sono gli orizzonti di senso di questo libro che si confronta, infine, con l’ansia che sta nello sfondo tematico, umbratile e scintillante, di alcune esperienze creative. Il discorso sfolgorante di Simone Weil ci dice come solo le sonde luminose dell’intuizione consentano di scendere negli abissi dell’interiorità ferita e della sofferenza: che si nascondono, del resto, in ogni figura dell’ansia. “La sofferenza non ha significato. È questa l’essenza stessa della sua realtà. Occorre amarla nella sua realtà, che è assenza di significato. Altrimenti non si ama Dio.” Simone Weil [dalla scheda dell’Editore]

Approfondimento Questo libro raccoglie una serie di interventi e di riflessioni sul tema dell’ansia di uno degli psichiatri più stimati e originali attualmente impegnati nell’ambito dell’assistenza psichiatrica pubblica. Amatissimo dalle sue pazienti e adorato dai suoi lettori, Borgna usa trattare i temi psichiatrici con un doppio registro metodologico: l’esperienza clinica maturata all’interno dell’ospedale di Novara, in cui lavora, e la grande letteratura moderna (Dickinson, Kafka, Trakl, tra gli altri). Il libro è diviso in quattro sezioni, relative ciascuna a una particolare area tematica. La prima è la parte più propriamente psichiatrica: l’ansia viene definita e circoscritta nei suoi aspetti patologici, differenziandola dalle esperienze comuni. In polemica con la psichiatria organicistica, vengono chiariti i principi orientativi ai quali Borgna si attiene. Nella seconda parte viene trattata la dimensione clinica e psicopatologica dell’ansia: le sue diverse espressioni sintomatologiche e cliniche; la sua metamorfosi in disturbo psicosomatico; il suo ruolo nell’anoressia, nella depressione e nella psicosi. Nella terza e nella quarta parte vengono discusse rispettivamente la dimensione esistenziale (con particolare riferimento all’adolescenza e ai vissuti di attesa e nostalgia, di solitudine e timidezza che accompagnano questa età), e la dimensione creativa (politica, letteraria, cinematografica). In tutto il libro l’ansia viene vista come esperienza vissuta, incarnata in uomini e donne reali, che dolorosamente tentano di comunicare il proprio mondo. Pur senza disdegnare gli strumenti più tipici della psichiatria (il ricovero quando occorra, il farmaco quando necessario), è proprio su questo piano – del comune sentire umano e dell’individualità imprescindibile del paziente – che lo psichiatra dovrebbe porsi, a giudizio di Borgna, per un’efficace azione terapeutica. [dalla scheda dell’Editore]

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Negli studi vengono sempre sviluppate le facoltà discorsive e rappresentative, mai la facoltà intuitiva. E tuttavia anche questa deve essere sviluppata. La si sviluppa mediante la contemplazione faccia a faccia dell’inintelligibile – ma dell’inintelligibile che è al di sopra del significato, non di quello che è al di sotto. – SIMONE WEIL, Quaderni, III [citazione che precede il capitolo di apertura Di soglia in soglia]

Il pensiero della sofferenza non è discorsivo. Il pensiero urta contro il dolore fisico, contro la sventura, come la mosca contro il vetro, senza poter progredire in alcun modo né scoprirvi nulla di nuovo, e senza potersi impedire di tornarvi. Così si esercita e si sviluppa la facoltà intuitiva. Eschilo: “Mediante la sofferenza la conoscenza”. Fare della sofferenza un’offerta è una consolazione, e quindi un velo gettato sulla realtà della sofferenza. Ma lo è anche considerare la sofferenza come una punizione. La sofferenza non ha significato. E’ questa l’essenza stessa della sua realtà. Occorre amarla nella sua realtà, che è assenza di significato. Altrimenti non si ama Dio. – SIMONE WEIL, Quaderni, III [citazione che precede la parte I. Gli scenari dilemmatici della psichiatria]

La sventura è un “enigma”. Ha la stessa essenza della sofferenza fisica, da cui è inseparabile: la sofferenza fisica, quando è tale che non si può né sopportarla né smettere di sopportarla, e dunque sospende il tempo facendone un presente privo di avvenire eppure impossibile come presente (impossibile raggiungere l’istante seguente; tra l’istante seguente e quello attuale si sovrappone un infinito invalicabile, l’infinito della sofferenza; d’altra parte il presente della sofferenza è impossibile, costituisce l’abisso del presente). La sventura ci fa perdere il tempo, ci fa perdere il mondo. – MAURICE BLANCHOT, L’infinito intrattenimento [citazione che precede la parte II. La dimensione psicopatologica e clinica dell’ansia]

E’ così che in ogni istante della nostra vita siamo afferrati come dal di fuori dai significati che noi stessi leggiamo nelle apparenze. Quindi si può discutere senza fine sulla realtà del mondo esterno. Perché ciò che chiamiamo mondo sono i significati che noi leggiamo; dunque qualcosa che non è reale. Ma esso ci afferra come dal di fuori; dunque è reale. Perché voler risolvere questa contraddizione, quando il compito più alto del pensiero, su questa terra, è quello di definire e contemplare le contraddizioni insolubili che, come diceva Platone, tirano verso l’alto? E’ poi singolare che non ci sono date sensazioni e significati; ci è dato soltanto ciò che leggiamo; noi non vediamo le lettere. – SIMONE WEIL, Quaderni, IV [citazione che precede la parte III. La dimensione fenomenologia ed esistenziale dell’ansia]

Parimenti, quando si fa perfetta attenzione a una musica bella (e lo stesso vale per l’architettura, la pittura, ecc.), l’intelligenza non ha al riguardo alcunché da affermare o da negare. Ma tutte le facoltà dell’anima compresa l’intelligenza, tacciono e sono sospese all’ascolto. L’ascolto è applicato a un oggetto incomprensibile, ma che racchiude della realtà e del bene. E l’intelligenza, che non vi coglie alcuna verità, vi trova nondimeno un nutrimento. – SIMONE WEIL, Lettera a un religioso [citazione che precede la parte IV. La fenomenologia dell’ansia nella letteratura e nell’arte]

La contemplazione del tempo è la chiave della vita umana. E’ il mistero irriducibile sul quale nessuna scienza fa presa. – SIMONE WEIL, Quaderni, IV [citazione che precede l’ultimo capitolo, Il discorso infinito]

Indice del libro

Di soglia in soglia

I. GLI SCENARI DILEMMATICI DELLA PSICHIATRIA
Una parentesi etimologica e semantica
L’ansia e l’angoscia sono termini interscambiabili?
Gli orizzonti della conoscenza
La paura non è l’ansia
Le diserzioni della psichiatria
Quale etica in psichiatria
I luoghi e i modi in cui si è curati
Modelli inaccettabili di fare-psichiatria e di fare-medicina
Il valore e il senso della complessità
L’ansia non mi è sconosciuta

II. LA DIMENSIONE PSICOPATOLOGICA E CLINICA DELL’ANSIA
1. Le forme dell’ansia
L’ansia generalizzata
L’ansia fobica
Una storia clinica
L’ansia panica
L’ansia si accompagna alle esperienze ossessive
Le fondazioni antropologiche delle esperienze ossessive
L’ansia come immagine della morte
L’angoscia aderisce alla mia pelle come una maschera di cera
2. Le radici emozionali delle malattie psicosomatiche
Cosa sono le malattie psicosomatiche
La malattia e il senso perduto della vita
Il cuore
Il mappe di capo come esperienza psicosomatica
La forma di vita anoressica
Il discorso anoressico in Elisabetta d’Austria
La malattia come sorgente creativa
3. Lo sguardo del serpente
L’ansia come struttura portante della depressione
L’angoscia di non-poter-vivere e di non-poter-morire
L’ansia si accompagna alla colpa
Gli artigli della colpa
La speranza che muore
L’archeologia delle emozioni
4. L’angoscia confluisce nel delirio
Lo stato d’animo delirante
I contenuti emozionali di uno stato d’animo delirante
Come si può definire il delirio
Dalle ceneri dell’angoscia nasce il delirio
Il mio cuore è imprigionato nei ghiacciai
L’esperienza del terrore
L’oscuro mondo dell’anima
Il sorriso della sfinge

III. LA DIMENSIONE FENOMENOLOGICA ED ESISTENZIALE DELL’ANSIA
1. L’ansia come esperienza umana
L’angoscia come categoria filosofica
Gli angeli non conoscono l’ansia
Cos’è il tempo
Il tempo vissuto
Lo spazio vissuto
La nostalgia
L’ansia fa parte della vita
2. Negli abissi di luce e di ombra dell’adolescenza
Le contraddizioni e le antinomie dell’adolescenza
La crisi
Le conseguenze della crisi
La tossicomania come scacco adolescenziale
Un’esperienza di auto-intossicazione mescalinica
Il corpo e le sue metamorfosi
Il rischio del suicidio
Fraternizzare con gli abissi
Il problema
3. Gli enigmi della solitudine
La solitudine non è l’isolamento
La contraddizione rende sempre solitari
L’ansia sconfina dalla solitudine all’isolamento
Un frammento di storia clinica
La timidezza
Il deserto di solitudine
4. Le possibilità terapeutiche
Come si giunge alla diagnosi
Il dialogo ermeneutico
Le dimensioni dell’agire medico
Le parole e lo sguardo
non posso non immedesimarmi nei modi d’essere dell’ansia
La farmacoterapia ansiolitica
L’ideologia e i suoi fantasmi

IV. LA FENOMENOLOGIA DELL’ANSIA NELLA LETTERATURA E NELL’ARTE
La letteratura e il discorso della psichiatria sull’ansia
L’ansia nell’orizzonte della poesia
L’infinito
La bandiera nera dell’angoscia in Charles Baudelaire
Uno sguardo di agonia in Emily Dickinson
Georg Trakl e la poesia moderna
La disperata esigenza di colloquio in Franz Kafka
L’angoscia come parola tematica dei “Quaderni di Malte”
La musica come straziante preparazione alla morte
L’arte e il tema dell’ansia
Il cinema e i linguaggi dell’angoscia 
Altre immagini dell’ansia

Il discorso infinito, pag.230

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (257): Leggere GIACOMO MARRAMAO, La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo (2008)

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Sabato 27 agosto 2011

La sventura è un “enigma”. Ha la stessa essenza della sofferenza fisica, da cui è inseparabile: la sofferenza fisica, quando è tale che non si può né sopportarla né smettere di sopportarla, e dunque sospende il tempo facendone un presente privo di avvenire eppure impossibile come presente (impossibile raggiungere l’istante seguente; tra l’istante seguente e quello attuale si sovrappone un infinito invalicabile, l’infinito della sofferenza; d’altra parte il presente della sofferenza è impossibile, costituisce l’abisso del presente). La sventura ci fa perdere il tempo, ci fa perdere il mondo. – MAURICE BLANCHOT, L’infinito intrattenimento

Delle opere di Giacomo Marramao sul tempo, assumere La passione del presente come paradigmatica, per quanto riguarda il rapporto dell’Educatore con il tempo, costituisce una scelta strategica: la dimensione del presente è una costellazione di senso – rinvia a una pluralità di concetti – che occorre dipanare un po’ alla volta, per dare forza all’azione educativa e rendere sempre più chiara la natura della relazione educativa.
A scuola ho sempre considerato il tempo una risorsa educativa. Scandire la programmazione in unità di apprendimento, in sequenze, in momenti a cui seguivano altri momenti, e considerare determinati ‘passi’ propedeutici ad altri ‘passi’ conferiva vigore e certezza a tutti gli altri aspetti dell’attività didattica.
Dal 1989, cioè da quando ho avviato l’esperienza dell’ascolto, e fino al 2008, cioè quando sono andato in pensione, la realtà della scuola e quella del centro d’ascolto procedevano insieme influenzandosi a vicenda. Almeno dalla parte della relazione educativa.
Quando noi diciamo che nella relazione d’aiuto si verifica un vero e proprio «scambio di risorse» – sono i teorici del resource exchange a sostenerlo – intendiamo riferirci all’interdipendenza reciproca, a un legame interpersonale che qualifica la relazione umana in senso non unidirezionale.

La dimensione personale del tempo, con tutte le sue implicazioni, entra nella trama degli incontri a scandire un ritmo che non è certo quello dato dal tempo meccanico dell’orologio: tra un colloquio e l’altro, la persona che siede di fronte a noi è in attesa; si aspetta da noi qualcosa che non saprebbe dire cosa sia e che è già presente nel fatto che il tempo meccanico di un colloquio, che le è concesso, è un dono inaspettato; si stupisce perché i fatti e le emozioni che accompagnano i fatti appaiono interessanti a noi, che ascoltiamo senza impazienze né atteggiamenti superficiali; si dispone al racconto tutte le volte che è indispensabile costruire catene di fatti che si succedono nel tempo, giacché sa bene che siamo interessati ai suoi racconti; prova viva emozione alla scoperta che ricordiamo le cose dette nei colloqui precedenti; scorge file di continuità nel nostro fissare sempre un nuovo appuntamento con una regolarità non meccanica, ma preoccupata degli impegni, degli ostacoli imprevisti; avverte come umanissimo il fatto della continuità nel tempo, che è da noi rivendicata come spazio da prendersi per depositarvi emozioni e sentimenti; affida a noi i pensieri pensati tra un colloquio e l’altro e apprezza il fatto che abbiamo colto la preoccupazione di riferire a noi un pensiero importante intervenuto prima del colloquio in corso e che è stato riservato a noi, doveva essere riferito a noi;   

Se mi si chiedesse di riassumere in una formula il gesto dell’Educatore che lavora gratuita- mente in un Centro di ascolto, non esiterei a dire che egli porta in dono il tempo, ma non il proprio tempo libero, le ore pomeridiane dei colloqui di motivazione: il tempo del dono è la somma delle risorse di cui l’Educatore dispone e che mette a disposizione dell’altro, in una relazione in cui c’è interdipendenza e scambio. Che sia ineguale sia la ‘partecipazione’ al legame sia la partecipazione allo scambio è ciò che è più proprio di ogni relazione vera. Chi pensa che debba esserci dono unilaterale o scambio di sole cortesie o, al contrario, impersonale prestazione e basta, non sa di cosa sia fatto il nostro lavoro e se non sa le cose di cui parlo: difficilmente sarà presente all’appuntamento con l’altro che da sempre lo attende.

Le emozioni dell’operatore nella relazione d’aiuto, il suo sguardo – l’educazione sentimentale ricevuta, ma anche la sua prospettiva -, la distanza dall’altro, attesa e speranza, solitudine e silenzio, la capacità di autoeducarsi attraverso l’esplorazione dell’esperienza personale, la conoscenza di sé realizzata attraverso le emozioni, la speranza progettuale: questo ed altro entra in questa assunzione del presente come espressione della realtà cairologica del tempo.

Assumere il tempo come principio ordinatore di qualsiasi relazione umana significa

  • mostrare e offrire all’altro il posto che si occupa come una condizione data dall’intreccio tra libertà e situazione, se per ‘situazione’ intenderemo sartrianamente tutto ciò che non possiamo scegliere (Destino compreso) – dal giorno e dal luogo di nascita alla famiglia, al carattere – e per ‘libertà’ la nostra protensione verso il futuro, la spinta a realizzare desideri e sogni, progetti di vita e ideali politici;
  • affermare la realtà di questo presente non come attimo fuggente ma come istante eterno, come un nunc, un tempo-ora, uno spazio della coscienza dilatato fino a comprendere in sé
    – tutte le presenze che popolano il nostro paesaggio affettivo 
    – e le voci che vanno a costituire la fonosfera in cui risuonano le nostre voci
    – e i volti che non smettiamo mai di disegnare, per fornire di biografia le vite che ci stanno a cuore.

Chiameremo presente non solo l’oggi – che pure ci aiuterà a contenere il proprio (la nostra natura, la nostra essenza, la nostra identità) – che si manifesterà nei modi più diversi ma anche, soprattutto, il mese e l’anno e il tempo (l’età, le età) della nostra vita. Il presente per noi è dimensione dell’esistenza-progetto, non della vita.
Esso ‘contiene’ in uno ciò che siamo stati e ciò che vogliamo continuare ad essere, l’affermazione della nostra errante radice, la condizione per cui siamo perennemente in esodo dalle derive del tempo, protesi a realizzare un’autenticità che sola dà senso all’esistenza.
Gli esercizi spirituali in cui siamo costantemente impegnati arricchiscono di senso questo presente, che mostriamo nella relazione d’aiuto, nella relazione educativa, in tutte le nostre relazioni significative. Esso è l’invisibile della nostra esperienza. L’accesso ad esso è consentito soltanto agli amici dell’invisibile, cioè a coloro che sono interessati ad accedervi e che non si accontentano della ‘semplice-presenza’, di ciò che appare.

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Dell’opera di Marramao a noi serve il capitolo 5 – Presente. Simbologia del kairós e sindrome della fretta, pp.89-107 – e in particolare il primo paragrafo – Tempestività e disaccordo – che si apre così: «Nessuna figura del tempo è in grado di esprimere l’asse del presente quanto l’immagine del kairós». (Sulla ‘sindrome della fretta’ torneremo presto).

Il significato greco di kairós, con la ricca simbologia che si stratificò nel tempo, fu ridotto a Occasio con i Latini e quindi a caducitas, cioè a un’inesorabile accelerazione di un Tempo che tutto divora e che si fronteggia con tempestività. Si trattò poi di cogliere l’attimo, il momento propizio. In Machiavelli troveremo la massima esaltazione dell’Occasione, che occorre saper cogliere: istante critico, risolutore e fecondo.
I Latini avevano una sola parola, tempus, per esprimere i due significati di ‘tempo’. Noi ci ritroviamo nella stessa difficoltà. L’inglese ha time e weather, il tedesco Zeit e Wetter, per esprimere rispettivamente la realtà del tempo cronologico e quella del tempo meteorologico.
Benveniste avverte che l’etimologia del termine ‘tempus’ è incerta.
Il greco ha chrónos e kairós. La conclusione di Marramao – che segue Benveniste – è che il latino tempus corrisponde a kairós

«Benveniste associa il termine kairós […] al significato del verbo keránny-mi, «mescolare», «temperare», giungendo alla conclusione che «tempus coincide, nelle sue diverse accezioni, con kairós». Lungi dal risolversi nel significato di «momento istantaneo» o «occasione» […] kairós viene così a designare, al pari di tempus, una figura stratificata e oltremodo complessa della temporalità: figura che rinvia alla «qualità del- l’accordo» e della mescolanza oppor- tuna di elementi diversi – esattamente come il tempo atmosferico. […] La mia riflessione genealogica si concludeva con l’enunciazione di una tesi e insieme con la formulazione di un auspicio: forse proprio l’idea del tempus-kairós, del tempo debito della «temperanza» e della «miscela propizia», dell’incontro e della tensione feconda tra energie e potenze diverse, è in grado di re- stituirci il senso del nostro ritaglio evolutivo e, con esso, della gram- matica delle nostre forme di vita». (pp.89-94)

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INDICE
Prefazione
PASSAGGI
1. Modernità-mondo, pp.17-49
1.1. Preambolo. Il mondo e l’Occidente oggi
1.2. Passaggi argomentativi
1.2.1. «Global age»: opportunità e rischi
1.2.2. Postmodernità o modernità-mondo?
1.2.3. Uniformazione e differenziazione
1.2.4. Il cortocircuito del «glo-cal»: una lettura filosofica
1.2.5. «Redistribution/recognition»: conflitto di interessi e conflitto identitario
1.2.6. Differenza – «non» differenze
1.2.7. Incommensurabilità e incomparabilità
1.2.8. Sfera pubblica e retorica: tra argomentazione e narrazione
1.2.9. Oriente/Occidente: un mitologema speculare
1.2.10. Cosmopolis e filosofia: verso un «dialéghesthai» globale?
2. Nomos. Il momento socratico, pp.50-54
2.1. Tra «sophía» e sofistica
2.2. Socrate e Zarathustra
DILEMMI
3. Identità. Questioni teoretiche, pp.57-67
3.1. Ragione e identità: un campo di tensione
3.2. Confine e condivisione
3.3. Preferenze e appartenenze: il comportamento razionale standard e l’«under-scepticism» dei comunitaristi
3.4. «Reason before identity?»
3.5. «Multiple-Self»: identità multiple e comportamenti oscillanti
4. Narrazione. Lo statuto pluriversale del Sé, pp.68-86
4.1. «Overlapping»
4.2. Venti tesi
4.2.1. Costrutti variabili
4.2.2. Singolare e molteplice
4.2.3. Malintesi e normativizzanti
4.2.4. Drammaturgia
4.2.5. Maschio «con proprietà»
4.2.6. Migrazione dell’io
4.2.7. Paradigmi meno stilizzati
4.2.8. Conflitto
4.2.9. Al di là della «rational choice»
4.2.10. Lato-Weber e lato-Durkheim
4.2.11. Imperativi ipotetici e incondizionati
4.2.12. Normatività individuale razionalità sociale
4.2.13. Razionalità imperfetta
4.2.14. «Agency»
4.2.15. Sfera pubblica e narrazione
4.2.16. Dar conto
4.2.17. Soggetti narranti
4.2.18. Retoriche con prova
4.2.19. Universalismo della differenza
4.2.20. Morale provvisoria
COSTELLAZIONI
5. Presente. Simbologia del kairós e sindrome della fretta, pp.89-107
5.1. Tempestività e disaccordo
5.2. Eternizzazione del presente
6. Messianismo. Walter Benjamin e noi, pp.108-130
6.1. Messianismo senza attesa
6.2. Formule insature
6.3. Rappresentazione e concetto
6.4. Immagine e ideale
6.5. Fine dei tempi e tempo della fine
6.6. L’attimo del pericolo
6.7. L’azione messianica
6.8. L’abisso secolarizzato del cosmo
6.9. Caducità e redenzione
6.10. Noi, gli attesi
7. Libertà. L’ontologia di Herbert Marcuse, pp.131-153
7.1. Ontologia della libertà
7.2. Heidegger vs Heidegger: istanza critica e fallacia naturalistica
7.3. Ragione dialettica e singolarità
CONFINI
8. Humanitas. Genealogia di un concetto, pp.157-168
8.1. Umanità e ragione: l’«ideologia europea»
8.2. «Humanitas» e «universitas»
8.3. L’«altrove»
8.4. Umanità e modernità-mondo
9. Diritti. Dall’«ordine hobbesiano» al cosmopolitismo della differenza, pp.169-186
9.1. Tra passato e futuro
9.2. L’«ordine posthobbesiano»
9.3. Umanità e orrore
9.4. Archeologia dell’attualità
9.5. Diaspora e interregno
10. Civitas. Europa delle nazioni ed Europa delle città, pp.187-205
10.1. Dissonanze e contaminazioni
10.2. Solidarietà chiasmatiche
10.3. La rete e il gioco delle differenze
11. Evento. L’11 settembre e la responsabilità della filosofia (un confronto con Jürgen Habermas), pp.206-221
11.1. Fede e sapere
11.2. «Revelations»
11.3. Tecnica e fede
11.4. Postsecolarismo
11.5. Verità e disincanto
11.6. «Multiversum»
ENDIADI
12. Esperienza. Archeologia della logica identitaria (rileggendo Enzo Melandri), pp.225-250
12.1. «Linea» e «circolo»
12.2. Analogia
12.3. Anomalia
12.4. Simbolico
12.5. Archeologia
12.6. Critica
13. Morte. Poco dopo Fulham Road, pp.251-257
13.1. Epifanie
13.2. La rappresentazione e il rimosso
13.3. Antiteologia della morte

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La mia riflessione ininterrotta sul Tempo risale al 1983, anno di pubblicazione di Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, di Giacomo Marramao, a cui dedicai l’intera estate.

Seguirono Minima temporalia. Tempo spazio esperienza (1990), Kairós. Apologia del tempo debito (1992) e Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione (1994), tutti dedicati al tempo. Torneremo a illustrare i più diversi aspetti della crucialità del tempo, criterio ordinatore all’interno della relazione d’aiuto, come in tutte le relazioni umane.
 

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (264): Leggere Ancora sull’ascolto, di LUISA CARRADA

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Sabato 27 agosto 2011

Dal sito IL MESTIERE DI SCRIVERE, di LUISA CARRADA, Ancora sull’ascolto [Leggere anche Scrivere per Internet e Il mestiere di scrivere]

Il 60% della nostra comunicazione è fatta di ascolto, ma per l’esperto di acustica Julian Treasure stiamo perdendo la capacità di ascoltare. Ascoltare davvero, cioè con consapevolezza, che è alla base di ogni comprensione.
Nei suoi perfetti otto minuti di TED Conference (con sottotitoli in italiano) ci consiglia cinque semplici esercizi di ascolto consapevole da fare ovunque, in riva a un lago o in un bar affollato. E alla fine ci regala il magico acronimo RASA, “succo, essenza” in sanscrito. Per scoprire cosa vuol dire, ascoltate direttamente Treasure:

E se il tema vi affascina, scoprite un bel blog italiano sull’ascolto: Parole in cuffia. L’autrice, Alessia Rapone, per professione scrive in una grande azienda, per passione ascolta e scrive parole da ascoltare.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (263): Il Bene comune come Beni relazionali

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Ho incontrato Pierpaolo Donati e la sua idea di Beni relazionali quando, nell’inverno 2010, ho ricevuto il il n.3/2010 della rivista lavoro sociale di Erickson, che contiene il suo saggio La nuova frontiera del welfare. I beni relazionali, alle pagine 315-329.

Indice del saggio
Beni «altri» che danno sostanza alla democrazia
Una definizione operativa: beni né strettamente pubblici né strettamente privati
Com’è nata la teoria dei beni relazionali
Il concetto di bene relazionale ridefinisce la mappa dei beni comuni
La nuova democrazia
Implicazioni sulla futura organizzazione politica (statuale) della società

Abstract
In cosa consistono i beni relazionali, a lungo repressi dalla società capitalistica? Perché hanno una connotazione intrinsecamente democratica e sviluppano solidarietà, cittadinanza, libertà e responsabilità? In questo contributo di definisce il concetto di «bene relazionale», mettendone in evidenza le ricadute sociali, culturali, economiche e politiche. Vengono inoltre discusse le implicazioni per una nuova concezione di democrazia e di uno Stato relazionale che abbia come obiettivo la realizzazione di una cittadinanza «complessa». In quest’ottica, le politiche sociali diventano una forma generale di azione riflessiva della società su se stessa. Ne deriva una prospettiva che supera la dicotomia tra «pubblico» e «privato» e mette in luce come la società poggi necessariamente sulla socievolezza umana e su relazioni simmetriche, libere e responsabili.
 

Pierpaolo Donati sul Bene comune


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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (262): Studiare la sociologia relazionale

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L’espressione “la prospettiva relazionale” coincide con un titolo del 1978, anno di pubblicazione in Italia dell’opera (del 1976) La prospettiva relazionale. I contributi del Mental Research Institute di Palo Alto dal 1965 al 1974, a cura di Paul Watzlawick e John H. Weakland, Casa Editrice Astrolabio. Ad essa dobbiamo la scoperta di concetti e pratiche ancora vive nell’ambito psicoterapeutico. C’è da dire subito, però, che le professioni d’aiuto nel campo sociale sono interessate al lavoro sociale, non al lavoro psicologico: la prospettiva relazionale sociologica enfatizza l’idea delle azioni condivise in vista di scopi «aperti», mentre la prospettiva relazionale psicologica punta alla comprensione di quelle strutture di relazioni patologiche che intrappolano i comportamenti individuali per effetto di interazioni plurime ripetute.
Alla base dei due diversi paradigmi troviamo le due distinte ottiche con cui può essere osservata la relazione sociale:

  • una ci consente di pensare a un’azione sociale nel vero senso del termine, dove i soggetti sono relativamente liberi di fabbricare il loro futuro e le loro condizioni del vivere, 
  • l’altra, invece, ci spiega come si determinano i meccanici condizionamenti che costringono gli attori a comportarsi in modi fissi e spesso estranei alla loro possibilità di comprensione.

L’opera di PIERPAOLO DONATI, Introduzione alla sociologia relazionale, FRANCO ANGELI, edita la prima volta nel 1983 e giunta alla sesta edizione nel 2002 riassume la teoria poi confluita ne Il paradigma relazionale nelle scienze sociali: le prospettive sociologiche, in Invito alla sociologia relazionale. Teoria e applicazioni e in Teoria relazionale della società: i concetti base e [scheda personale di Pierpaolo Donati].
Scheda di orientamento alle letture essenziali per comprendere la sociologia relazionale di Pierpaolo Donati

PAOLO IAGULLI, La sociologia relazionale di Pierpaolo Donati. Una breve introduzione “ meta-sociologica”

 Pierpaolo Donati su Wikipedia

Il ruolo del volontariato nella costruzione del capitale sociale

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (261): Studiare la Politica dei servizi sociali

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La conoscenza dei Servizi sociali e prima ancora della Politica dei servizi sociali è un momento alto della formazione permanente in cui è impegnato ogni Educatore degno di questo nome.

Lo spazio web in cui Paolo Ferrario  – assieme a Luciana Quaia – sta organizzando i frutti della sua attività professionale rappresenta per me un autentico giacimento della conoscenza.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (260): Ascoltare MASSIMO CACCIARI, Filosofia e tragedia

MASSIMO CACCIARI, Filosofia e tragedia by aiconfinidellosguardo

Ascoltare fino in fondo la Conferenza-dibattito Filosofia e tragedia di MASSIMO CACCIARI, registrata al Teatro Eliseo di Roma nell’autunno del 1975

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Ascoltare la Bibbia – Il Libro di Ruth

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RAI Podcast Radio3 – UOMINI E PROFETI – Leggere la Bibbia – Libro di Ruth con Maria Cristina Bartolomei (durata: 44:05)

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Al tempo dei giudici, ci fu nel paese una carestia e un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda nei campi di Moab. Quest’uomo si chiamava Elimèlec, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; erano Efratei, di Betlemme di Giuda. Giunti nei campi di Moab, vi si stabilirono. Poi Elimèlec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli. Questi sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut. Abitarono in quel luogo per dieci anni. Poi morirono anche Maclon e Chilion, e la donna rimase senza i suoi due figli e senza il marito. Allora intraprese il cammino di ritorno dai campi di Moab con le sue nuore, perché nei campi di Moab aveva sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli pane. Partì dunque con le due nuore da quel luogo ove risiedeva e si misero in cammino per tornare nel paese di Giuda. Noemi disse alle due nuore: “Andate, tornate ciascuna a casa di vostra madre; il Signore usi bontà con voi, come voi avete fatto con quelli che sono morti e con me! Il Signore conceda a ciascuna di voi di trovare tranquillità in casa di un marito”. E le baciò. Ma quelle scoppiarono a piangere e le dissero: “No, torneremo con te al tuo popolo”. Noemi insistette: “Tornate indietro, figlie mie! Perché dovreste venire con me? Ho forse ancora in grembo figli che potrebbero diventare vostri mariti? Tornate indietro, figlie mie, andate! Io sono troppo vecchia per risposarmi. Se anche pensassi di avere una speranza, prendessi marito questa notte e generassi pure dei figli, vorreste voi aspettare che crescano e rinuncereste per questo a maritarvi? No, figlie mie; io sono molto più amareggiata di voi, poiché la mano del Signore è rivolta contro di me”. Di nuovo esse scoppiarono a piangere. Orpa si accomiatò con un bacio da sua suocera, Rut invece non si staccò da lei. Noemi le disse: “Ecco, tua cognata è tornata dalla sua gente e dal suo dio; torna indietro anche tu, come tua cognata”. Ma Rut replicò: “Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te, perché dove andrai tu, andrò anch’io, e dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora, se altra cosa, che non sia la morte, mi separerà da te”. Vedendo che era davvero decisa ad andare con lei, Noemi non insistette più. Esse continuarono il viaggio, finché giunsero a Betlemme. Quando giunsero a Betlemme, tutta la città fu in subbuglio per loro, e le donne dicevano: “Ma questa è Noemi!”. Ella replicava: “Non chiamatemi Noemi, chiamatemi Mara, perché l’Onnipotente mi ha tanto amareggiata! Piena me n’ero andata, ma il Signore mi fa tornare vuota. Perché allora chiamarmi Noemi, se il Signore si è dichiarato contro di me e l’Onnipotente mi ha resa infelice?”. Così dunque tornò Noemi con Rut, la moabita, sua nuora, venuta dai campi di Moab. Esse arrivarono a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo.

Testo integrale

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da Rai Podcast Radio3 – UOMINI E PROFETI ARCHIVIO: “Cantico dei Cantici. Il libro d’amore della Bibbia” con Daniele Garrone

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Registrazioni che risalgono a ottobre 1997

I puntata (6 agosto 2011)

II puntata (7 agosto 2011)

III puntata (13 agosto 2011)

IV puntata (14 agosto 2011)

V puntata (20 agosto 2011) 

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Il testo del Cantico, (testo CEI 2008)  
commento audio di Gianfranco Ravasi 
su LiberLiber 
su Wikipedia 
il commento di Origene
 

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (259): Modellizzare l’esperienza attraverso organizzatori della conoscenza

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Martedì 23 agosto 2011

E’ di grande aiuto il semplice ‘principio’ che si riesce ad organizzare la propria conoscenza – attraverso mappe (mentali e concettuali ), diagrammi, schemi… – solo a condizione che si abbia una conoscenza compiuta del tema prescelto: se ‘viene fuori’ una mappa incompleta, vuol dire che le nostre conoscenze su quell’argomento non vanno oltre il ‘rappresentato’!
Questa Rubrica, ad esempio, risponde all’esigenza di stendere un’ampia mappa del territorio della coscienza: restituisce il dialogo interiore. La Pagina di WordPress che porta lo stesso titolo della Rubrica non è altro che una lista dei post raccolti sotto la Rubrica; a modo suo, è una mappa del territorio, dal momento che in mezzo ad oltre mille post restituisce la lista di tutto ciò che corrisponde al compito del camminarsi dentro.
Sto sperimentando altre forme di organizzazione della conoscenza (verificare qui, qui, ma anche qui e qui), perché sento che lo stile prescelto cambia in base all’ambiente in cui mi muovo.
Nella ‘progettazione’ di un testo scritto, da sempre si suggerisce allo studente di partire con una lista disordinata delle idee (o con una mappa mentale), che successivamente sarà ordinata con il ricorso a categorie che corrispondano alla traccia da seguire (ad esempio, cause, problema, rimedi). Dunque, anche le semplici liste sono una verifica di tutto quello che abbiamo da dire. Annotare un fatto elencando tutto quello che ci viene in mente è già un inizio.

Nel lavoro pomeridiano nel Centro di ascolto ho preso l’abitudine di annotare schematicamente sulla Moleskine i dati essenziali dei colloqui del giorno. A partire dal primo contatto scrivo il nome della persona intervenuta. Cerchio il suo nome – come si fa con le mappe – e collego il suo nome a quello dell’altra persona, se si tratta dei due genitori. Scrivo il numero di telefono da cui è partita la chiamata. Chiedo il permesso di registrare quel numero, per avere la possibilità di richiamare, se si rende necessario modificare gli orari degli appuntamenti. Elenco, accanto alla piccola mappa costruita, i fatti salienti, per potervi tornare su negli appuntamenti successivi. Metto in rilievo, cerchiando due volte, la persona che ha preso l’iniziativa e che trascina con sé l’altra, se si tratta di coppia genitoriale che si presenta unita al primo appuntamento. Inserisco negli appunti la qualità della comunicazione tra i due, gli impliciti, i meccanismi eventuali che ostacolano la comunicazione, il livello di autostima… Quando interviene il figlio, la mappa cresce. A parte, costruisco una mappa più grande o più di una mappa per registrare la natura delle relazioni, riconducendole a fatti significativi.
La rappresentazione grafica di partenza è riconducibile alla mappa mentale, che è basata su associazioni dirette. Successivamente, i ‘materiali’ utilizzati per costruire la mappa saranno sfruttati per costruire una mappa concettuale, che è basata sulle connessioni logiche esistenti tra i nodi – le persone – della mappa stessa. La gerarchia a cui costringe la mappa concettuale – con la sua struttura ad albero capovolto – guida l’osservazione e la lettura delle relazioni esistenti all’interno della famiglia. ‘Prima’ e ‘dopo’ l’intervento d’aiuto le cose sono molto diverse tra loro. Le linee – le frecce – che collegano i nodi saranno più o meno spesse a seconda della qualità della relazione esistente tra le persone. Una freccia tratteggiata all’inizio segnalerà la ‘comunicazione sospesa’ tra il ragazzo e il resto della famiglia, soprattutto quando la dipendenza si sia strutturata. Dopo i programmi di recupero, se la persona avrà imparato a fare coping e se potrà esibire un livello soddisfacente di empowerment, la freccia che collegherà il nodo che la rappresenta al resto della famiglia sarà una linea continua, a volte anche molto spessa.

Quando scopro un ‘varco’ in cui inserirmi, lo annoto rivoluzionando la mappa. Di solito, i genitori riferiscono fatti molto significativi senza dare ad essi la dovuta importanza. Invece, è proprio a partire da qualche dettaglio che è possibile comprendere un lato del carattere, un’inclinazione, le forme assunte dal disagio, rotture, discontinuità, rimozioni…. Allineo le scelte educative, registrando il peso esercitato dai genitori sulle scelte del figlio.
Individuata la dissonanza cognitiva – sono io che rendo tale un fatto trascurato -, la metto al centro dei colloqui di motivazione con i genitori, per restituire loro la consapevolezza della loro essenziale funzione di riferimento per il figlio: un fatto significativo, che ci dica “chi è” il ragazzo, aiuta a calmare l’ansia, ad uscire dal senso di impotenza che prova chi magari si è convinto di aver provato tutto e che non ci sia più niente da fare. La persona si apre alla speranza, ché incomincia ad intravvedere possibilità nuove.
Su un block notes con molte pagine costruisco le mappe ‘definitive’, quando il paesaggio affettivo della famiglia è completo. Cerco di far emergere dai colloqui i volti e le voci: registro il senso che riesco ad assegnare ai volti e alle voci. Abbozzo biografie. Costruisco la fonosfera – il paesaggio sonoro, le nostre voci – in cui ci moviamo. Al momento opportuno, me ne servo per colpire la fantasia degli interessati, per rafforzare la relazione educativa costruita. Ogni costruzione visuale porta la data della conclusione, quando cioè il quadro è chiaro.

Allora, posso parlare del frame, cioè della cornice dentro la quale si consuma il ‘dramma’ del ragazzo. Si tratta di una vera e propria ‘scena’ sulla quale i diversi attori ‘giocano’ ruoli diversi. Se, ad esempio, la madre parla sempre e il padre tace, si suggerisce alla madre un ruolo più ‘sobrio’, per consentire al padre di esprimersi in modo difforme. Quando questo avviene, si aiuta la madre a rispettare le enunciazioni del padre. Si discute il significato del rispetto dei ruoli e come esso giovi alla comunicazione allargata in famiglia. Se il ragazzo avverte cambiamenti nei genitori, è spinto dalla curiosità a intervenire agli incontri. Il lavoro inizia.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Scrivere

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Dal blog Il mestiere di scrivere, di Luisa Carrada: Benvenuto, e buona fortuna

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Conversazione con Franca D’Agostini sulla verità

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Lunedì 22 agosto 2011

[gplayer href=”http://www.radio.rai.it/podcast/A37779070.mp3″]RAI Podcast Radio3 – FAHRENHEIT del 22/08/2011 – Conversazione con Franca D’Agostini[/Gplayer]

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FRANCA D’AGOSTINI, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, BOLLATI BORINGHIERi 2010

Il contenuto – Nella teoria dell’argomentazione si chia- ma «avvelenamento del pozzo» la procedura di delegittimazione che investe tutto ciò che una persona afferma. È solo una delle tante forme di fallacia, ossia di mossa argomentativa corretta in apparenza, che occulta ad arte la propria erroneità logica, allo scopo di ingannare. Di fal­lacie e di molto altro parla questo straordinario trattatello, con cui una delle più note filosofe italiane ci fa acquisire consapevolezza delle molteplici trame logiche e illogiche che governano il nostro dibattito pubblico: uno spazio costituito – e saturato – perlopiù da cattivi argomenti, soprattutto nel nostro presente pretesamente postideologico, che procede per contaminazione e avvelenamento sistematici della verità. Ma c’è una via d’uscita: il potere democratico è ancora nelle mani di chi ascolta e valuta gli argomenti dei politici, degli intellettuali, dei manipolatori dell’opinione pubblica. Quanto più si impara a valutare gli argomenti e a conoscere la fragilità e insieme l’imprescindibilità della verità, tanto più si indebolisce il veleno che infetta la comunicazione pubblica. Il solco è dunque ancora quello tracciato dall’antico precetto di ispirazione socratica: «insegnate ai cittadini ad argomentare bene, a seguire la dialettica dei concetti, e prevarranno i migliori».

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FRANCA D’AGOSTINI, Introduzione alla verità, BOLLATI BORINGHIERI 2011

Il contenuto – Della verità non possiamo disfarci. Ad affermarlo è una filosofa che più di altri ha saputo entrare nel vivo di un dibattito attualissimo, grazie al quale la verità è tornata nuovamente al centro della scena, dopo la marginalità riservatale da una parte consistente della filosofia del Novecento. A Franca D’Agostini riesce con naturalezza l’operazione filosofica per eccellenza: familiarizzarci con ogni piega logica, significato teorico, uso e abuso di un concetto che è acquattato nel nostro pensiero e cattura tutto ciò che diciamo. Perché la «stranezza» della verità è quella di un concetto fragile e delicato, ma che appartiene alle strutture di base della conoscenza e della vita associata, e orienta i nostri ragionamenti nella pratica quotidiana. Collocata tra realtà e linguaggio, è il segno invisibile dell’accordo tra i due piani, e la pensiamo sempre insieme alla sua violazione. Una nozione dunque di particolare rilievo proprio in democrazia, un contesto politico in cui chiunque può dire a un altro, fosse pure ricco e potente: «questo non è vero». E i malesseri della nostra sfera pubblica dimostrano quanto le idee chiare sulla nozione di verità siano condizione imprescindibile per una vera democrazia della ragione.

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I lavori della D’Agostini, nell’età del relativismo, sono una vera e propria provocazione. Il fatto di esser spinti ad ammettere di essere una finestra sul mondo attraverso cui guarda la verità o, che è lo stesso, il bisogno di essa, rende, nei nostri tempi, molto perplessi. Ma la perplessità e la meraviglia siano, almeno in filosofia, la nostra fonte.


Intervista: Prima parte (18 giugno 2010) – La dicotomia tra filosofi analitici e continentali

Intervista: Seconda parte (18 giugno 2010) – “Una buona logica non mette il pensiero in catene ma gli dà le ali” – Bertrand Russell

Intervista: Terza parte (18 giugno 2010) – Il ruolo della filosofia

Intervista: Quarta parte (18 giugno 2010) – Il rapporto tra linguaggio ed esperienza vissuta

Intervista: Quinta parte (18 giugno 2010) – Si può spiegare il nulla?

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Leggere anche

Metamorfosi. Dalla verità al senso della verità (a cura di Giuseppe Barbieri e Paolo Vidali), LATERZA 1986

MARTIN HEIDEGGER, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul Teeteto di Platone, ADELPHI 1997

FRANCA D’AGOSTINI, Disavventure della verità, EINAUDI 2002


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