Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (258): Leggere MARIANELLA SCLAVI, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte (2003)

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Lunedì 22 agosto 2011

L’unico modo per risalire al sistema di premesse implicite in base alle quali l’organismo opera è metterlo in condizione di sbagliare e osservare come corregge le proprie azioni e i propri sistemi di autocorrezione. – GREGORY BATESON

E’ il tentativo di separare l’intelletto dalle emozioni che è mostruoso e secondo me è altrettanto mostruoso (e pericoloso) tentare di separare la mente esterna da quella interna, o la mente dal corpo. – GREGORY BATESON

Riconciliazione non significa farsi le coccole; non significa fingere che le cose siano diverse da quelle che sono state. – DESMUND M.TUTU

Tutti noi, se la nostra vita non è completamente manicomiale, mettiamo in pratica esperienze di osservazione guidata dall’ascolto attivo. Lo scopo di questo libro è di renderci consapevoli di cosa facciamo quando ci riusciamo, in modo da permetterci di riflettere su queste dinamiche e darci la possibilità di metterle in atto sistematicamente e volontariamente ogniqualvolta lo riteniamo necessario. [dalla quarta di copertina]

Le sette regole dell’arte di ascoltare di Marianella Sclavi:

1. Non avere fretta di arrivare a delle con- clusioni. Le conclu- sioni sono la parte più effimera della ricerca.

2. Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva.

3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché.

4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.

5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze.

6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.

7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sè.

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INDICE

Introduzione. L’arte di ascoltare/osservare

I. Ascolto attivo
Parte prima. Cornici e premesse implicite
1. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte (giochi proibiti)
2. Il gioco della doppia visione (la doppia descrizione e il giudice saggio)
3. Tavole sinottiche. Due abitudini di pensiero
4. Giochi di interfaccia (avventurarsi ai confini)
5. “La Terra sta morendo” (il gioco del riempimento: stereotipi e casi particolari)
6. Il Prof. in pantaloncini corti (non un lago, ma un fiume pieno di rapide)
Le sette regole dell’arte di ascoltare
Parte seconda. Indagine variazionale
7. Il gioco della piramide tronca del palcoscenico (indagine variazionale)
8. Tavolo o capanna (ascolto attivo fra genitori e figli: la realtà come costruzione sociale)
9. La città di Esotica (l’arte di non ascoltare)
10. Cumulex (ascolto come work in progress)
11. Tavola sinottica. Ascolto passivo, ascolto attivo
12. Ernesto va alla guerra (una buona insegnante è sempre un po’ antropologa)
Le sette regole dell’arte di ascoltare

II. Autoconsapevolezza emozionale
Parte prima. Le emozioni sono passi di danza
13. Linguaggio delle emozioni e vita quotidiana (retorica del controllo e autoconsapevolezza emozionale)
14. Il taccuino dell’antropologa (il ruolo dello sconcerto e della dissonanza nell’osservazione etnografica)
15. L’auto sul marciapiede (emozioni, umorismo e regole della convivenza civile)
16. Seguendo un’altra donna come un’ombra (prove di shadowing: dall’empatia aal’exotopia)
Le sette regole dell’arte di ascoltare
Parte seconda. Il gioco delle narrazioni parallele
17. Edward Hall in Giappone (coinvolgimento e distacco al microscopio e al rallentatore)
18. L’allegra scienza dei narratori interculturali (due modi di concepire l’imbarazzo)
19. Una commessa italiana a Old Bond Street (creare dei ponti)
20.Le cornici di Bateson (il linguaggio delle emozioni, il linguaggio verbale, le dinamiche della conoscenza)
Le sette regole dell’arte di ascoltare

III. Gestione creativa dei conflitti
Parte prima. La gentile arte dell’autodifesa conversazionale
21. La conversazione: il tema e il turno (il diritto di ascolto e il diritto di parola)
22. Il gioco della «danza del colpevolizzatore» (vince chi lo «decostruisce»)
Parte seconda. Né attaccare, né subire
23. I manuali di gestione creativa dei conflitti, rivisitati (l’interfaccia tra pensiero semplice e pensiero complesso)
24. Verità e riconciliazione (né attaccare, né subire, né andare sul balcone)
25. E l’alcolista uscì dal quadrato (doppi vincoli e doppi vincoli terapeutici)
Le sette regole dell’arte di ascoltare

Conclusioni. Noi mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri… (Il decalogo per la convivenza interetnica di Alexander Langer)

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (256): Leggere LUIGI MALERBA, Itaca per sempre (1997)

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Domenica 21 agosto 2011

Il giorno 8 marzo del 2008 è stato un po’ diverso dagli altri per me. Ogni volta mi pongo il problema di cosa dire l’8 marzo. Quell’anno scelsi il romanzo di Luigi Malerba, perché lo scrittore ci propone in esso una Penelope diversa da mito omerico. Giustamente concepita oltre quello che sarebbe diventato lo stereotipo della donna paziente. Come se dovessimo aspettare eternamente che l’altro ci concedesse il suo tempo prezioso, mentre il nostro non deve essere altro che attesa! Questa Penelope non mi è mai piaciuta. Come non mi è mai piaciuto quell’Odisseo che è sempre strappato altrove, teso ad accogliere dentro di sé tutte le cose, come se nulla dovesse rimanere non pensato, non organizzato in una superiore visione: si tratta allora di partire sempre di nuovo alla ricerca di altro senso… Ma stare qui, allora, non ha molto senso! La donna nostalgicamente desiderata e il figlio e la casa?

Giustamente scrivevo di lui in un post di quell’8 marzo che è tutto Sehsucht e Streben. E’ ancora struggimento e volontà di sintesi, tensione a raccogliere in un solo sguardo tutte le cose, a ricondurre tutto ad unità. Uno sguardo – un’educazione sentimentale – tipicamente maschile. Non vorremo certo mettere in discussione la storicità della guerra e le armi! Un modello di vita, però, sicuramente. Odisseo non mi è mai piaciuto. Incarna un’idea della ragione che non mi appartiene. Io preferisco l’esempio di Socrate con la sua nobile parresia.

Di Penelope scrivevamo che «occorre che una donna tenace metta in campo ancora la sua pazienza, per indurre Odisseo a deporre le insegne regali e a farsi finalmente uomo. E’ quello che fa Penelope, per volontà di Malerba: ritarda la ‘risposta’ all’eroe greco, chiamandolo a discutere di sé, di loro, di Itaca. La Penelope di Omero non ci piace più. Ci appare troppo presto protesa a dire . La Penelope di Malerba è nostra contemporanea, come è giusto che sia: ogni riscrittura del mito ne è un aggiornamento significativo per noi…»

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la Repubblica – Venerdì, 16 febbraio 1996
Una serie di conferenze che il filosofo francese tenne a Berkeley
MICHEL FOUCAULT A LEZIONE DI GRECO
di UMBERTO GALIMBERTI

SI PUÒ SEMPRE DIRE LA VERITÀ E QUALI DOVERI ESSA CI IMPONE? NON È SOLO IN GIOCO LA SUA FORMA LOGICA MA ANCHE LA CAPACITÀ E LA FORZA DI ESIBIRLA. L’ESEMPIO DI SOCRATE. 
Un grande capitolo di un ambizioso progetto. C’è una virtù che ha fatto la sua comparsa nel V secolo avanti Cristo e di cui si sono perse le tracce nel V secolo dopo Cristo. Il suo nome è parresia. Il suo significato è: Dire la verità.
Ce ne dà notizia Michel Foucault in una serie di conferenze tenute all’Università californiana di Berkeley nel 1983, un anno prima di morire. Oggi queste conferenze sono raccolte in un libro: Discorso e verità nella Grecia antica (Donzelli, pagg. 120, lire 25.000) aperto da un’ottima introduzione di Remo Bodei che ne parla come di un «libro sulla libertà di parola. Un grande frammento, in sé compiuto, di un vasto e ambizioso progetto a cui Foucault ha dedicato i suoi ultimi anni di vita affrontando, contestualmente, il problema del sorgere dell’attitudine critica nelle filosofie dell’Occidente e quello di un’etica della verità». Verità è la parola chiave della filosofia, è il problema intorno a cui tutta la ricerca filosofica si affaccenda dal giorno in cui nacque prendendo congedo dal mito e dalla religione. Anche la religione, infatti, ritiene di dire la verità, ma il fondamento della sua verità risiede nell’autorità di chi la enuncia, mentre la filosofia cerca una verità capace di stare in piedi da sola, senza il conforto di alcuna autorità.
I filosofi greci chiamarono questa loro verità episteme, una parola che viene resa in latino con scientia e in italiano con scienza. Ma, così tradotta, la parola perde il suo significato originario che è poi quello che risulta dal verbo istemi che vuol dire “sto” e da epì che vuol dire “su”. Episteme vuol dire allora “ciò che sta su”, ciò che si impone da sé, e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi all’autorità di chi parla come accade nel linguaggio religioso, né alla persuasione seduttiva a cui ricorre il dire retorico, né alla mozione degli affetti come accade al linguaggio poetico. Ma intorno alla “verità” sorgono subito due problemi: il primo è quello di stabilire i criteri che presiedono alle affermazioni vere e ai giudizi corretti e a ciò provvede la “logica”, il secondo è quello di dire la verità, dove in gioco non è la correttezza formale del discorso, ma il diritto o il dovere di dirlo. Qui sorgono subito questioni del tipo: chi è in grado di dire la verità? Quali requisiti deve avere chi se ne sente abilitato? Su quali argomenti è importante dire la verità? Sulla natura? Sulla città? Sui costumi? Sull’ uomo? Quali sono gli effetti positivi o negativi per i governanti o per i governati? Che rapporto c’è tra dire la verità e l’esercizio del potere?
Il problema qui non è di stabilire come essere sicuri che una determinata proposizione sia vera (su ciò ha insistito la tradizione filosofica occidentale, producendosi in quella che Foucault chiama “analitica della verità”), ma di sapere chi è capace di dire la verità. Che importanza ha per il singolo e per la società avere individui capaci di dire la verità? Come fare per riconoscerli? Dove in gioco non è la struttura logica della verità, ma la capacità e la forza di dirla. In tutto questo Foucault vede l’origine di ciò che in Occidente si chiama critica e che ha in Socrate il suo primo grande esempio.
Qui la filosofia si salda subito con la politica, l’una e l’altra nate insieme in quella Grecia del V secolo avanti Cristo, quando si contrappone alla parola autoritaria il dialogo filosofico in cui si confrontano le opinioni dei partecipanti, e alla tirannide la democrazia dove nell’agorà si confrontano le opinioni dei cittadini. La democrazia ateniese fu definita in modo del tutto esplicito come una costituzione (politeia) che garantisce: l’isegoria che è il diritto di parola, l’isonomia che è il diritto per tutti di partecipare all’esercizio del potere, e la parresia che è il diritto-dovere di dire la verità.
La parola parresia compare per la prima volta in Euripide (V secolo avanti Cristo), ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici del V secolo dopo Cristo, e per l’ ultima volta in Giovanni Crisostomo. Da allora se ne perdono le tracce e, con le tracce, anche il coraggio di “dire la verità”.
Bravo chi corre il rischio di essere punito. Ma perché Foucault parla di coraggio? Gli antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorre “dire tutto” ciò che si ha in mente. La stessa etimologia della parola parresia rinvia a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto). Nella parresia si suppone che non ci sia differenza tra ciò che uno pensa e ciò che dice. L’esatto contrario della virtù di Ulisse che i greci chiamavano phronesis e noi, scorrettamente, ma forse coerentemente con la nostra indole, traduciamo con astuzia.
Ma dire tutto non sempre è un pregio. Platone ad esempio ritiene pericoloso per una buona democrazia rivolgersi ai propri concittadini e dir loro qualunque cosa anche la più stupida o la più offensiva che viene in mente. Questo cattivo uso della parresia è menzionato di frequente nella letteratura cristiana dove si indica, come rimedio, il silenzio. Per un corretto impiego della parresia è necessario che chi vi ricorre abbia delle qualità morali e soprattutto il coraggio di correre un rischio o un pericolo conseguente a ciò che dice. Buoni saranno allora quei consiglieri del sovrano se, dicendo la verità, corrono il rischio di essere puniti, esiliati o uccisi, così buono sarà quel governante che, dicendo ciò che ha davvero in mente, rischia di perdere la popolarità, la maggioranza, il consenso.
Usare la parresia, dire la verità, quando non diventa un gioco di vita e di morte come nel caso di Socrate, resta pur sempre una sfida al potere in cui Foucault vede l’origine dell’esercizio della critica. Per il greco antico questo esercizio è autentico solo quando chi lo esercita corre qualche rischio, in caso contrario è cattiva parresia, un facile gioco in cui ciò che si esprime non è tanto la verità quanto la propria irritazione che, non prevedendo costi, può essere detta gratuita.
Ma ognuno sa, che oltre agli interlocutori esterni, ciascuno ha un interlocutore interno a cui dire la verità. Qui la critica diventa “autocritica”, capacità di dire la verità a se stessi, di scandagliare la propria ombra, le cantine delle propria anima, in linea con il messaggio dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. Forse tutte le pratiche psicoanalitiche, con la complicazione dei loro linguaggi, non hanno ancora raggiunto la semplicità di questo messaggio a cui ci conduce il buon uso della parresia: dire a se stessi, almeno a se stessi, la verità.
Si concentrano così in una parola semplice una serie di virtù morali e civili a cui dovrebbero attenersi gli abitanti della città e soprattutto chi li governa. Chi pratica la parresia dimostra infatti di avere uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la vita attraverso il rischio e il pericolo, una comunicazione autentica con gli altri e con se stessi attraverso la critica e l’autocritica, un significativo rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere di dire la verità. Nasce allora quel cittadino che è libero perché sceglie di parlar franco invece di irretire l’ interlocutore con gli inganni della persuasione, sceglie la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio della vita invece della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale.
Ma da noi vincono le mille astuzie di Odisseo. Chissà se abbiamo perso queste virtù perché abbiamo perso la parola “parresia”, o se abbiamo perso la parola perché non si riferiva più a nulla o a nessuno. Nel gioco intrecciato tra “le parole e le cose”, a cui Foucault ci ha abituato, parresia segnala un nodo. Provare a scioglierlo potrebbe migliorare la relazione tra gli uomini e la loro condizione civile. Ma non abbiamo la minima speranza. Da noi ha fatto scuola l’Odissea con il resoconto delle mille astuzie del suo eroe, non L’apologia di Socrate con la parresia del suo nobile testimone.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (255): Leggere PAOLO IARIA, La responsabilità della persona tossicodipendente nell’ottica del paradigma rogersiano

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Sabato 20 agosto 2011

Il testo che segue non ha solo una valenza teorica qui: appartiene alla sfera dei ricordi. Paolo Iaria, infatti, era un medico che lavorava da 14 anni nella sede di Exodus di Santo Stefano in Aspromonte quando si trasferì a Como. Negli ultimi anni fece da supervisore al gruppo dei volontari di Libera Mente. Si ispirava alla visione rogersiana per spiegarsi il fenomeno della tossicodipendenza, come si evince dallo stesso titolo dello scritto che segue.

La responsabilità della persona tossicodipendente
nell’ottica del paradigma rogersiano
a cura di Paolo Iaria
Medico-Psicoterapeuta

Parte I: Dipendenza e psicopatologia

Lo studio adeguato della tossicodipendenza richiede un approccio multidisciplinare che spazi dalla biologia molecolare e cellulare per arrivare sino alla psichiatria e alla sociologia. Fondamentalmente l’uso di sostanze d’abuso è un comportamento appreso attraverso trasmissioni culturali di tipo orizzontale all’interno di gruppi di pari circoscritti all’interno della fascia giovanile: “la trasmissione culturale consiste di due fasi successive: la comunicazione di una novità e la sua accettazione… consideriamo immuni dal contagio gli individui cui la famiglia e comunque la società quale si esprime nelle generazioni precedenti siano riuscite a trasmettere un atteggiamento critico nei confronti dell’uso di sostanze e, soprattutto, a renderlo superfluo e non appetibile per l’economia psichica dell’individuo. Il rapporto fra virulenza della trasmissione orizzontale (disponibilità della sostanza, numero di pari già “contagiati”, etc.) e saldezza della trasmissione verticale dell’immunità darà ragione della probabilità che il contagio avvenga a livello individuale e dei “coefficienti di trasmissione” a livello sociale.[1] In questi ultimi anni, il notevole progresso della ricerca neurobiologica condotta a vari livelli, da questo neuronale e comportamentale a quello molecolare e recettoriale ha permesso una maggiore comprensione di un fenomeno complesso come la tossicodipendenza, con conseguenti ripercussioni a livello clinico e sociale. Nel DSM-IV il termine dipendenza è utilizzato per descrivere una condizione nella quale l’individuo fa uso smodato di una o più sostanze, con conseguente compromissione della condizione fisica, stato di angoscia, difficoltà nel controllare i comportamenti volti alla ricerca della sostanza, sindrome di astinenza in assenza della stessa, tolleranza ai suoi effetti. Una caratteristica comune alle tossicodipendenze è il fatto che le sostanze che le inducono possiedono spiccate proprietà motivazionali nel senso che l’esperienza dei loro effetti subiettivi è per il tossicodipendente un fine primario dell’esistenza al pari di stimoli naturali come il cibo, l’acqua, il sesso, etc. Tale proprietà motivazionale fa sì che stimoli condizionati da tale sostanze, per essere stati ripetutamente associati ai loro effetti subiettivi, diventano capaci di scatenare un intenso desiderio di riprovare gli effetti (“craving”). Il “Craving” dunque è un costrutto psicologico – comportamentale che descrive la capacità di certe sostanze chimiche di conferire spiccate proprietà emotive a stimoli altrimenti neutri che siano stati condizionati ad esso. Grazie all’acquisizione di queste proprietà emotive tali stimoli secondari diventano potenti incentivi di comportamenti finalizzati all’acquisizione della sostanza d’abuso. Così un volto, un luogo, uno spot pubblicitario, una situazione, possono scatenare una sequenza che ha come fine, e in caso positivo, come risultato, il consumo della sostanza d’abuso. Dopo questo tipo di considerazioni, viene naturale pensare che questo problema può avere diverse letture e che tutte possono concorrere a spiegarlo. Per ovvi motivi di studio e per la scelta di campo mi soffermerò qui sulla lettura psicologico-psichiatrica. Questa riveste particolare importanza, dal momento che quasi tutti i soggetti tossicodipendenti hanno anche una diagnosi psichiatrica associata. Una psicopatologia può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo della dipendenza, può condizionare decorso e trattamento, ma può essere anche il frutto di una intossicazione acuta o cronica. La maggior parte delle diagnosi psichiatriche associate alla tossicodipendenza riguarda i disturbi di personalità (asse II del DSM  IV), soprattutto i disturbi borderline, narcisistici, antisociali, dipendenti e schizoidi. Tra i disturbi mentali propriamente detti (Asse I del DSM  IV), abbiamo le alterazioni dell’umore, in particolare ciclotimia e depressione, che sembrano essere le più frequenti, anche se spesso scompaiono al raggiungimento della sobrietà. I disturbi psicotici transitori sono abbastanza comuni tra gli assuntori di droghe eccitanti come la cocaina, le amfetamine e, naturalmente, gli allucinogeni. Un disturbo psicotico o schizofrenico primario è infrequente tra i tossicodipendenti, soprattutto se assuntori di oppiacei. Infine, anche i disturbi d’ansia sono associati alla tossicodipendenza con una certa frequenza, sia il disturbo d’ansia generalizzato, sia le fobie o gli attacchi di panico.

Parte II: Tossicodipendenza e paradigma rogersiano

Essere persona responsabile significa comportarsi in modo riflessivo ed equilibrato, tenendo sempre consapevolmente presente i pericoli e i danni che i propri atti o le proprie decisioni poterebbero comportare per sé e per gli altri, e cercando di evitare ogni comportamento dannoso. C. Rogers in una relazione presentata nel luglio del 1980, durante il Simposio “L’Insegnante come persona”, diceva per ciò che riguarda gli obbiettivi che l’educazione dovrebbe raggiungere rispetto agli studenti:

“ – Spero che con la sua esperienza scolastica uno studente divenga una persona capace di imparare criticamente valutando le informazioni che provengono dalle varie fonti;
–  riesca a fare scelte intelligenti e a darsi orientamenti autonomi;
–  ciò che ancor più conta riesca ad utilizzare queste conoscenze in modo flessibile via via che affronta situazioni nuove o difficili;
–  sia capace di prendere decisioni responsabili o autonome nella soluzione dei vari problemi;
– abbia trovato divertente apprendere diventando così una persona stabilmente desiderosa di conoscere”.[2]

Per il raggiungimento di questi obiettivi è essenziale, da parte di coloro che favoriscono (figure – criterio: genitori e insegnanti) la conoscenza dei processi psichici che si svolgono nella interazione sociale e nei rapporti interpersonali, sapere cosa facilita o cosa ostacola un processo in crescita. Molte sono le domande che pressano in me:

  • i genitori nella loro opera educativa sono responsabili, cioè consapevoli, delle conseguenze del loro comportamento nel rapporto con i propri figli?
  • c’è congruenza tra i valori personali dei genitori e i loro comportamenti?
  • molti sono gli adolescenti che soffrono di disagi affettivi, disturbi della condotta, disturbi depressivi, sofferenza emotiva. Cosa spinge alcuni verso l’uso delle sostanze psicotrope? La loro scelta è consapevole, ovvero sono responsabili e consapevoli delle conseguenze delle loro scelte? È quello che veramente vogliono? È quello che serve loro per soddisfare i loro bisogni?
  • mi domando ancora cosa facilita nei ragazzi lo sviluppo del senso di responsabilità, caratteristica essenziale della maturità? 
  • possono le comunità terapeutiche ricreare il clima favorevole per un processo di crescita della persona?
  • il recupero è sempre possibile?

Sicuramente è importante dal punto di vista sociale domandarsi e verificare quale sia il modello più efficace per il recupero dei tossicodipendenti. Ritengo sia oltretutto importante cercare di capire cosa spinge il ragazzo verso la scelta dell’uso di sostanze. La mia intenzione qui è quella di centrare la mia attenzione su cosa abbia potuto ostacolare lo sviluppo del senso di responsabilità nella persona tossicodipendente, cercando di capirne le implicazioni secondo l’ottica del paradigma rogersiano. Secondo Rogers la natura umana è positiva degna di fiducia, ogni organismo umano ha in sé la tendenza attualizzante che è una forza, un’energia la cui direzione va verso lo sviluppo di tutte quelle capacità che sono utili a mantenere, autoregolare e autoanalizzare tale organismo. Se le condizioni sono favorevoli, la tendenza attualizzante si rivelerà come un processo in continuo divenire in cui l’individuo sviluppa il suo naturale potenziale di autorealizzazione, divenendo una persona sempre più pienamente funzionale. Quando la tendenza attualizzante può esercitarsi in condizioni favorevoli, senza ostacoli psicologici gravi, l’individuo può svilupparsi nel senso della maturità. Questa concezione dello sviluppo ci porta a porci una domanda:

  • come la personalità si dirige verso l’autonomia e la responsabilità caratteristiche essenziali della maturità?

C. Rogers dice, se ogni individuo può vivere liberamente la propria esperienza (per libertà dell’esperienza si intende la possibilità di integrare a livello cognitivo le proprie emozioni, i propri sentimenti, senza necessità di falsarle, per paura di perdere il consenso esterno, quindi l’individuo può simbolizzarli) vi sarà stretta corrispondenza tra la sua esperienza reale e le sue percezioni e la persona potrà meglio scegliere il proprio comportamento, dirigendosi automaticamente e responsabilmente verso scelte funzionali per se e per gli altri. Le scelte responsabili e mature sono il risultato di una buona rappresentazione a livello di coscienza di più elementi possibili da valutare soprattutto che siano corrispondenti alla sua esperienza reale. Più la persona correttamente sa, meglio può scegliere; avendo maggiori e migliori informazioni, può trovare migliore soluzione per il suo mantenimento e funzionamento nella vita. Durante la sua crescita la persona prende coscienza della diversità dei suoi bisogni; più coscienza a (più e meglio ha potuto simbolizzarle), meglio può valutare, verificare e correggere. Possiamo sintetizzare dicendo che la persona più può prendere coscienza della sua esperienza meglio può valutarla, correggerla, potendo così dirigersi verso un comportamento maturo, facendo scelte autonome e responsabili. La persona può autodirigersi e autovalutarsi se gli elementi della sua esperienza sono disponibili alla coscienza. Se non c’è congruenza tra il sé reale e il sé percepito, le scelte saranno inadeguate. Mi domando: i ragazzi tossicodipendenti hanno potuto simbolizzare correttamente e liberamente la loro esperienza senza minacce esterne? Se non hanno potuto simbolizzare la loro esperienza, che cosa ha impedito che questo avvenisse? Carl Rogers risponde che è l’assenza di libertà esperienziale che impedisce la simbolizzazione dell’esperienza. Per libertà esperienziale si intende la libertà che il soggetto ha di riconoscere e di elaborare le sue esperienze e i suoi sentimenti personali serenamente. Questa libertà esiste quando il soggetto si rende conto di poter esprimere liberamente la propria esperienza interiore, i suoi pensieri, le sue emozioni e desideri, così come li prova, anche se non conformi alle norme sociali e morali. Può avvenire la libertà esperienziale solo se il soggetto non si sente costretto a negare o a deformare le sue opinioni o atteggiamenti per mantenere l’affetto e la stima dei suoi cari. La libertà esperienziale può avvenire se la persona vive in una situazione o ambiente che gli permette una sicurezza emotiva, priva di minaccia e alla struttura del sé. Quali sono le condizioni che portano una persona a provare una sicurezza emotiva? Carl Rogers risponde a questa necessità non solo con dei postulati teorici, ma attraverso verifiche scientifiche. Con il termine relazione di aiuto, Carl Rogers intende un rapporto in cui almeno uno dei protagonisti cerca di promuovere lo sviluppo, la maturazione, il funzionamento ottimale. Questa definizione può essere applicata a svariate forme di interazione umana a relazione a due come tra madre e figlio, medico e paziente, insegnante e alunno, consulente e cliente, terapista e persona. L’obbiettivo finale è aiutare, promuovere e facilitare la crescita e lo sviluppo della persona. Per Rogers una sicurezza emotiva è facilitata dalla presenza, nella relazione, di tre condizioni che ritiene necessarie. Voglio considerare in questa sede le tre condizioni (accettazione positiva incondizionata, congruenza ed empatia) e tradurle come qualità umane che un genitore potrebbe avere, per creare un clima di sicurezza emotivo e per facilitare un processo di crescita:

  • la capacità di avere fiducia;
  • la possibilità di dare una cura incondizionata e positiva;
  • la capacità di avere rispetto profondo verso il figlio;
  • essere congruente;
  • avere empatia.

Per il figlio è importante avere un ambiente di fiducia, la mancanza può portare disistima verso se stessi; è importante che possa percepire accettazione dei sentimenti provati, in modo da esprimerli chiaramente e direttamente. La congruenza del genitore sta nell’essere genuini, veri, senza false facciate da duro o da investigatore; la congruenza si traduce verbalmente nell’uso di messaggi chiari in prima persona che possono far capire chiaramente e trasparentemente il sentimento provato. L’accettazione positiva incondizionata è importantissima per creare un clima di sicurezza, garantendo una situazione di piena accettazione: il genitore consente al figlio di esprimersi liberamente, di provare quella libertà esperienziale che lo porterà a sentire meglio i propri sentimenti, riuscendo a rappresentarli senza doverli negare per essere negato. In effetti, la presenza di questa condizione crea le condizioni necessarie per la realizzazione dello stato di accordo interno e quindi dell’adeguato funzionamento. Avere accettazione e provarla significa rispettare l’altro come individuo senza dare importanza a ciò che fa, ma dargli importanza e valore come persona per quello che è: il valore deve essere legato per quello che sono, non solo per quello che fanno.

Essere empatici.

I suoi interventi saranno efficaci se riuscirà a interagire  in modo più genuino possibile, essendo trasparente rispetto ai propri sentimenti e congruente con la propria esperienza interna, se riesce ad essere contemporaneamente ascoltatore attivo, cosa che implica la coesistenza di un alto grado di accettazione e di empatia verso il vissuto dell’altro. I suoi interventi dovrebbero facilitare le potenzialità di attualizzazione del bambino, cosa che implica un contatto diretto da persona a persona. E  anche le resistenze del figlio dovrebbero essere accettate come uno dei tanti aspetti del suo modo di essere e di provare. E’ importante sottolineare che attraverso il contatto che si instaura con l’ascolto empatico si possono meglio capire i sentimenti dell’altro; senza confrontarli con un giudizio personale, abbandonando l’atteggiamento di giudizio, si possono sicuramente accettare e si può accettare anche che esistono nell’altro quei sentimenti.

Con la comprensione empatica il figlio si sente così capito e accettato, quindi non giudicato; quindi, non percependo situazioni di minaccia, non ricorre alle difese e alle bugie che, se usate allontanano sia il genitore dal figlio sia il figlio da se stesso, negando la realtà. È strano ma la bugia è l’inizio di una strada che può portare alla psicosi. In oltre se un genitore ha e usa queste qualità nella relazione con il proprio figlio, può veramente aiutarlo a svilupparle per se stesso e con gli altri. Sicuramente se il figlio durante il corso della sua crescita troverà  queste qualità negli altri verso i suoi stessi genitori. Mi sono domandato se le comunità terapeutiche possono ricreare un clima facilitante al processo di crescita. Dopo quattro anni di esperienza con l’approccio rogersiano nelle comunità terapeutiche ho verificato che è possibile, nella misura in cui sia negli operatori e soprattutto nei ragazzi ci sia il senso pieno di responsabilità verso la propria crescita e il proprio cambiamento. Nel libro  “Psicoterapia e relazioni umane” di Kinget e Rogers ho letto: “il soggetto si considera sprovvisto di competenza e di valori personali, più avrà la tendenza a scaricare su di un altro le sue responsabilità”. Ritengo sia necessario creare all’interno delle comunità terapeutiche una situazione dove il ragazzo possa sperimentare il proprio valore e riappropriarsi del proprio potere personale, sviluppando il senso pieno di responsabilità per non continuare  a scaricare sugli altri la responsabilità della sua condizione, dirigendosi in modo consapevole verso scelte più funzionali per la sua vita. Ritengo che l’A.C.P.  (APPROCCIO CENTRATO SULLA PERSONA) applicato nelle Comunità, dia maggiori possibilità ai ragazzi di dirigere il proprio cambiamento. Essenzialmente l’aiuto psicoterapico all’interno delle Comunità sta nel creare condizioni eccezionali prive di minaccia che permettano all’esperienza bloccata di liberarsi e di mettersi al servizio del comportamento, per dirigersi verso scelte consapevoli e durature. Il clima privo di minacce deve essere pregno di sicurezza emotiva, rispetto profondo, comprensione empatica, chiarezza e trasparenza e congruenza, per permettere la simbolizzazione. Tutto questo può non bastare, se non vi è una partecipazione attiva del ragazzo in fase di recupero e quando un obbiettivo si realizza, la responsabilità del successo non sta mai solo da una parte, ma entrambi  – ragazzi e comunità –  hanno partecipato a realizzarlo. Ritengo che l’A.C.P. possa far sentire le persone veri agenti del proprio successo.

Bibliografia

 

  • BISOGNI MARIA MADDALENA, L’approccio centrato sulla persona, Attualità del metodo rogersiano nell’educazione e nel counseling, Franco Angeli, Milano, 1983.
  • BOWLBY, Una base sicura, Cortina, Milano, 1989.
  • BONINO S., Lo sviluppo dell’empatia tra contagio emotivo e rappresentazione, in Battistelli, P.G. (a cura di), Io penso che tu pensi…., Franco Angeli , Milano, 1995.
  • CAVALLI-SFORZA L., Genese, peuples et langues, trad. it., Geni popoli e lingue, Adelphi, Milano, 1996.
  • COHEN A., The “urge to classify” the narcoti addict, int. J. Addiction 19, 1984.
  • CRAIG R.J., Caracteristics of herain addicts, in Int. J. Addictio, 17, 1982.
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  • GRILLO L., Rapporti tra astinenza da oppiacei, sindrome depressiva e legami con la figura materna,  N.P.S., 2, 1993.
  • LECKY P., The personality, in Moustakas C. (ed),  The self, Harper and Row,  N.Y., 1956.
  • MARLATT G.A., Coping and substance abuse: implications for research, in Shiffman S., Wills T. (eds),  Coping and substance use, Accademic Press, N.Y., 1985.
  • MISCHEL W., Introduction to Personality, CBS C.P. New York, trad. it., Lo studio della personalità, Il Mulino, Bologna, 1986.
  • ROGERS C.R., Counseling and Psichotherapy, Houghton Mifflin, Boston. 1942, trad. it.,  Psicoterapia di consultazione, Altrolabio, Roma, 1971.
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  • SERPELLONI GIOVANNI, PIRASTU ROBERTO, BRIGNOLI OVIDIO, Medicina delle tossicodipendenze, SEMG Editore, Firenze, 1996.
  • TREVARTHEN C., Brain development, in Gregory R.,  The Oxford companion to the mind, Oxford University Press, 1987.
  • VACCARI V., ZUCCONI A., Il mondo delle relazioni interpersonali secondo Carl Rogers, Rivista di psicoterapia relazionale, 4, 1996.  


[1] Valeria Vaccari, Alberto Zucconi, Psicologia della responsabilità nella tossicodipendenza, in “Da Persona a Persona”, Rivista di Studi rogersiani, Roma, ottobre 1997.

[2] Maria Maddalena Bisogni, L’approccio centrato sulla persona, attualità del metodo rogersiano nell’educazione e nel couseling, Franco Angeli Editori, p.92

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Leggere FRANZ KAFKA, Davanti alla legge

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FRANZ KAFKA, Davanti alla legge

Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi,» dice il guardiano, «ma adesso no.» Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata nell’interno. Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me.» L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera all’uso tartaro decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Giorni e anni rimane seduto lì. Diverse volte tenta di esser lasciato entrare, e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco, alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può consentirgli l’ingresso. L’uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il guardiano, e questi accetta bensì ogni cosa, però gli dice: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.» Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ve ne sono degli altri, quel primo gli appare l’unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia, limitandosi a borbottare tra sè. Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega anche la pulce di intercedere presso il guardiano perché cambi idea. Alla fine gli s’affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno, o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che scaturisce inestinguibile dalla porta della legge. Non gli rimane più molto da vivere. Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno, poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano deve abbassarsi grandemente fino a lui, dato che la differenza delle stature si è modificata a svantaggio dell’uomo. «Che cosa vuoi sapere ancora?» domanda il guardiano, «sei proprio insaziabile.» «Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l’uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?» Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo.»

Per il significato del testo kafkiano leggere MASSIMO CACCIARI, Icone della Legge, ADELPHI 1985: II. La porta aperta, pp.56-137

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (254): Leggere don ANTONIO MAZZI, Mattutini

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Sabato 20 agosto 2011

I camminatori veri sanno dove appog- giare i piedi e dove appoggiarsi con le mani. Come il “lampadiere”: colui che mette la luce in cima alla canna e mette la canna sulla spalla con la luce rivolta all’indietro, in modo che altri possano seguire tranquillamente il sentiero. Mi sono chiesto come può il lampadiere vedere il sentiero. Mi piace pensare che ci sia un cammino già tracciato, un terreno sicuro dove appoggiare il piede solcato da migliaia di tracce che altri prima hanno lasciato. Così il cammino del “lampadiere” risulta sicuro. E’ forse questo lo stare dalla parte buona della vita?

Il 3 ottobre 2009 don Antonio Mazzi, uno dei miei Maestri, distribuì ai suoi Educatori una copia con dedica dei suoi Mattutini [vedi anche il Mattutino e Sentinella del mattino], edito dalla Fondazione Exodus Onlus in ottobre dello stesso anno. Quando lo abbiamo ricevuto dalle sue mani, era fresco di stampa. Da allora lo porto quasi sempre con me. Se affronto un lungo viaggio, lo porto senz’altro. Non è solo un ‘testamento spirituale’: contiene questioni aperte e inviti alla riflessione che non si lasciano esaurire con una sola lettura.

Il privilegio di essere stato al suo fianco dal 1992 ininterrottamente, di aver lavorato per lui in silenzio, senza chiedergli mai nulla, di aver ricevuto in dono ogni volta un viatico per l’azione è senza prezzo. Dopo aver iniziato nel 1989 in un Centro di ascolto a fare quello che ho continuato poi con Exodus, posso dire che essere diventato parte della sua Comunità, Educatore riconosciuto, costituisce per me un compimento. Sentirmi suo figlio è possibile da quando lui per primo ha dichiarato di voler essere riguardato come padre.

La data di consegna dei Mattutini costituisce un’altra svolta, assieme a tutti i momenti che è difficile enumerare, in cui siamo stati talmente vicini che è stato necessario il pianto commosso a trattenerci da un abbraccio da cui non ci saremmo sciolti più.

L’ultima volta che l’ho sentito, in dicembre a Milano, ci ha raccomandato di imparare a piangere senza asciugarci le lacrime. Già in precedenza aveva raccomandato di fare tesoro della propria fragilità.

L’ultima frontiera su cui stiamo lavorando è la foresta dei sentimenti, in cui dobbiamo imparare a muoverci assieme agli altri. La speranza di essere i lampadieri che ha indicato come insegna morale e come compito guida tutti i nostri passi. Dentro i nostri Avamposti teniamo viva la lampada della speranza, perché la sua luce non abbia mai a mancare a chi non ne ha.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto – Leggere ANNA MARIA BENEDETTO e ANDREA GRAGNANI, I Fondamenti teorico-clinici della Vergogna (1997)

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ANNA MARIA BENEDETTO e ANDREA GRAGNANI 
I Fondamenti teorico-clinici della Vergogna 
“Psicoterapia”, 1997 Apr-Giu, 9: 47-66
Associazione di Psicologia Cognitiva, Roma

Riassunto

Tra le emozioni egopoietiche abbiamo scelto di presentare una rassegna dello stato dell’arte degli studi sulla vergogna sostanzialmente per due motivi: da una parte perché pur essendo una emozione che sperimentiamo e riconosciamo quotidianamente paradossalmente viene spesso confusa con altre o trascurata nel setting terapeutico; dall’altra, è quella che riscontriamo più frequentemente in svariati quadri psicopatologici. È stato dato molto risalto alla diagnosi differenziale con le altre emozioni quali il senso di colpa e l’imbarazzo proprio per rendere più chiare e più fruibili tali informazioni per il nostro lavoro di psicoterapeuti. Tale approccio ci permette una maggiore dimestichezza nell’ambito della vergogna e ci consente di ampliare il nostro campo di osservazione e di intervento in un lavoro di ristrutturazione cognitiva.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto – Leggere CINZIA SABBATINI PEVERIERI, La necessità ontologica della vergogna

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CINZIA SABBATINI PEVERIERI, La necessità ontologica della vergogna

Copyright © 2000 Cinzia Sabbatini Peverieri

Sabbatini Peverieri, Cinzia. «La necessità ontologica della vergogna», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 2 (2000) [inserito l’8 gennaio 2000].

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Contributi a una cultura dell’Ascolto Felicità coniugale (2001)

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Indipendentemente dal valore che attribuiremo al testo che segue, è utile ricavare da esso la nozione di stile di attaccamento positivo e considerare l’influenza della vergogna all’interno della vita delle nostre relazioni.

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Due nuovi studi presentati nelle settimane scorse a San Francisco durante il meeting dell’American Psychological Association hanno esplorato i segreti del successo della vita coniugale e cosa rende felice e duraturo un matrimonio. Da quanto si è ricavato dal lavoro di intervista svolto dai ricercatori di due università statunitensi (Washington e Los Angeles) su circa 180 coppie, si rileva che, contrariamente alle aspettative, non è tanto importante il fattore della reciproca compatibilità tra i coniugi, quanto piuttosto gli stili di attaccamento fatti propri dai singoli partners fin dall’infanzia a svolgere un ruolo importante nella riuscita matrimoniale.

La ricerca, infatti, era partita dal presupposto di verificare quali tipi di coppie conseguissero delle unioni più durature e armoniose, se quelle cioè in cui i coniugi avevano personalità simili o al contrario molto diverse o opposte; i risultati hanno invece mostrato che non c’era una differenza significativa su questi aspetti specifici.

“La compatibilità caratteriale non appare realmente collegata alla riuscita del rapporto tra i coniugi..”- dice la dr.ssa Krista Sutherland, che ha condotto lo studio – “..I risultati mostrano invece che l’intimità all’interno delle relazioni coniugali è influenzata soprattutto da come i coniugi hanno assimilato gli schemi di attaccamento emotivo positivo durante la loro infanzia, e come ciascuno di essi riesca quindi a riproporli col proprio partner..”.

La rilevazione dei dati, avvenuta attraverso questionari e tests specifici, è stata diretta su alcuni aspetti particolari del comportamento di attaccamento adulto, come l’intensità dei sentimenti di vergogna ed il grado di intimità reciproca; i ricercatori, infatti, hanno postulato che gli adulti che sviluppano un attaccamento positivo e funzionale al rapporto coniugale abbiano provato in infanzia e adolescenza meno intensi sentimenti di vergogna e una maggiore capacità di intimità in ambito interpersonale (precedenti ricerche sull’argomento hanno infatti già rilevato il collegamento tra i sentimenti patologici di vergogna e una scarsa intimità nel rapporto tra i partner).

Nello studio in esame, sono stati individuati tre stili principali di attaccamento tra i coniugi: sicuro, ansioso-ambivalente ed evitante. I dati mostrano quindi che i soggetti che presentano uno stile di attaccamento sicuro hanno anche livelli minori di sentimenti di vergogna ed alta capacità di intimità, mentre i valori più bassi vengono dal gruppo con attaccamento ansioso-ambivalente; contrariamente alle aspettative, il gruppo caratterizzato da attaccamento evitante presenta solo moderati sentimenti di vergogna, mentre l’autostima è addirittura paragonabile al gruppo dei “sicuri”.

“Possiamo dire quindi ..” – conclude la dr.ssa Clarence M.Leung, psicologa presso la Fuller Theological Seminary e coautrice della ricerca – “..che già in età precoce i bambini hanno un proprio stile di attaccamento che determinerà in futuro il rapporto col coniuge e la qualità della propria vita matrimoniale..”.

(tratto da: “New Studies Examine Marital Happiness” – United Press International – August 26, 2001)

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (253): All’origine dell’insicurezza personale

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E’ Joan che parla: «Tutti dovrebbero poter tornare indietro con la memoria ed essere certi di aver avuto una mamma che amava tutto di loro, anche la pipì, anche la cacca. Chiunque dovrebbe poter essere sicuro che la mamma gli voleva bene giusto perché era lui, e non per quello che avrebbe potuto fare. Altrimenti non ci si sente in diritto di esistere, si sente che non si sarebbe mai dovuti nascere. Non importa cosa succede poi a questa persona, non importa se soffre, può sempre guardare indietro e sentire che può essere amato. Può amare se stesso: non può più rompersi. Ma se non può tornare su queste cose, allora può rompersi. Ci si può rompere soltanto se si è già a pezzi. Finché il mio io bambino non è stato amato io ero a pezzi. Amandomi come si ama un bambino lei mi ha aggiustato».
 – RONALD LAING, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenzia- le (1959)

Ho proposto la lettura di questo brano di Laing ad alcuni genitori del Centro di ascolto perché si concentrassero per un po’ sul compito delle cure genitoriali. Al di qua della patologia, è interessante cogliere la funzione della madre nell’instaurarsi di processi psichici ‘normali’. Tralasciare ogni riferimento specifico alla schizofrenia, per considerare ciò che è comune alla condizione di ogni persona in età evolutiva. Inquadrare il tema del rapporto con la madre all’interno del ciclo vitale della famiglia.  

A proposito di insicurezza, tutti ne parlano con disinvoltura, senza chiarire mai da dove venga, cosa la generi, come sia possibile affrontarla, quali siano i ‘rimedi’. Evidentemente, non c’è solo l’insicurezza ontologica di cui parla Laing, quella che divora l’esistenza delle persone che poi si ammalano. La più comune insicurezza, che ci assale generando in noi imbarazzo, disagio, paura non è forse il portato dell’incompleta individuazione, di una sospensione dei processi di crescita che non dovremmo mai smettere di assecondare e promuovere in noi?

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Leggere MARGARET S. MAHLER, Le psicosi infantili (1968)

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 Leggere soprattutto il primo capitolo: I concetti di simbiosi e di separa- zione-individuazione, pp.11-43

CONTENUTO Secondo la teoria che ha reso famosa Margaret Mahler, l’instau- rarsi delle psicosi infantili e dell’autismo è dovuto alla mancanza di un’adeguata fase di simbiosi con la madre o con un sostituto della madre: si tratta di un’esigenza vitale e basilare per ogni essere umano nei primi mesi di vita. Individuando l’esi- stenza di disturbi di tipo schizofrenico ancor prima della fanciullezza, la Mahler, attraverso estese ricerche, è giunta a formulare una teoria del processo di separazione-individuazione del bambino rispetto alla madre, e un metodo di terapia per bambini piccoli affetti da gravi disturbi, che è oggi largamente adottato negli Stati Uniti e in altri Paesi. Questo libro è fondamentale per la comprensione e la terapia delle psicosi infantili; l’autrice espone in forma organica il materiale dei suoi scritti teorici e presenta alcuni casi clinici che rivelano la sua grande esperienza di psicoterapeuta infantile.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Leggere LUIGI CANCRINI e CECILIA LA ROSA, Il vaso di Pandora. Manuale di psichiatria e psicopatologia (1991)

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La prima edizione del Manuale di Cancrini risale al 1991.
Proprio in quell’anno scoprii come, all’in- terno della visione sistemica della fami- glia, il ciclo vitale della famiglia stessa trovasse una spiega- zione adeguata ri- spetto alla patologia come alla normalità. L’opera è stata ristampata per la sesta volta a marzo 2011.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Leggere LUIGI ZOJA, La morte del prossimo e Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza

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La globalizzazione – e la fine delle diffidenze della Guerra Fredda – favoriscono la solidarietà con persone lontane. Questo amore per il distante sembra promosso anche dalle comunicazioni elettroniche e dai viaggi piú facili. Ma quello che amiamo cosí è spesso un’astrazione, e chi ne paga il prezzo è l’amore per il prossimo richiesto per millenni dalla morale giudaico-cristiana. Come in un circolo vizioso, questa tendenza si salda con l’indifferenza per il vicino prodotta dalla civiltà di massa e dalla scomparsa dei valori tradizionali. E come nel momento in cui Nietzsche proclamò la «morte di Dio», siamo alla soglia di un territorio radicalmente nuovo. Dove la morale dell’amore non è piú possibile per mancanza di oggetto.

«Ama Dio e ama il prossimo, diceva il comandamento. Ma già per Nietzsche Dio era morto. E il prossimo? Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale. Ora domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico. Il comandamento si svuota. Perché non abbiamo piú nessuno da amare».


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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Leggere ANDREA TAGLIAPIETRA, La forza del pudore. Per una filosofia dell’inconfessabile

________________________________________________________________ Dietro il pudore sta il segreto della libertà di ciascuno di noi.

pudore

Sentimento o virtù, passione o concetto, il pudore sembra ormai messo al bando dagli usi e costumi di una società in cui bisogna esibire e vedere tutto. Comportamenti che solo ieri sarebbero stati condannati dal comune sentire oggi trionfano nei reality show e nella vita quotidiana, senza distinzione di sesso né di classe sociale. Eppure, la frase di Amleto “Io ho dentro ciò che non si mostra” ci ricorda che qualcosa di segreto resiste ancora in ognuno di noi. Può essere semplicemente un difetto, un’imperfezione, o addirittura una colpa, ma il nostro ritrarci come la testuggine nel guscio indica il nascere e il prendere forma di quell’autonomia personale che ha a che fare con il nostro intenderci come esseri unici e irripetibili. […] Virtù etica e politica che distingue l’uomo dagli altri animali, per i pensatori antichi, o virtù del singolo che divide l’individuo dalla società, per i filosofi moderni, il pudore svela così la sua natura intimamente ambigua e ambivalente, sempre sospesa fra l’abitudine e la morale, fra la seduzione e la redenzione, fra il corpo e l’anima. Ed è proprio in questa collocazione di confine che si manifesta il paradosso della sua forza, “l’irrevocabile presa di coscienza, il riconoscimento concreto della nostra impotenza e della nostra debolezza”, che trasforma il pudore in una riserva di libertà, in una forma di resistenza nei confronti dei ruoli e dei compiti che il potere e la collettività impongono a ciascuno di noi. [dai risvolti di copertina]

[Recensione di Claudio Tugnoli, dal sito di Dialegesthai]

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: WALLACE STEVENS, Note per la finzione suprema

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WALLACE STEVENS, Note per la finzione suprema

V

Bevemmo Mersault, mangiammo aragosta Bombay con mango 
Chutney. Poi il Canonico Aspirino declamò 
su sua sorella, in che sensata estasi 
vivesse nella sua casa. Aveva due figlie, una 
di quattro e una di sette, che vestiva al modo 
di un pittore che con poveri colori dipinga. 
Ma pure le dipingeva consone alla loro 
povertà, un grigio blu ingiallato 
con nastrini, una severa immagine di loro, bianca, 
con perle domenicali, la sua gaiezza di vedova. 
Le celava sotto nomi semplici. Se le teneva 
più vicino col rifiutare i sogni. 
Le parole che pronunciavano erano voci che lei udiva. 
Guardava le figlie e le vedeva com’erano, 
e ciò che provava respingeva la frase più spoglia. 
Il Canonico Aspirino, detto questo, 
rifletté, mormorando un abbozzo fugato 
di lode, una coniugazione fatta da cori. 
Ma quando le figlie dormivano, sua sorella stessa 
domandava al sonno, negli eccitamenti del silenzio, 
solo il non confuso io del sonno per esse.

VI

Quando alla tarda mezzanotte il Canonico prese sonno 
e le cose normali si sbadigliarono via, 
il nulla fu una nudità, un punto, 
oltre il quale il fatto poteva progredire come fatto. 
Al che la cultura dell’uomo concepì ancora una volta 
le pallide illuminazioni della notte, d’oro 
sotto, molto al di sotto, la superficie 
del suo occhio e udibili nella montagna 
del suo orecchio, l’esatto materiale della sua mente. 
Cosicché egli fu le ascendenti ali che vedeva 
e muovendosi su di loro entro estreme stelle dell’orbita 
discese al letto dove i bambini 
giacevano. Dritto poi volò con immensa forza 
patetica all’ultima corona della notte. 
Il nulla era una nudità, un punto, 
oltre cui il pensiero non poteva progredire come pensiero. 
Doveva scegliere. Ma non era una scelta 
tra due cose che si escludono. Non era una scelta 
tra, ma di. Scelse di includere le cose 
che l’una nell’altra sono incluse, l’intera, 
la complessa, l’aggregante armonia.

VII

Impone ordini così come li pensa, 
come fanno la volpe e il serpente. E’ un bell’affare. 
Poi innalza campidogli e nei loro corridoi, 
più bianchi della cera, sonori, di chiara fama, 
erige statue di uomini ragionevoli, 
che superano il gufo più colto, il più erudito 
degli elefanti. Ma imporre non è 
scoprire. Scoprire un ordine come quello 
di una stagione, scoprire l’estate e conoscerla, 
scoprire l’inverno e conoscerlo bene, trovare 
non imporre, non aver ragionato affatto, 
dal nulla aver maturato un clima maggiore 
è possibile, possibile, possibile. Deve 
essere possibile. Accadrà che nel tempo 
il reale scaturirà dai suoi rozzi materiali, 
sembrando, dapprima, una bestia vomitata, diversa, 
scaldata da un latte disperato. Trovare il reale, 
essere spogliati di ogni finzione eccetto una, 
la finzione dell’assoluto Angelo, 
taci nella tua luminosa nube e ascolta 
la luminosa melodia del giusto suono.

VIII

Che devo credere? Se l’angelo nella sua nube, 
serenamente fissando il violento abisso, 
pizzica le sue corde per strappare la gloria abissale, 
salta giù tra le rivelazioni della sera, e sulle ali 
spalancate, di nulla ha bisogno se non del profondo spazio, 
se dimentico del centro dorato, del destino aureo, 
s’infiamma nel moto inerte del suo volo, 
sono io che immagino quest’angelo meno soddisfatto? 
Sono sue le ali, l’aria perseguitata dal lapis? 
E’ lui o sono io che sto vivendo questo? 
Sono io allora che continuo a dire che c’è un’ora 
piena di un’esprimibile gioia, in cui 
di nulla manco, felice, dimentico della dorata mano 
del bisogno, soddisfatto senza la maestà che consola, 
e se c’è un’ora c’è un giorno, 
c’è un mese, un anno, c’è un tempo in cui 
la maestà è uno specchio dell’io: 
io non ho ma sono e poiché sono, io sono. 
Queste esterne regioni, con cosa le riempiremo 
tranne che di riflessioni, di scappatelle della morte, 
cenerentola che si realizza sotto il tetto?

*

A chi dovesse chiedersi cosa c’entri Stevens e con lui la suprema finzione della Poesia con l’ascolto nella relazione d’aiuto, ma più in generale in ogni relazione umana significativa, non esiterei a rispondere che andiamo incontro al mondo con il nostro carico di bene e di male, con gli occhi e con le orecchie con i quali ci è concesso di accedere all’Invisibile. E se nel nostro bagaglio non possediamo versi di verità e bellezza mandati giù a memoria, rischiamo di trovarci impreparati quando all’improvviso ci si parerà davanti l’umile splendore della vita quotidiana: non lo riconosceremo. E’ immaginabile un dramma più grande per noi?

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: MASSIMO CACCIARI, Pensiero e poesia in Heidegger (durata: 1:30:41)

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La questione del rapporto tra pensiero e poesia ha una rilevanza generale, cioè ci interessa perché ci aiuta a pensare la Letteratura tutta nel suo commercio con le idee. Da qui è agevole partire anche per accettare la Pratica letteraria nelle sue valenze ‘terapeutiche’.

E’ nell’originaria Dichtung che si incontra il primum che precede e fonda ‘pensiero’ e ‘poesia’. E’ per questa via che il cammino verso il Linguaggio rinuncerà all’astratta pretesa di dire  la cosa compiutamente attraverso la parola, pur senza rinunciare mai allo sforzo di dire. La poesia pensante contribuisce a determinare il dominio del pensare poetante.

*

LEGGERE

MARTIN HEIDEGGER, Perché i poeti?, pp.247-297 di Sentieri interrotti (Holzwege, 1950), LA NUOVA ITALIA 1968

*

MARTIN HEIDEGGER, Che cosa significa pensare?, pag.85; Costruire abitare pensare, pag.96; La cosa, pag.109; « … Poeticamente abita l’uomo …», pag.125 di Saggi e discorsi (1954), MURSIA 1976-1985

*

MARTIN HEIDEGGER, In cammino verso il Linguaggio (1959), MURSIA 1973-1979

I. Il Linguaggio, pag.27
II. Il Linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, pag.45
III. Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio, pag.83
IV. L’essenza del Linguaggio, pag.127
V. La parola, pag.173
VI. Il cammino verso il Linguaggio, pag.189 

aut aut 234 / novembre-dicembre 1989
Heidegger e la poesia (1)

Il senso delle parole: PIER ALDO ROVATTI, Le parole della divergenza, pag.3

Materiali: MARTIN HEIDEGGER, L’essenza della filosofia, pag.13; MAURICE BLANCHOT, La parola “sacra” di Hölderlin, pag.21; La passione dell’eccesso. Nota a Blanchot (FEDERICA SOSSI), pag.36

Saggi: SERGIO GIVONE, Heidegger e la questione romantica, pag.47; LEONARDO AMOROSO, Le “Herläuterungen” di Heidegger alla poesia di Hölderlin, pag.63; FABIO POLIDORI, La poesia del nulla, pag.81; GIANFRANCO GABETTA, La lampada di Mörike, pag.95; RENATO CRISTIN, L’armonia dell’origine. Poesia e “pensare in greco” in Heidegger, pag.105; GIAMPIERO COMOLLI, Il fiorire e lo svanire della parola. Su Heidegger, la poesia e alcuni motivi orientali, pag.119

*

aut aut 235 / gennaio-febbraio 1990
Heidegger e la poesia (2)

MARTIN HEIDEGGER, Linguaggio e terra natia, pag.3; CLAUDIO MAGRIS, Nota su Heidegger e Hebel, pag.25; JEAN BEAUFRET, Colloquio sotto l’ippocastano, pag.30; CURD OCHWADT, Brevi cenni su Martin Heidegger e René Char, pag.36; ALESSANDRO DAL LAGO, Gli dei della Provenza. Note su Heidegger e Char, pag.59; MICHEL HAAR, Rilke o l’interiorità della terra, pag.72; VINCENZO VITIELLO, Heidegger/Rilke: un incontro sul luogo del linguaggio, pag.97; JACQUES DERRIDA e MAURIZIO FERRARIS, Istrice: 1. JACQUES DERRIDA, Che cos’è la poesia?, pag.121; 2. MAURIZIO FERRARIS, Ich bünn all hier. Conversazione con Jacques Derrida, pag.126

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