Contributi a una cultura dell’Ascolto: Massimo Cacciari e la sua biblioteca

________________________________________________________________ Il sapere ha potere grande sul dolore – ESCHILO

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Leggere Vito Mancuso

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Sito ufficiale: http://www.vitomancuso.it/

TESTI ESEMPLARI

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Istinto Bisogno Desiderio

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da Wikipedia

L’istinto è, in psicoanalisi, un impulso di origine psichicamotivazione che spinge un essere vivente ad agire per la realizzazione di un particolare obiettivo, mediante schemi d’azione innati ed, appunto, “istintivi”. Sono comportamenti automatici, non sono frutto di apprendimento né di scelta personale. L’istinto ha un rapporto piuttosto rigido con ciò che desidera e a cui mira, difficilmente ottenendo soddisfazione da un oggetto diverso. Si distingue dalla pulsione in quanto questa mira alla soddisfazione dei propri bisogni (famesonnosesso) basandosi su schemi appresi tramite interazione continua tra individuo ed ambiente e senza obiettivi particolari (per esempio, l’istinto omicida spinge ad uccidere in modo improvviso ed inatteso, con un oggetto-vittima ben preciso in mente, come nei delitti passionali; la pulsione omicida porta al desiderio di uccidere, non importa chi, in modo ben programmato, con schemi appresi e probabilmente già messi in atto in precedenza, come nei delitti seriali).

Caratteristiche peculiari dell’azione istintiva sono la mancanza di basi derivanti da esperienze passate, ma sembra essere un comportamento innato dell’animale, come se derivasse da una caratteristica insita nel suo patrimonio genetico, e che viene compiuta in modo del tutto analogo da diversi individui, spesso senza che ne sia chiaro lo scopo. Esempi di comportamento istintivo sono le migrazioni degli uccelli, l’attrazione sessuale umana ed animale, gli stessi meccanismi della nostra vita sociale.

La definizione di istinto si estende anche ad azioni puramente psichiche e mentali. Intesa come processo innato, persino la stessa attività cognitiva, il cui obiettivo è la formulazione di pensieri, piani e significati, può essere considerata come un istinto naturale (anche se i processi psichici che si basano su schemi appresi quali il linguaggio, i numeri, le idee di colore eforma per soddisfare i bisogni di comunicare, contare, riconoscere, devono essere intesi come pulsione).

Istinti fondamentali nell’uomo, sui quali si basano tutti gli altri impulsi umani, sono l’istinto di vita (Eros), l’innato bisogno di creare, mantenere in vita ed ottenere gioia e piacere, legato al significato di libido, principale fonte nell’uomo di energia creativa e positiva, e l’istinto di morte (Thanatos), l’innato bisogno di distruggere, uccidere e rivivere le esperienze di tristezza edolore, oltre al bisogno di morire, legato al significato di destrudo, fonte di energia distruttiva e negativa. La definizione di istinto in questi casi è abbastanza controversa e pertanto spesso si possono incontrare le stesse definizioni con i nomi di “pulsione di vita” e “pulsione di morte“.

Talvolta ci si riferisce all’istinto riferendosi ad intuizioni improvvise e senza fondamento che, per questo, appaiono innate ed “istintive”: in questi casi si è soliti riferirsi a tali episodi con il termine “sesto senso“.

Ultimamente, lo studio dell’istinto si è esteso all’endocrinologia, per verificare la correlazione tra azione istintiva ed ormoni, ed all’etologia, per studiare le implicazioni etiche e comportamentali negli istinti animali ed umani.

Secondo Konrad Lorenz l’istinto è come una grande forza all’interno dell’organismo che deve incanalarsi da qualche parte.

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In psicologia il bisogno identifica la interdipendenza tra gli organismi viventi e l’ambiente. Il bisogno è uno stato di carenza che spinge l’organismo a rapportarsi con il suo ambiente al fine di colmarlo.

Questa spinta non è necessariamente una motivazione sufficiente per agire, d’altro canto esistono pulsioni ad agire che non trovano la loro origine in uno stato di carenza. Il bisogno in senso psicologico non è sovrapponibile sempre a quello psicofisiologico (come ad esempio nei casi di dipendenza psicologica da stupefacente che non danno dipendenza fisica).

Tra il 1943 e il 1954 lo psicologo statunitense Abraham Maslow concepì il concetto di “Hierarchy of Needs” (gerarchia dei bisogni o necessità) e la divulgò nel libro Motivation and Personality del 1954.

Questa scala di bisogni è suddivisa in cinque differenti livelli, dai più elementari (necessari alla sopravvivenza dell’individuo) ai più complessi (di carattere sociale). L’individuo si realizza passando per i vari stadi, i quali devono essere soddisfatti in modo progressivo. Questa scala è internazionalmente conosciuta come “La piramide di Maslow”. I livelli di bisogno concepiti sono:

  1. Bisogni fisiologici (fame, sete, ecc.)
  2. Bisogni di salvezza, sicurezza e protezione
  3. Bisogni di appartenenza (affettoidentificazione)
  4. Bisogni di stima, di prestigio, di successo
  5. Bisogni di realizzazione di sé (realizzando la propria identità e le proprie aspettative e occupando una posizione soddisfacente nel gruppo sociale).

Successivamente sono giunte critiche a questa scala di identificazione, perché semplificherebbe in maniera drastica i reali bisogni dell’uomo e, soprattutto, il loro livello di “importanza”. La scala sarebbe perciò più corretta in termini prettamente funzionali alla semplice sopravvivenza dell’individuo che in termini di affermazione sociale. Si tratterebbe perciò di bisogni di tipo psicofisiologico, più che psicologico in senso stretto. Altre critiche vertevano sul fatto che la successione dei livelli potrebbe non corrispondere ad uno stato oggettivo condivisibile per tutti i soggetti. Inoltre, una scala di bisogni essenziali che considera la realizzazione affettiva e la sessualità come bisogni tra i meno essenziali, nega l’evidenza che l’essere umano stesso si costituisce proprio in conseguenza della pratica della sessualità.

Lo stesso Maslow nel libro Toward a Psychology of Being del 1968 aggiungerà alcuni livelli che aveva inizialmente ignorato.

Henry Murray, invece, va il merito nel 1938 di aver chiarito la specificità del bisogno in chiave psicologica. Murray, infatti, mise in correlazione per primo la psicologia dellamotivazione con una tassonomia dei bisogni, grazie all’analisi di un gruppo di studenti di Harvard (descritta in “Exploration in Personality” del 1938, in cui è elencata, appunto, una lista di bisogni umani fondamentali). La teoria da lui postulata divergeva completamente dalle tesi precedentemente proposte, che ipotizzavano l’esistenza di istinti, pulsioni e motivazioni universali. Per Murray il bisogno è istintivo.

Il bisogno è oramai studiato funzionalmente come un elemento che attiva e dirige il comportamento, i due concetti di bisogno e motivazione sono visti in modo complementare.

Agnes Heller fornisce un approccio prevalentemente filosofico ed etico ai bisogni, il quale si inquadra nella tradizione marxista, mediata tramite György Lukács. Nel suo punto di vista, i bisogni sono intesi come il terreno di scontro tra la soggettività ed il potere.

 

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Desiderio è uno stato di affezione dell’io, consistente in un impulso volitivo diretto a un oggetto esterno, di cui si desidera la contemplazione oppure, più facilmente, il possesso. La condizione propria al desiderio comporta per l’io sensazioni che possono essere dolorose o piacevoli, a seconda della soddisfazione o meno del desiderio stesso. Dolore morale per la mancanza della persona amata o dell’oggetto o condizione di cui si ha assolutamente bisogno. Ma anche la gradevole e coinvolgente sensazione di poter presto rivivere un momento o situazione in qualche modo piacevole, che la mente riesce a rievocare in modi più o meno evanescenti e/o realistici rispetto alle percezioni dell’esperienza effettivamente vissuta.

Desideri naturali e desideri vani

I filosofi, sin dalle origini della filosofia, si sono domandati quale spazio dare ai desideri. Le risposte sono molto variegate. Dentro il FedonePlatone espone l’idea di una via ascetica, o di come l’uomo debba lottare contra i desideri turbolenti del proprio corpo; i cirenaici, al contrario, fanno della soddisfazione di tutti i desideri il bene supremo. Tutte queste riflessioni conducono a stabilire numerosi distinguo, come per esempio fa Epicuro.

La classificazione dei desideri La morale epicurea è una morale che mette al centro i concetti di piacere come bene, e del dolore come il male. Per aspettarsi il benessere (l’atarassia), l’epicureo deve applicare le regole del quadruplo rimedio:

  • gli dei non devono essere temuti;
  • la morte non deve essere temuta dato che quando ci siamo noi, lei non c’è; quando lei c’è, non ci siamo noi;
  • il dolore viene facilmente soppresso, oppure si muore;
  • il benessere è facile da ottenere.

Questo in vista dell’ultimo che particolarmente ci fa pensare al desiderio. Epicuro classifica così i desideri:

Classificazione dei desideri secondo Epicuro
Desideri naturali Desideri vani
Necessari Semplicemente naturali Artificiali Irrealizzabili
Per il benessere (atarassia) Per la tranquillità del corpo (protezione) Per la vita (nutrimento, riposo) Variazione dei piaceri, ricerca delgradevole Ex: ricchezza, gloria Ex: desiderio d’immortalità

 

Questa classificazione non può essere separabile da un’arte di vivere, dove i desideri sono l’oggetto di un preciso calcolo in vista della ricerca della felicità.

 

Desiderio corporale

Nella forma più prettamente fisica, corrisponde all’eccitazione sessuale oppure alla fame o alla sete, di intensità più o meno marcata e più o meno duratura, che può anticipare oppure no la soddisfazione.
Di tutte le forme di desiderio, sono comunemente considerate più elevate quelle che aspirano a vette di bellezza, che rientra nei piaceri naturali, “ricerca del gradevole”.Il desiderio può essere definito anche come una tensione verso un obiettivo. In questo senso il desiderio ci può muovere su un percorso che ci conduce a trasformarlo in realtà ovvero il desiderio può rappresentare la molla che ci spinge a ricercare un sistema che ci conduca a passare dalla situazione attuale (SA) in cui ci troviamo a quella desiderata (SD). Tale percorso passa attraverso la comprensione del perché desideriamo alcune cose poiché si afferma che “se conosco il perché, l’obiettivo è già parte di me”. In realtà tutti i desideri che proviamo sono già parte di una nostra naturale propensione verso la vita e quindi realizzare un desiderio ci porta a “ritrovare” ciò che è già insito nel nostro essere. Desiderare davvero qualcosa significa conoscere il perché di quel desiderio. Il desiderio è strettamente correlato all’azione da compiere e all’obiettivo da raggiungere, infatti è impensabile che esista un’azione quando manca un obiettivo ed è impensabile che esista un obiettivo quando manca un desiderio.

Desideri filosofici e sociologici Secondo molti filosofi (p.es PlatoneKant) la giustizia è la forma più alta di bellezza, e dunque il desiderio o sete di giustizia è quello più elevato. Per altri come Marx oppure Hegel il desiderio più elevato è quello dell’uguaglianza. Per Friedrich Nietzsche la massima aspirazione o desiderio dell’essere umano deve essere quella di diventare una persona che incarni il concetto del superuomo.

Desiderio = dolore : Schopenhauer Solo liberandosi radicalmente di ogni desiderio, solo estirpando da sé la volontà l’uomo potrebbe superare l’infelicità che fa parte della sua natura.

 

 

 

Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l’appagamento; tuttavia per un desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito, l’appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento. Quindi finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei desideri, col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo. Che noi andiamo in caccia o in fuga; che temiamo sventura o ci affatichiamo per la gioia, è in sostanza tutt’uno; la preoccupazione della volontà ognora esigente, sotto qualsivoglia aspetto, empie e agita perennemente la coscienza; e senza pace nessun benessere è mai possibile.

Il mondo come volontà e rappresentazione, Roma-Bari, Laterza, 1979, vol. II, p. 270

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (252): Leggere JACQUES LACAN, Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961

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DESIDERIO
Termine che si può comprendere solo opponendolo a quello di “domanda”. Opposizione che si manifesta soprattutto nell’osservazione freudiana della sessualità femminile: la bambina domanda il fallo alla madre. È chiaro che una domanda così apparentemente contro natura non mira alla soddisfazione. Mira piuttosto all’assegnazione di un limite all’onnipotenza materna, come pure al mantenimento del soggetto nel campo del linguaggio o della domanda, che ne è la forma prima. Questo duplice carattere – legame a un oggetto fantasmatico (fantasmatique) e rifiuto della soddisfazione – contrassegna, secondo Lacan, il desiderio come tale, o considerato nella sua posizione primitiva da cui il soggetto deve liberarsi.

DESIDERIO DELL’ALTRO
Lungi dall’avere la visibilità dell’oggetto della concorrenza o della cupidigia, il desiderio, una volta rapportato al desiderio dell’Altro sconosciuto, può costituirsi solo come un’interrogazione di cui la risposta, quale che sia, apporta sempre, insieme alla la sua parte di luce, la sua parte d’ombra; poiché l’essere del soggetto sorge su un fondo di non essere. È per mantenere questo buco di non-essere dove risiede il suo essere di soggetto, che quest’ultimo si mutila di una parte di se stesso che si conforma ai significanti delle domande primitive: il seno, le feci, e nella misura in cui il desiderio sessuale non potrebbe accontentarsi di una qualsiasi “oblatività”, è legato a un debito in cui consiste la castrazione simbolica.

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Il transfert è vero amore? Sí. Eppure la situazione che mette in relazione l’analizzante e l’analista è la piú falsa che ci sia. Freud, scoprendo la potenza del transfert, ha tuttavia deciso di servire l’amore che gli è connesso, di servirlo per servirsene. A quale scopo? Per un unico scopo: affinché l’analizzante si schiuda alla dimensione del desiderio.

Per illustrare ciò Lacan si appoggia al Simposio di Platone, offrendone un commento inedito e puntuale. Socrate è la prima figura dell’analista: è il desiderante a oltranza ma è anche colui che si sottrae quando si tratta di mostrarsi nella posizione del desiderato. E infatti, pur racchiudendo per Alcibiade l’oggetto agalmatico, Socrate afferma perentoriamente di non essere niente.
In questo seminario Lacan delinea quella funzione di motore della cura analitica che egli chiama il desiderio dell’analista. Riprendendo infine il rapporto tra tragedia e desiderio inconscio, illustra come questo si delinei nell’arco di tre generazioni dando voce ai personaggi della trilogia dei Coûfontaine di Paul Claudel.

Recensione (Biblioteca di Garlasco)

Recensione di Marco Castagna a Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone di Bruno Moroncini, Cronopio

Roberto Cavasola, La cosa più inquietante di Psycho

Fabio Polidori, Socrate analista

Nadia Fusini, Se sull’amore parla Lacan

Desiderio dell’Altro

Massimo Recalcati, Lezioni su Lacan

Glossario di Lacan – a cura di Moustapha Saphouan

Alessandro Ciappa, Linguaggio e fantasma nell’opera di Jacques Lacan

Thesaurus Lacan – Il padre nell’opera di Jacques Lacan – Indice di tutti i luoghi più notevoli in cui appare il lemma “padre” nell’intera opera di Lacan – Tomo I – Tomo II

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (251): Il desiderio femminile

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Canto di donna

Canto di donna che si sa non vista
dietro le chiuse imposte, voce roca,
di languenti abbandoni e d’improvvisi
brividi scorsa, di vuote parole
fatta, ch’io non discerno.
O voce assorta, procellosa e dolce,
folta di sogni,
quale rapiva i marinai in mezzo
al mare, un tempo, canto di sirena.
Voce del desiderio, che non sa
se vuole o teme, ed altra non ridice
cosa che sé, che il suo buio, tremante
amore. Come te l’accesa carne
parla talora, e ascolta
sé stupefatta esistere.

Sergio Solmi
da: Ritorno a una città, 1926

A pagina 54 de Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, del 1980, al centro del capitolo intitolato Lo scacco del pensiero: per un’esegesi dell’infinito, Antonio Prete dichiara:

Non esperienza del piacere, ma parola del desiderio. Il piacere della scrittura è forse il solo piacere di cui si ha esperienza mentre si scrive. Nonostante il desiderio d’infinito, «… l’animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell’infinito» (Zibaldone, 610, 4 febbraio 1821).

Il seguito della lettura chiarisce molte cose, non solo del canto leopardiano. E qui non interessa illustrarle tutte. Si rinvia alla lettura sistematica del saggio di Prete. L’assunto leopardiano è più che una tesi filosofica illustrata con i mezzi della poesia. Costituisce, tuttavia, un inizio per noi.

Sulla via del chiarimento su che cosa si debba intendere per ‘intelligenza emotiva’ ci viene incontro l’idea che si debba dare voce al desiderio. Roland Barthes ha scritto: «Si scrive con il desiderio, e io non smetto mai di desiderare».

Non mi interessa partire, come pure ho fatto, dalla nozione di intelligenza emotiva, per passare subito a distinguere tra istinto, bisogno, desiderio: al cuore di tutte le questioni incontriamo lo statuto dell’amore e l’irriducibilità del desiderio.

Si potrebbe dire, anticipando una conclusione personale, che ci spendiamo la vita improvvisandola sotto lo sguardo dell’altro. Noi siamo quotidianamente impegnati a contrattare con il mondo – gli altri – i significati da dare alle cose: battaglia per il riconoscimento, comunicazione significativa, produzione di senso, discorso intervengono di volta in volta a definire i termini della battaglia.

Una mia amica ha scritto:

Un’altissima quantità di incontri umani viene distrutta da una scarsa tolleranza agli equivoci.

Ecco. Non si tratta di dire ‘semplicemente’ la verità, come se essa fosse a portata di mano, o come se fosse il resoconto credibile di quello che è accaduto ieri alle 17.30. Se non intervengono pazienza e ascolto, accettazione e dialogo, non si costruisce nulla.

Ho sempre raccontato ai miei alunni il seguente dialoghetto ‘lacaniano’:

– Tu non mi ami più.
– Non è vero: io ti amo.
– Ecco! Vedi! Non mi ami più!

che illustra bene l’idea della domanda del desiderio, della sua pretesa. Il desiderio è irriducibile pretesa all’impossibile. Esso vuole tutto. Vuole l’Altro dell’altro: vuole impossessarsi dell’anima dell’altro. Vuole esercitare il proprio dominio sul cuore dell’altro, ma nello stesso tempo sa che è impossibile, perché l’altro non è un oggetto di cui si possa esercitare la proprietà. Il desiderio è irriducibile, perché insaziabile, eternamente proteso com’è verso l’oggetto d’elezione. Realisticamente, esso si acconcia a chiedere l’impossibile. E’ importante per noi non transigere su di esso: non consentire che sia messo a tacere. Ma su questo occorre necessariamente ritornare. Tutto nasce da qui. Tutto rischia di naufragare su questi scogli.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (250): Leggere ROBERTA DE MONTICELLI, Digressione sul desiderio

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Le emozioni hanno relazioni con l’apparato cognitivo perché si lasciano modificare dalla persuasione. Aristotele

Digressione sul desiderio

Questa felicità del consentire, nella quale il riconoscimento dell’altro e la riconoscenza nei suoi confronti è immediatamente anche un sì a se stessi, un gioioso sì a una nuova o rinnovata parte di sé, è indubbiamente un enigma, oltre che un dato così noto a ciascuno. Un dato che ha tanto colpito da essere sempre registrato: ma troppo spesso in modo distorto.

Cosa felice è l’amore, ma perché è felice, anche se quasi sempre è fonte di sofferenza a causa della minaccia costante cui la vita e la felice realizzazione dell’altro è soggetta?

Ed ecco che, per spiegare questo enigma, si è erroneamente identificato l’amore con il desiderio, cioè non con la rivelazione di un maggior essere – ovvero la manifestazione, nel risvegliarsi di strati non ancora o non più desti di sensibilità, di un proprio potenziale di vita, conoscenza e azione che si ignorava di avere.

Non dunque con quello che l’amore è. Ma con il suo contrario: con la pervicace, sinuosa, fastidiosa oppure esplosiva assenza d’essere, quale si manifesta nel modo della tendenza, cioè dell’appetito, del desiderio: bisogno, domanda, fame, libido, tensione al soddisfacimento, pulsione.

La felicità non sarebbe che la speranza o l’attesa della soddisfazione del desiderio, e in questo modo sarebbe anzi il desiderio stesso che si leva.

Eppure questa sembra una negazione dell’evidenza. Il desiderio insoddisfatto, e tutto quello che si porta dietro – inquietudine, preoccupazione, ansietà, affanno, brighe, conflitti – sembra il contrario esatto del felice consentire.

Il desiderio – questa eterna obiezione a consentire veramente all’esistenza altrui e alla propria, quest’obiezione costante alla gratitudine. Questa vera radice degli infiniti negoziati e delle infinite guerre di acquisizione che bisogna attraversare prima di consentire, e il più delle volte infelicemente, obtorto collo, al proprio essere. Questa sola radice di invidia, gelosia – o, al meglio, emulazione e competizione. Questo polo, nella vita affettiva, opposto a quello del sentire, sempre pronto a contendergli energia vitale. Questo vettore di tendenza e azione che può affinarsi e più si affina, più, forse, ci rende infelici, quando esaurite le attrattive dell’avere, si volge all’essere.

Il desiderio, anche il desiderio d’essere – quello che non si è, che non si è ancora, che non si è più, o che non si è nel tempo – è perenne dissenso con se stessi e perenne obiezione al sì della gratitudine. Nella quale infine si riassume il felice consentire a sé solo attraverso un altro, quando uno rinuncia a «salvare» la propria vita e «salva», in quel caratteristico modo che ciascuno forse conosce, la riceve dalle mani di un altro. Nella gratitudine è l’essenza della beatitudine.

Il desiderio – bisognerà cominciare a scalzare questo falso iddio dal suo trono, se vorremo fare un po’ più di luce sui fenomeni della vita affettiva, e sulle ragioni della nostra insipienza e ordinaria infelicità. non è impresa da poco, sullo sfondo della nostra tradizione, anche della migliore. Questo trono, infatti, non è solo quello forse modesto della vulgata psicoanalitica, è forse anche quello maestoso e in certo modo terribile di Agostino e del desiderio d’essere, del suo… feroce amore.

Non si intenda quindi questa pagina nel senso di una svalutazione di eros, del suo splendore e del suo valore, anche nel senso più corrente di amore fisico. Il «desiderio» di cui qui parliamo è piuttosto l’elemento tendenziale di tutta l’affettività, che ha modi e forme estremamente vari – e che non noi, ma una tradizione rimasta assai influente dopo Freud ha tentato di ricondurre alla sessualità da un lato, e di erigere a fondamento stesso di tutta l’effettività dall’altro.

Agostino, che non condivide certo il primo punto, con la sua concezione dell’amor come pondus o forza gravitazionale della creatura invece condivide in certo modo il secondo.

ROBERTA DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, GARZANTI 2003, pp.176-177

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Contributi a una cultura dell’Ascolto: Leggere FRANCO CAMBI, La cura di sé come processo formativo

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Il 16 gennaio ho avviato – con la cura di sé di Michel Foucault –  uno studio e una riflessione che si intrecciano con l’altra grande scoperta di questi anni: gli esercizi spirituali di Pierre Hadot. Ieri ho scovato nella Biblioteca comunale della mia città l’opera di un Pedagogista dell’Università di Firenze che affronta con grande chiarezza tutta la materia, ispirandosi largamente a Hadot e Foucault:

FRANCO CAMBI, La cura di sé come processo formativo. Tra adultità e scuola, EDITORI LATERZA 2010

Cosa significa prendersi cura di sé e quale influenza ha questa pratica nel percorso di crescita di un individuo: Franco Cambi esplora un tema complesso, intrecciando il piano pedagogico con la categoria della ‘cura’ in generale, concetto chiave della vita sociale e individuale. Un manuale che prefigura un iter formativo perché l’individuo si faccia guida di se stesso, coltivi la propria interiorità e riesca a divenire sempre più ‘persona’.

INDICE
Prefazione
– Parte prima Riflessioni sulla cura
– 1. Aver cura della «cura»
– 2. La cura in pedagogia: struttura, statuto, funzione
– 3. L’aver «cura di sé»: un compito «lifelong»

– Parte seconda Le vie maestre della «cura sui»
– 1. La funzione formativa della narrazione
– 2. Leggere per formarsi: un’avventura tra costruzione di sé e conoscenza del mondo
– 3. La scrittura come «cura di sé» e come piacere… formativo
– 4. L’autobiografia come cura di sé

– Parte terza Altre frontiere degli «esercizi spirituali»
– 1. Attraversare spazi per formarsi
– 2. Farsi «flâneur»
– 3. Praticare l’ironia come «forma mentis»
– 4. Dialogare con l’arte
– 5. Poesia e cura di sé
– 6. Classici e «cura di sé»
– 7. Et alia…

– Parte quarta Quasi un epilogo
– 1. La cura di sé: categoria-chiave del presente
– 2. La filosofia «diffusa» oggi: percorsi e funzione

– Postfazione Tra adultità e scuola
– Indice dei nomi

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (249): Leggere GIUSEPPE VICO, don ANTONIO MAZZI, GABRIELLA BALLARINI, Il mondo e l’infradito, EDIZIONI EXODUS, € 12,50

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L’infradito rappresenta la categoria di persone non vendute al consumismo, non nascoste dietro i piedi scalzi ma in cerca di modi genuini per amare, aiutare, far crescere, ascoltare gli altri. L’infradito rappresenta la fatica per smuovere i piedi nudi verso la scuola, la formazione, l’impegno politico, la promozione sociale, e smuovere anche i portatori di scarpe a cambiare politica passando dall’elemosina, dai concerti benefici, dalle partite del cuore, dai contenitori di vestiti usati, al riconoscimento dei pari diritti e dei pari doveri, alla condivisione di beni, alla promozione dei popoli depressi.

GLI AUTORI

Gabriella Ballarini si occupa di formazione in contesti nazionali in seno all’Associazione Educatori senza Frontiere (Onlus ESF). Negli anni ha svolto attività di volontariato con svariate organizzazioni nei Balcani, in Irlanda e in America Latina.

Giuseppe Vico è stato Ordinario di Pedagogia Generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Con don Antonio Mazzi ha fondato l’Associazione Educatori senza Frontiere (Onlus ESF).

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (248): Leggere ROBERTO SAVIANO, 10 motivi per cui vale la pena vivere

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10 motivi per cui vale la pena vivere, la Repubblica 15 marzo 2011

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (247): Leggere NADIA FUSINI, L’amore necessario

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CONCITA DE GREGORIO, Un cuore messo a nudo, la Repubblica 18 aprile 2008 – Recensione a NADIA FUSINI, L’amore necessario, MONDADORI 2008

La lunga lettera di Nadia Fusini, la lettera di una donna ad un uomo, ci raggiunge come un segreto che credevamo solo nostro e ci disarma, ci emoziona e ci consola. […] E’ scritta, finalmente: è tutta, è lei. (Concita De Gregorio)

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Quando vuoi arrivare a un centro emotivo non puoi farlo ragionando: bisogna che le parole vengano dall’inconscio, o meglio bisogna ritrovarle come quelle imprendibili che sgorgano da lì. Depurarle, scarnificarle. Ci ho lavorato moltissimo, l’ho scritta e riscritta mille volte e che appaia uscita di getto così, come un fiotto, è esattamente l’acrobazia che mi ero ripromessa. […] Non avrei potuto parlare dell’amore in un saggio. […] Un esercizio etico, perché la relazione d’amore ti mette in contatto con te stesso e con l’altro. E’ l’incontro etico fondamentale. […] Oggi, in questo tempo duttile e rapido un mistero ancora più potente: ciascuno di noi parte e torna con grande facilità, i legami sono scelte che si rinnovano di giorno in giorno, estremamente mobili. La distanza fisica degli amanti, così consueta, è tutta via sempre un grande tormento. Siamo chiamati ad una formidabile acrobazia: trovare il punto di equilibrio tra quello che siamo, dunque soli, e la capacità di unire la propria solitaria identità a quella altrettanto solitaria dell’altro. La donna dice all’uomo, a un certo punto: sarai il mio acrobata. Si cammina sul filo tra fame e rifiuto, tra separazione e desiderio. (Nadia Fusini)

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (246): Leggere Leggere Clelia Mazzini, 1506. Il paradosso del male

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da akatalēpsía o degli infiniti ritorni:
1506. Il paradosso del male da

GIORGIO FRANCK, La gioia, il dolore, l’eccesso, contenuto ne Il Male. Scritture sul male e sul dolore, PENDRAGON 2001, a cura di Franco Rella

Il male è impensabile, indicibile. Se lo si potesse pensare e capire non sarebbe nemmeno male, ha detto Ricoeur. Il saggio di G. Didi-Huberman, entra nel luogo del male assoluto, Auschwitz, e cerca di decifrarne delle tracce attraverso l’analisi di alcune immagini fotografiche. Al problema del pensiero e della tragedia dell’ebraismo si rifanno anche i saggi di I. Kajon e di W. Tommasi. Filosofico è l’approccio diretto di J. L. Nancy al problema, e filosofico, con un’importante curvatura etico-politica è il saggio di M. Cruz. Tra filosofia e letteratura si pone l’analisi di alcuni testi di G. Bataille, proposta da A. Ferrarini. Il saggio di G. Franck mette, in modo anche stilisticamente originale, appunto filosofia e letteratura di fronte al “male di vivere”. C. Bigliosi, attraverso Proust e Colette entra nell’inferno che fermenta nel cuore umano: l’inferno della perversione dei sentimenti e, in particolare, del sentimento d’amore nella gelosia. E infine I. Kajon interviene sulla rappresentazione artistica del dolore. Due frammenti di De Maistre e di Leopardi e un immenso testo di Baudelaire declinano il tema del male, del dolore e della morte. Questo volume non ha l’intento di definire ciò che il male sia, e neppure di disegnarne i confini. Vuole semplicemente aprire alcuni sentieri dentro il suo buio territorio, e fare qualche passo al suo interno. Il risultato di questa operazione, per il curatore, è la conferma di una convinzione profonda, comune a tutti coloro che vi hanno collaborato: l’esercizio del pensiero filosofico o critico ha senso soltanto in quanto si misuri con le questioni decisive che costituiscono il destino stesso dell’uomo.

Il manifesto di akatalēpsía

Lettere dalla zona interdetta

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La lettura delle cose di Clelia Mazzini è sicuramente ardua. Misurarsi con esse vuol dire cercare le parole nei crepacci: favorire il volo della mente, non opporsi ad esso. Non opporre resistenza. Si parte dal frammento, che con lei non è mai testo irrelato, scheggia e basta. Non si dà veramente incompiuto qui, giacché non avrebbe senso affidare a un testo breve il ‘compito’ di rappresentarci – come riescono a fare bene tutti i suoi testi – se l’implicito e il presupposto avessero la meglio. Nessuna reticenza è ammessa. Ognuno di questi testi è parte non solo dell’opera da cui proviene: ne costituisce un estratto prezioso, direi quasi strategico; aiuta a disegnare traiettorie di senso. Non si tratta di brevi folgorazioni e basta. Sempre, in poche righe è chiuso un mondo. Del tema veicolato si dice tutto. Icasticità e sintesi ed essenzialità e brevità sono una cosa sola. Né scrittura aforistica né culto del frammento prevalgono. Gli stessi testi proposti non sono citazione né ‘scheda’ bibliografica – quello che mi ha colpito di più di questo libro! Clelia sottolinea parti di testo, mette in corsivo e in neretto intere frasi e periodi: si appropria del testo stesso, fino a farne cosa solo sua. L’enfasi cercata è il modo che predilige per dire l’emozione e il ragionamento. Tra le mosse della ragione, l’ambiente sempre uguale da anni; le immagini che accompagnano i testi non illustrano quasi nulla. Stanno lì ad abbellire la pagina, senza nulla aggiungere e in nessun modo interferendo con il senso. Il suo sito è fatto solo di testi. E’ un omaggio al Testo.

Imparare a leggere Clelia Mazzini è espressione che può andar bene per dire di ogni persona che prenda sul serio la scrittura che occorre trovare il nesso che da testo a testo conduca da qualche parte, per significare la ricerca della Erörterung, del ‘luogo proprio’ di essa, che non sta propriamente in un solo testo. Roland Barthes, discutendo su Sade, Fourier, Loyola, nell’opera che è stata definita il suo testamento spirituale, ha sentenziato definitivamente che non c’è nessun segreto da carpire: il segreto è vivere con Sade, Fourier, Loyola.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (244): Leggere MARTHA CRAVEN NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni

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Le emozioni hanno relazioni con l’apparato cognitivo perché si lasciano modificare dalla persuasione. (Aristotele)

Marcel Proust descrive così l’effetto che l’amore provoca in noi:

L’amore provoca così nel pensiero dei veri e propri sommovimenti geologici. In quello del signor di Charlus, che, qualche giorno prima somigliava a una pianura così uniforme che fino ai limiti estremi egli non avrebbe potuto scorgere un’idea sola levarsi dal suolo, erano sorte d’improvviso, dure come la pietra, catene di montagne, ma di montagne scolpite, quasi che qualche statuario, invece di portarne via il marmo, l’avesse scalpellato sul posto, e dove si torcevano gruppi giganteschi e titanici il Furore, la Gelosia, la Curiosità, l’Invidia, l’Odio, la Sofferenza, l’Orgoglio, lo Spavento e l’Amore.

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Sodoma e Gomorra

Martha Craven Nussbaum con il suo Uphealvals of Thought. The Intelligence of Emotions (2001), tradotto nel 2004 con il titolo L’intelligenza delle emozioni, in realtà allude nel titolo americano agli «sconvolgimenti del pensiero» provocati in noi dall’amore. L’opera si apre con la citazione da Proust e contempla da cima a fondo il punto di vista proustiano come traccia da seguire per comprendere la natura delle emozioni: reazioni intelligenti alla percezione del valore. Molte sono le conseguenze che ne derivano:

Se le emozioni sono permeate di intelligenza e discernimento, se contengono una consapevolezza del valore e dell’importanza, esse non possono, per esempio, esser messe da parte facilmente nelle spiegazioni del giudizio etico, come tanto spesso è accaduto nella storia della filosofia. Invece di vedere la moralità come un sistema di principi che può essere colto dal freddo intelletto, e le emozioni come motivazioni che favoriscono o sovvertono la nostra decisione di agire secondo i principi stessi, dovremo considerarle come parte costitutiva del sistema del ragionamento etico. Una volta riconosciuto che esse contengono giudizi che possono essere veri o falsi, e che possono essere buone o cattive guide per la scelta etica, non possiamo plausibilmente lasciarle da parte. Dobbiamo misurarci con il caotico materiale del dolore e dell’amore, della rabbia e della paura, e con il ruolo che queste tumultuose esperienze giocano nel pensiero riguardo al bene e al giusto.

Il primo capitolo è intitolato: Le emozioni come giudizi di valore. La tesi su cui poggia l’intera opera è proposta in apertura:

Scopo della mia argomentazione è mostrare che le emozioni implicano giudizi su cose importanti, giudizi nei quali, nel considerare un oggetto esterno importante per il nostro benessere, riconosciamo il nostro «essere bisognosi» (neediness) e la nostra incompletezza riguardo a cose del mondo che non controlliamo pienamente.

[Dalla quarta di copertina]: Lungi dal costituire un residuo della conoscenza, un elemento impuro di cui il pensiero deve liberarsi per coincidere con la più pura e algida speculazione, le emozioni – dolore, paura, vergogna, amore, compassione – pervadono, anzi «sono» il pensiero. Secondo una visione che pone le emozioni al centro non solo della vita individuale ma anche di quella sociale, come motore delle relazioni interpersonali, Martha Nussbaum intende gettare le basi di una teoria delle emozioni, senza la quale nessuna etica o filosofia politica possono dirsi adeguate.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (243): Leggere Romano Màdera, Cambiare se stessi per cambiare il mondo

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ROMANO MÀDERA, Cambiare se stessi per cambiare il mondo (8 aprile 2011)

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (242): Leggere MARA DELL’UNTO, L’ordine del sentire tra affetto e valore: il rapporto fondamentale tra formazione della persona e relazione con l’altro

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L’ordine del sentire tra affetto e valore: il rapporto fondamentale tra formazione della persona e incontro con l’altro

di MARA DELL’UNTO

“E stupisco che l’amore abbia
questo volto interno” (M. Luzi)

In questa breve ricognizione sull’affettività e sui suoi legami con la costruzione della personalità seguiremo sostanzialmente l’iter concettuale che Roberta De Monticelli propone ne L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, con alcuni cenni diretti all’opera di Edith Stein,  riassumibile nelle seguenti tesi:

  1. L’affettività è la vita attualizzata del sentire inteso come la percezione assiologica del reale.
  2. Il sentire è strutturato  a diversi livelli di profondità – sensoriale, vitale o degli stati d’animo e sentimentale – a cui corrispondono altrettanti gradi di maturazione individuale.
  3. Lo strato più profondo del sentire, quello in cui si instaura un ordine del cuore o ethos individuale, è quello dei sentimenti
  4. I sentimenti che estendono o riducono l’apertura alla percezione assiologia del reale sono amore e odio. La specifica riduzione del sentire che comporta l’odio assieme alle altre passioni distruttive, come pure tutte le strategie di evitamento del dolore, sono alla base di una cecità assiologica che si accompagna ad una mancata individuazione della personalità.
  5. Al contrario, se l’ancoraggio ad un ordinamento  costituito da valori non derogabili è fondamentale per un’etica condivisa, è il concreto ordinamento del cuore che rende ogni individuo persona unica. Ed un ordine del cuore aperto alla percezione assiologia del reale è possibile che instauri solo grazie all’amore, inteso come l’attivarsi dello strato profondo dell’affettività che si dispone a cogliere il valore del reale grazie agli incontri e alle esperienze di valore significative. Dunque, l’ordine interiore che fa di noi delle persone è legato alla nostra capacità di sentire il valore degli altri e di dare risposte adeguate alle esigenze del reale. Così Simone Weil:” Arrivare a comprendere totalmente che le cose e le persone esistono. Giungere a questo, sia pure una sola volte prima della mia morte; è la sola grazia che io chieda”

Per una definizione del sentire

Il sentire, inteso come la percezione delle qualità di valore delle cose, si manifesta nella vita affettiva: sentimenti, passioni, stati d’animo ed umori sono l’attualità intesa come esplicazione di ogni fenomeno della vita affettiva. Se il sentire, dunque, è la percezione delle qualità assiologiche del reale, la tesi forte qui sostenuta è che esso non è l’ambito dell’arbitrarietà soggettiva e neppure un meccanismo adattivo all’ambiente determinato geneticamente. Sentire che un’azione è ingiusta, dal punto di vista che qui sosteniamo, è un’evidenza che si sottopone ad una prova di verità; ovviamente, ciò non significa che tutto ciò che sentiamo è per ciò stesso vero: il sentire come apertura alla dimensione assiologia del reale si rivela un esercizio fallibile in cui l’errore, l’aridità, la miopia sono alla base di risposte inadeguate al reale. Allora, la necessità di un’educazione al sentire, di un’esattezza del cuore, che è l’obiettivo fenomenologico di ogni formazione della persona, include il superamento dell’opposizione sentimento-ragione perché non c’è precisione del cuore senza adeguate capacità cognitive. Abbiamo detto che la vita affettiva – sentimenti, passioni, emozioni- si fonda sulla sensibilità, ma l’affettività non si riduce a ricettività, è fatta anche di risposte, di azioni. E, se è vero che l’adeguatezza delle nostre risposte al reale dipende dalla giustezza del sentire, è importante considerare anche la parte tendenziale della nostra persona: pulsioni, desideri, bisogni ci spingono ad agire spesso in modo compulsivo, ma ciò che ci motiva all’azione è il sentire o meno adeguatamente. Anche l’assenza di percezione di valore della realtà ci fa decidere, perché il rapporto tra componente tendenziale e precisione del sentire è di tipo inversamente proporzionale: meno valore percepiamo e più componente pulsionale agiamo. Dunque, il sentire come ciò che motiva in ultima analisi il volere ci porta a considerare il sentire parziale ed ottuso, il sentire “deficiente,” come il responsabile di azioni condotte sulla scorta delle componente tendenziale in cui può smarrirsi qualunque contatto con la realtà in un esercizio esasperato e fatuo dell’emotività. Il fenomeno della maturazione affettiva implica, allora, un’attivazione dei diversi strati del sentire, non solo dell’ampiezza, ma anche della profondità: non solo percepire quanta più realtà possibile ma anche attribuire ad essa un rango di valori che la strutturi gerarchicamente. Bene, è proprio quest’ordine che si manifesta nella vita affettiva e nei comportamenti a definire il nostro personale modo di sentire, la nostra individualità. Dunque, se attivazione e strutturazione assiologica della sensibilità sono i fenomeni fondanti l’identità di una persona, laddove  questa strutturazione sia assente si assiste al fenomeno della “banalità del male”, il cui polo estremo può essere certo rappresentato dal gerarca nazista di cui si occupò la Arendt, ma che qui  indica tutta una gamma di piccoli e grandi orrori che costellano le nostre vite quotidiane e di cui non necessariamente si occupano le cronache.

La struttura del sentire

L’affettività ha uno strato sensoriale e vitale, ma tra questi strati e quello propriamente personale c’è un salto connesso all’esperienza di altre personalità come tali. L’affettività ridotta agli strati vitale e sensoriale non consente né una personologia né un’etica: nella strutturazione della persona, il momento centrale è la percezione di valore delle altre persone come tali. Infatti, sono i sentimenti connessi ad una relazione personale, e soprattutto l’amore nelle sue diverse forme, a strutturare tutta l’affettività. Dunque, grazie ad una ricognizione strutturale e ad una dinamica, proveremo ad illustrare la connessione imprescindibile tra identità, affettività e dimensione etica del vivere nel suo fondamento relazionale. Detto in termini più perspicui, vedremo come l’amore sia la possibilità più propria che ognuno ha per formarsi come individuo in grado di sentire e di agire in modo adeguato rispetto alla non ineludibile struttura assiologica che il reale ci pone di fronte come richiesta di risposte adeguate.

Abbiamo accennato ai vari strati dell’affettività distinguendo una sfera del sentire riconducibile ai sensi, una vitale  che indica gli umori e gli stati d’animo, ed infine quella personale o dei sentimenti. Se la sfera dei sensi delinea il fondamento del nostro percepirci come vita personale basata sulla percezione dei vissuti inerenti l’essere un corpo, vi sono poi tutti quei sentimenti vitali che ci rivelano il nostro benessere o malessere, la nostra energia fisica, a cui affianchiamo i vissuti che ci rivelano gli umori o lo stato d’animo che ci caratterizza in dato momento: angoscia, gioia, depressione etc. Bene, i sensi vitali, che siano o meno legati al corpo, ci rivelano che siamo inscritti in una dipendenza causale dalle circostanze, ma non esauriscono la sfera della nostra vita personale. E Stein in Psicologia e Scienze della spirito tenta di fornire una teoria della causalità psichica, valorizzando il ruolo della motivazione nell’ambito della vita personale: l’alternarsi dei sentimenti vitali ci attesta il fatto che dipendiamo dall’esterno e che il nostro benessere psichico è indice di come stiamo, di come viviamo, in modo più ampio e profondo degli stati di benessere o malessere fisico, quantunque questi spesso concorrano in modo significativo a determinare i nostri stati d’animo. Ma i nostri stati d’animo, le nostre tonalità affettive non sono ancora in grado di determinare le caratteristiche della nostra personalità: gli stati d’animo ci dicono come stiamo ma non ancora che siamo ( e su questo punto mi permetto di rinviare alle bellissime analisi che E. Stein conduce sull’analitica esistenziale di M. Heidegger contenuta in Essere e Tempo) . La personalità, intesa come lo strato più profondo del nostro essere, si forma a contatto con le altre persone: i sentimenti sono il luogo in cui incontrando gli altri incontriamo noi stessi perché qui il sentire è matrice di risposte alla realtà in cui ognuno di noi sperimenta attraverso scelte, azioni e decisioni, un proprio personale ethos. Ciò ovviamente non comporta un relativismo morale perché tutti gli ordini personali sono ugualmente validi se non contraddicono norme universalmente obbliganti e se è possibile stabilire la verità di queste norme, ma di questo parleremo tra poco.

Allora, tornando alla distinzione tra causa e motivazione, possiamo chiudere questa parte dicendo che lo strato personale dell’affettività è quello dei sentimenti, i quali si configurano come un consentire/ dissentire nei confronti di un sentire di primo grado, ovvero del semplice presentarsi delle qualità di valore del nostro sentire; ad esempio, avvertire gioia o dolore è un semplice prendere atto in modo passivo della nostra esposizione al mondo, ma noi possiamo decidere da cosa farci toccare e a quale profondità. E’ in queste risposte che riveliamo ciò che siamo a noi stessi, anche se questa scoperta non avviene indipendentemente dalla scoperta dell’altro.

Sentimenti, emozioni e passioni

Dunque, lo strato personale del sentire si struttura attraverso l’incontro con l’altro che si pone come occasione privilegiata per la maturazione affettiva. Se un sentimento è una disposizione del sentire, cioè un consentire o dissentire rispetto a ciò che lo suscita, questo significa che il sentimento analizzato nella gamma che va dai poli opposti dell’amore e dell’odio è un atteggiamento motivante scelte, azioni e comportamenti, e che come strato dell’affettività che struttura un ethos individuale si distingue tanto dalle emozioni quanto dalle passioni.

Gli strati affettivi coinvolti dai sentimenti sono certamente quelli causalmente determinati, cioè quello sensoriale e vitale o dell’umore. Ma certamente le emozioni legate ad esempio alla percezione del bello, del buono, del giusto, presuppongono una sensibilità sufficientemente strutturata a livello personale. Le emozioni, infatti, in quanto reazioni ad una percezione, si configurano come attivazioni del sentire e del tendere e sono – a differenza dei sentimenti – vettori d’azione immediata che possono dunque indurre ad una reazione o ad un’azione che si configura come semplice attivazione di una sensibilità priva di strutturazione personale – che vive solo a livello sensoriale e vitale – o, al contrario, risposta conseguente ad una certa strutturazione del sentire e chiamare in causa i valori vitali. Finora, concentrandoci sul sentire non abbiamo parlato se non accennandovi, all’altro polo della vita affettiva, ossia il tendere inteso come l’insieme di pulsioni, desideri e aspirazioni: la passione è un modo del volere che implica il tendere in tutte le sue forme. Da sempre si oppone la passione alla ragione, in quanto si identifica come caratteristica saliente della passione il suo essere radicata nell’irrazionale tradotto con elementi che possiamo riassumere come l’inadeguatezza assiologica, l’inerzia o la forza compulsiva e l’irresistibilità, ovvero l’imporsi ad un soggetto in presenza del dissenso da parte dello stesso. Elementi che spesso portano un’azione passionale ad essere considerata frutto di un conflitto di volontà – insuperabilmente descritto da Agostino nelle Confessioni – in cui le due direzioni del tendere portano l’una all’azione e l’altra al rifiuto stesso del volere concretizzato nell’azione. Quest’ultimo, dunque, un volere di second’ordine che non può restare per sempre velleitario: o il conflitto del volere porta, attraverso una crisi, ad una ristrutturazione assiologica o , se è destinato a rimanere immutato nel tempo con le sue dinamiche circolari, non è un vero conflitto ma una semplice resa ai propri meccanismi tendenziali mascherata da un bisogno ipocrita di autoassoluzione. Va qui notato  che, se un’azione libera non è un’azione indifferente alla passione, ma un’azione a cui si consente con tutto  se stessi, frutto di una volontà che pienamente consente al proprio fare, non per questo è definibile come un’azione buona. Le passioni di per sé non sono fonti di conflitto,ma quando ciò accade si può accedere ad una ristrutturazione della personalità ma anche ad un’uscita verso il basso, ad una destrutturazione assiologica che culmina nelle “passioni fredde”. Assistiamo qui al fenomeno dell’inaridimento del sentire che coesiste con la forza passionale delle tendenze in cui l’empatia – intesa qui come la definisce E. Stein, ossia la percezione psicologica dei vissuti  altrui – si riduce al generico e perde la presa sull’individuale. Riduzione del sentire significa proprio non percepire l’individualità di chi ci sta di fronte, ma ridurlo ad in semplice componente di una classe di individui di cui ci sentiamo nemici o di cui, semplicemente, dobbiamo fare un uso strumentale, senza che si dia la possibilità di sentire l’altro sorgente di un sentire o un soffrire che renderebbe impossibile il male o l’indifferenza nei suoi confronti. Valga a titolo esplicativo, Eichmann, al processo dichiarò di non aver mai odiato gli ebrei. Dunque, l’affettività umana ridotta all’impersonalità si esplica nelle passioni fredde, che vanno dall’indifferenza alle sofferenze altrui al contagio emotivo che è il contrario dell’empatia: sentire gli stati d’animo altrui come i propri  ma sempre attraverso l’impersonalità. La rabbia o l’entusiasmo delle folle sono la manifestazione di dinamiche emotive in cui vige il contagio e non l’empatia.  Il motivo per cui si dà un conflitto d’identità non risolvibile è che il nucleo sentimentale della passione configura un ordine assiologico non integrabile nel precedente: è questo che porta al male assoluto o semplicemente alla mediocrità quotidiana che spesso rivela la distanza tra l’opinione che abbiamo di noi stessi e delle nostre priorità assiologiche e le priorità che effettivamente manifestiamo nelle nostre azioni.

Il volto interno dell’amore

Da quanto detto finora è chiaro che un qualche ordine assiologico si instaura solo quando ci è data una possibilità di gioire non solo per le sensazioni piacevoli o lo stato di benessere, ma quando si attiva lo strato dei sentimenti che è ulteriore, più profondo, rispetto a quelli sensoriali o vitali. E questo diventa possibile solo quando diventiamo capaci di sentire il valore assoluto di un’altra esistenza come tale; solo allora si attivano gli strati più profondi dell’affettività, quelli in grado di cogliere le differenze di valore del reale, avviene la maturazione personale che qui facciamo coincidere con la precisione del cuore. Di norma, ciò avviene perché  siamo stati per primi oggetto d’amore da parte di qualcuno e quando ciò non è avvenuto, sviluppare la capacità d’amare diventa un esercizio estremamente faticoso, spesso superiore alle nostre forze. L’amore come sentimento che attiva uno strato personale del sentire, matrice di risposte che strutturano un ethos individuale, ci introduce al nesso tra la formazione di noi e l’apertura al valore del reale. Faccio un esempio: se non si sente che il desiderio di maggior benessere economico non vale la morte di un genitore o di un coniuge, sicuramente non è stato possibile attivare alcuna strutturazione assiologia del reale e non basta derubricare questi come casi di follia. Dostoevskij in Delitto e castigo coglie il vero – come sempre, aggiungiamo – quando consegna all’assassino di una vecchia spilorcia,  per mano della prostituta Sonia, il brano di Giovanni sulla resurrezione di Lazzaro: ciò che deve risorgere è la possibilità di una vita personale, di una capacità di sentire che passa per l’assunzione delle proprie responsabilità, unica via di scampo da una morte per disseccamento interiore.

Ma come si attiva concretamente lo strato personale del sentire? Di certo, non basta l’educazione né l’esempio: nessuna attività altrui forma una personalità, anche se, perché avvenga il risveglio e la maturazione, occorrono gli altri, occorre la presenza di qualcuno in grado di attivare una risposta che abbiamo definito amore.

L’amore, inteso qui come sentimento relazionale elettivo e non solo, è un incondizionato consentire all’esistenza di una determinata persona non perché abbia particolari qualità ma perché è quella persona. E’ un assentire felice alla sua essenza che invita ad un rinnovamento interiore che comporta sempre una scoperta e riscoperta di sé. Certo, l’amore è rinnovato sentire, ma soprattutto per gli amori elettivi è anche desiderio e ospita allora tutta una serie di dimensioni del tendere come bisogno, pulsione, domanda, che sono l’esatto contrario della gratitudine, del felice consentire; e con ciò non si sta svalutando  la forza dell’eros, ma si vuole contestare il tentativo di ricondurre tutta l’affettività al suo polo pulsionale. Abbiamo detto che l’oggetto d’amore è l’identità altrui; per questo, l’amore non è motivato ( “è senza perché, fiorisce perché fiorisce”) ma certamente la persona oggetto d’amore viene intuita come la soglia attraverso cui ci si dischiude un nuovo universo di valore. Ogni esperienza amorosa ha come sua manifestazione apicale un bisogno che non è di possesso ma di espressione. La preziosità della persona amata è in fondo il potere di farti intuire la “tuità” di te, di suscitare la tua espressività; qualcuno che se ne intendeva ha scritto “ di generare nel bello”.

L’etica tra il sentire e il conoscere

L’amore, dunque, come sentimento dell’intero è un’ introduzione a tutti i sentimenti relazionali positivi che caratterizzano i rapporti con gli altri che, benché motivati da un accesso parziale al valore dell’altro, recano una traccia del felice consentire dell’amore che in questo senso prepara al riconoscimento dell’identità altrui come tale. Il sentimento corrispondente al riconoscimento dell’altro in quanto tale è il rispetto, che davvero significa il sentire che le esistenze degli altri hanno valore. In questo senso, l’amore non può essere dovuto a tutti per le caratteristiche di cui abbiamo parlato, ma il rispetto sì e l’estensione delle classi di enti a cui è dovuto il rispetto è certo indice del livello di civiltà di un’epoca. E, proprio perché il rispetto è il sentire la dignità delle persone in quanto tali, possiamo assumerlo come la minimale condizione di possibilità dell’etica. Infatti, chi non nutre questo sentimento non si accorge di vivere in un mondo di persone e conduce una vita subumana in cui viene meno la corretta formazione di un pensiero della realtà, in quanto davvero il rispetto inteso come il sentimento della trascendenza dell’individuale è il sentimento della realtà in quanto dotata di valore. E’ solo nel rispetto che il sentire si struttura come coscienza morale, ovvero come facoltà di giudicare e di agire in base a motivazioni moralmente fondate. Ma di che tipo è l’evidenza che fonda i giudizi di valore? Le norme non possono che essere obbliganti in virtù dei valori che le fondano, ed i valori sono le qualità assiologiche del reale. I valori si sentono, certo, ma non ogni modo del sentire è una base di evidenza; abbiamo detto prima che solo lo strato dei sentimenti fonda un ordine del cuore personale e che tale prospettiva si sottrae all’accusa di relativismo quando si stabilisce il principio che tutti gli ordini compatibili con la verità atta a fondare norme obbliganti sono compatibili anche tra loro. Ora, questa base di evidenza è il rispetto, inteso come condizione minima per accedere alla soglia dell’agire morale: sapere ciò che da chiunque è dovuto a qualunque persona come tale è la base delle norme universalmente obbliganti senza le quali non c’è giustizia. In altri termini, ognuno può legittimamente decidere in cosa consista la sua felicità se questa è compatibile con la base non negoziabile della giustizia morale. Ma come fondare l’universalità della norma, data la personalità del sentire? Proprio ponendo il rispetto alla base dell’etica, possiamo affermare che il giusto agire, la phronesis aristotelica, si sottrae ad ogni pericolo di soggettivismo e relativismo. Abbiamo volutamente evitato il riferimento all’etica kantiana che pure fa del rispetto l’unico sentimento che informa la vita morale per restare semplicemente sulle cose stesse, ma bisogna pur tornare all’esigenza kantiana di universalità e di apriorità dell’etica in quanto elementi dirimenti per la fondazione di una base etica obbligante ciascuno pur nella diversità delle personali aspirazioni. Ciò che qui si propone è un’etica assiologica, in quanto pone a fondamento del dovere le istanze di valore del reale, ma non eudemonistica perché la felicità è poi un affare privato di ciascuno di noi; una proposta che  distanzia da Kant perché ritiene che il carattere obbligante della norma coincida in ultima analisi con il riconoscimento del valore che la fonda, e  ciò avviene solo per il rispetto in quanto sentimento universalmente dovuto da ciascuno  a ciascuno. Un sentimento che diventa matrice di risposte adeguate in quanto assume l’abito, o la virtù, della phronesis che dispone la nostra buona formazione e trasformazione, strutturando una sensibilità personale capace di sentimenti e comportamenti giusti nei confronti degli altri e di noi stessi.

Sulla vita buona o sulla felicità

Abbiamo visto come lo strato personale dell’affettività si attivi e si strutturi in modo privilegiato attraverso l’esperienza dell’amore, sia questo elettivo o meno. Ma, abbiamo anche detto che la maturazione personale è un fenomeno dinamico che può subire quindi variazioni e regressioni e ciò che opera in modo tale da far regredire una personalità fino al livello subumano è proprio l’odio, che al suo fondo resta incomprensibile, tant’è che non si odia – o meglio così si crede – mai per primi: si risponde sempre all’odio di un nemico. Ciò che resta incomprensibile dell’odio è dunque la sua gratuità, elemento invece indispensabile e pienamente comprensibile nell’amore. L’amore, nella sua essenza, è gratuito perché è senza motivo ( non sono le qualità dell’altro a farcelo amare) ma non infondato perché è un’esperienza di realtà progressiva nel senso che facciamo esperienza di un’altra persona che è appunto il fondamento del sentimento che viviamo. In questo senso non c’è amore illusorio: certo, possiamo sbagliarci sul sentimento o rifiutare la persona reale una volta venuta meno l’immagine trasfigurata dal desiderio, ma ciò ha a che fare non tanto con l’essenza dell’amore quanto coi residui di un’adolescenza che qualche volta tarda ad evolvere nella maturità. E qui rinviamo ad un piccolo capolavoro letterario di Dürrenmatt, Greco cerca greca, una fenomenologia della maturazione affettiva, in cui il protagonista  passa attraverso le secche  (il lago gelato di Costanza ) della disillusione per approdare ad un amore che, abbandonata l’infatuazione dell’immagine autoeroticamente prodotta, è capace di pronunciare un amen all’essenza dell’amato ad occhi aperti, cioè col giusto sentire che non si sottrae alla verità ma che, nondimeno, continua anzi comincia ad amare in una dinamica di bene prodotto e ricevuto  finalmente salvifica.

Alla base dell’odio, invece, sembra esserci un vuoto, un’assenza di realtà che si rivela come un’incapacità di sentire le differenze di valore del reale; il lato pulsionale dirige tutto il nostro agire quando è ridotta a zero la capacità di sentire , ed è proprio una mancanza, l’indifferenza , a nutrire l’odio. Il sentire non giusto è un sentire poco, un’insufficiente attivazione dello strato personale dei sentimenti, in primo luogo del sentimento di rispetto, e dunque una mancanza di percezione della realtà e del suo ordine assiologico. Così la base dell’ingiustizia è l’indifferenza, grazie a cui non colgo che il mio benessere economico non vale l’omicidio del mio coniuge, o il furto, l’arrivismo nutrito di scorrettezza, non vale un avanzamento di carriera. Torna infine la dottrina platonica del male come deficienza d’essere; qui, l’essere insufficiente è il nostro e deficienza d’essere significa deficienza del sentire. Allora, essere in grado di accogliere la realtà portatrice di valore che soprattutto nell’individualità altrui rivela il proprio volto significa strutturare una  personalità che sta compiendo il proprio percorso di  maturazione affettiva; un percorso che non ha come meta ma come origine la felicità stessa. La felicità non è né un’emozione né uno stato d’animo, ma ciò che rende un ente conforme alla sua essenza si legge presso gli antichi Greci, e qui pensiamo ad Aristotele  ma non solo. In altri termini, possiamo dire che la felicità è la possibilità ontologica della persona capace di sentire, la piena attivazione di tutti gli strati del sentire; quindi il suo contrario non è la tristezza o il dolore, ma l’incapacità di provare affetti, di sentire davvero, l’inaridirsi del cuore che sempre porta ad una destrutturazione della personalità e ad una perdita di contatto con la realtà . La felicità non è un’emozione, ma una condizione oggettiva: essere capaci di gioire e di soffrire senza rimuovere alcunché, la piena attivazione di tutta la nostra sensibilità. E’ per questo che  si nasce a nuova vita,  ci si dischiude a nuove possibilità, nel felice assenso che l’amore richiede.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (240): Leggere LUIGI MANCONI e VALENTINA CALDERONE, Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri – Prefazione di Gustavo Zagrebelsky, IL SAGGIATORE

«Stefano Cucchi inizia a morire. Muore. E continuerà a morire, fino a che non verranno pubblicate quelle foto. Sono le fotografie di un cadavere sul tavolo dell’obitorio. Quel corpo, incredibilmente e disperatamente magro, prosciugato. La maschera di ematomi sul viso, dalle palpebre fino agli zigomi. Un occhio aperto, quasi fuori dall’orbita, uno completamente chiuso. Le strisce sulla schiena, le lesioni. Il livido nero sul coccige. Segni di bruciature sulla testa e sulle mani.»

Quelle foto di Stefano Cucchi. Quel corpo prosciugato, quella maschera di ematomi sul viso, un occhio aperto, quasi fuori dall’orbita. Quella morte di Federico Aldrovandi, quel giovane riverso a terra, le mani ammanettate dietro la schiena, esanime. Quelle urla di Giuseppe Uva, dentro la caserma dei carabinieri di Varese. Quelle sue foto col pannolone da adulto incontinente, imbrattato di sangue. Quelle facce gonfie, viola, i rivoli di sangue. E tutte le altre storie, rimaste ignote, oppure richiamate da un trafiletto di giornale, e già dimenticate. Giovanni Lorusso, Marcello Lonzi, Eyasu Habteab, Mija Djordjevic, Francesco Mastrogiovanni. E molti altri. In Italia in carcere si muore. Alcuni sono suicidi, alcuni no. E si muore durante un arresto, una manifestazione in piazza, un trattamento sanitario obbligatorio. Dietro le informazioni istituzionali spesso c’è un’altra storia. Un uomo che muore in carcere è oil massimo scandalo dello Stato di diritto. Quando hanno aperto la cella ce lo racconta. Luigi Manconi e Valentina Calderone ascoltano, raccolgono e portano alla luce storie di persone – spesso giovani – che entrano nelle carceri, nelle caserme e nei reparti psichiatrici e ne escono morte. In ognuna di queste morti, la morte dello Stato di diritto.

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