Contributi a una cultura dell’Ascolto SPOSTARE LE TENDE (2): Leggere MULTICULTURALISMO

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Sabato 13 agosto 2011

Si tratta, per me, di spostare le tende, cioè di muovere verso il mondo, movendo preliminarmente alla sua migliore conoscenza.

Le basi dell’educabilità per un Educatore (in Exodus) sono tre: muovere verso noi stessiverso gli altriverso il mondo. La condizione dell’educabilità dei ragazzi dipende interamente dalla capacità di educare se stessi.

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Diario di Repubblica del 10 febbraio 2011 – Secondo il premier inglese David Cameron e la cancelliera tedesca Angela Merkel occorre abbandonare l’idea della coesistenza tra gruppi con tradizioni diverse. E in Europa si riapre la discussione.

MULTICULTURALISMO

Perché è andato in crisi il sogno della convivenza.

Contributi di

ALAIN TOURAINE, Multiculturalismo
Valori antagonisti Senza integrazio- ne il rispetto della diversità produce l’antagonismo di etiche e pratiche che finisce per minare la coesistenza civile. 
Prevalenza Le leggi nazionali devono sempre prevalere sui costumi dei paesi da cui provengono gli immigrati.
 

ENRICO FRANCESCHINI, Quei valori condivisi  (Anthony Giddens: perché funzionava la formula Blair)
La ricetta giusta “Deve essere bandita ogni forma di relativismo, va data priorità ai diritti umani. Serve un’impostazione che non consenta alle comunità di svilupparsi come vogliono. Ma avendo con loro un dialogo costruttivo.

GIANCARLO BOSETTI, La caricatura di un modello (Così Germania e Inghilterra liquidano una dottrina)
Giustificazionismo È in voga una concezione inappropriata della teoria che la spaccia per una ideologia in grado di giustificare qualunque cosa, dal matrimonio imposto dalle famiglie alle mutilazioni genitali femminili.
 

SILLABARIO di JÜRGEN HABERMAS – Esempi di società multiculturali quali sono la Svizzera e gli Usa dimostrano che, per avere una cultura politica tale che consenta ai principî costituzionali di metter radici, non c’è nessun bisogno di ricorrere ad una origine etnica, linguistica e culturale che sia comune a tutti i cittadini dello stato. Una cultura politica di stampo liberale rappresenta semplicemente il comune punto di riferimento di un “patriottismo costituzionale”, che acuisce nello stesso tempo la sensibilità per la molteplicità e l’integrità delle diverse “forme di vita” coesistenti dentro una società multiculturale. Anche nella federazione europea del futuro, identici principî giuridici dovranno essere interpretati a partire dalle prospettive di culture nazionali diverse, nonché di storie nazionali diverse. Se concepiamo in questo modo l’ancoraggio particolaristico, esso non toglierà un’oncia di universalismo né alla sovranità popolare né ai diritti dell’uomo.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (224): Leggere WILLIAM MILLER e STEPHEN ROLLNICK, Il colloquio motivazionale

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WILLIAM MILLER e STEPHEN ROLLNICK, Il colloquio motivazionale, ERICKSON 2004

PRESENTAZIONE Il colloquio motivazionale è un approccio basato sulle evidenze empiriche che si è dimostrato efficace per aiutare a superare l’ambivalenza tipica che frena le persone nel realizzare i cambiamenti desiderati. Dieci anni dopo la pubblicazione della traduzione dall’inglese, il colloquio motivazionale si è diffuso in tutto il mondo fino a divenire il sistema di primaria rilevanza nel trattamento dei comportamenti di dipendenza.
La nuova edizione è totalmente innovativa e aggiornata: presenta in modo chiaro e operativo i principi fondamentali e mostra i risultati delle applicazioni anche a contesti diversi da quelli classici di dipendenza.
Il colloquio motivazionale ha come punto di forza il metodo, semplice, sperimentale e efficace: descrive cosa fare e come fare, e illustra in dettaglio il processo che porta ad apprendere il colloquio motivazionale. Il lettore impara ad affrontare l’ambivalenza, aggirare e utilizzare la resistenza, costruire la motivazione, rinforzare il cambiamento, prevenire le ricadute.
L’approccio viene descritto anche con le coppie, gli adolescenti, i responsabili di abuso, i pazienti con doppia diagnosi, nei suoi innumerevoli adattamenti e nella variante con i gruppi.
Il libro si rivolge a chi opera nel settore dell’alcolismo e delle dipendenze, ma anche agli studenti di psicologia e agli operatori che utilizzano il colloquio come strumento nella relazione d’aiuto.

CONTENUTI 
– Il dilemma del cambiamento
– Affrontare l´ambivalenza e gestire la resistenza
– Costruire la motivazione
– Rinforzare il cambiamento e prevenire le ricadute
– Come imparare e insegnare il colloquio motivazionale
– I dati sull´efficacia
– L´uso con le coppie, con gli adolescenti, nel casi di comportamenti di violenza e abuso e nel caso di doppia diagnosi
– Interventi brevi e nell´ambiente medico

SFOGLIA IL LIBRO 
Capitolo 4 – Che cos’è il colloquio motivazionale?

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L’edizione che possiedo io è del 1994 (ristampa del 1997). All’attuale capitolo 4 – Che cos’è il colloquio motivazionale corrisponde il capitolo 5 della vecchia edizione: I principi del colloquio di motivazione

Se nella nuova edizione si legge: Il colloquio di motivazione si fonda su quattro principi guida: 
1. Esprimere empatia; 
2. Aumentare la frattura interiore; 
3. Aggirare e utilizzare la resistenza; 
4. Sostenere l’autoefficacia.

nella vecchia le cose stavano così:
Cinque principi generali:
1. Esprimere empatia
2. Amplificare le fratture interiori
3. Evitare dispute e discussioni
4. «Rotolarsi» con la resistenza
5. Sostenere il senso di autoefficacia

Principio n.1: Esprimere empatia
L’accettazione facilita il cambiamento.
Una efficace capacità di ascolto riflessivo è fondamentale.
L’ambivalenza va considerata normale.

Principio 2: Allargare la frattura
La consapevolezza delle possibili conseguenze è importante.
La discrepanza tra il comportamento attuale e importanti obiettivi personali stimolerà il cambiamento.
Deve essere l’utente stesso a esporre le motivazioni a favore del cambiamento.

Principio n.3: Evitare dispute e discussioni
Le dispute sono controproducenti.
Un atteggiamento di difesa produce un atteggiamento dello stesso tipo.
Un atteggiamento di resistenza è un segnale che si devono cambiare strategie.
Etichettare gli utenti non è necessario.

Principio n.4: «Rotolarsi» con la resistenza
L’impeto (dell’avversario) può essere usato a proprio vantaggio.
Le percezioni possono essere deviate.
Nuove prospettive sono suggerite ma non imposte.
L’utente costituisce un valido aiuto per scoprire la soluzione dei problemi.

Principio n.5: Sostenere il senso di autoefficacia
La convinzione che il cambiamento sia possibile è un importante fattore di motivazione.
All’utente è lasciata la possibilità di scegliere e attuare cambiamenti personali.
Vi è la speranza in una serie di approcci alternativi.

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L’uso che ho fatto di quest’opera cruciale in più di 15 anni mi spinge a riportare l’intero Indice:

PARTE PRIMA – BASI CONCETTUALI

1. L’atmosfera del cambiamento, pp.14-25 
1.1. Specificare i «non specifici»
1.2. Le condizioni critiche del cambiamento
1.3. L’evoluzione del confronto
1.3.1. Dove abbiamo sbagliato?
1.3.2. La motivazione come un problema di personalità
1.3.3. La ricerca di una personalità dipendente
1.3.4. La profezia che si autoavvera
1.3.5. Il confronto: un obiettivo, non uno stile

2. Che cosa motiva le persone a cambiare, pp.27-44
2.1. La motivazione come stato dinamico
2.2. La motivazione come probabilità di cambiamento
2.3. Approcci efficaci alla motivazione
2.3.1. Dare consigli
2.3.2. Rimuovere le barriere
2.3.3. Assicurare opzioni
2.3.4. Diminuire la desiderabilità
2.3.5. Praticare l’empatia
2.3.6. Dare feedback
2.3.7. Chiarificare gli obiettivi
2.3.8. Aiutare in modo attivo
2.3.9. Mettere insieme tutti gli ingredienti

3. L’intervento breve, pp.45-51
3.1. L’autocambiamento
3.2. L’impatto degli interventi brevi
3.3. Gli interventi attivi di un counseling breve efficace
3.3.1. Il feedback
3.3.2. La responsabilità
3.3.3. I consigli
3.3.4. La lista d opzioni
3.3.5. L’empatia
3.3.6. L’autoefficacia
3.3.7. La motivazione come interazione interpersonale

4. L’ambivalenza ovvero il dilemma del cambiamento, pp53-65
4.1. Voglio, ma non voglio
4.2. Di fronte all’ambivalenza
4.3. Comprendere l’ambivalenza
4.3.1. Il cuore del problema
4.3.2. L’attaccamento
4.3.3. Il conflitto approccio-evitamento
4.3.4. La bilancia della decisione
4.3.5. Alcune complicazioni dell’ambivalenza
4.3.6. I valori
4.3.7. Le aspettative
4.3.8. L’autostima
4.3.9. Il contesto sociale
4.3.10. Risposte paradossali
4.3.11. Quando il controllo si indebolisce 
4.4. Lavorare con l’ambivalenza

PARTE SECONDA – ASPETTI METODOLOGICI

5. I principi del colloquio di motivazione, pp.69-81
5.1. Che cos’è il colloquio di motivazione?
5.2. Confronto con tre altri approcci
5.2.1. Approcci del tipo «affrontare il rifiuto»
5.2.2. Approcci del tipo «training sulle abilità»
5.2.3. Approcci non direttivi
5.3. Cinque principi generali
5.3.1. Esprimere empatia
5.3.2. Amplificare le fratture interiori
5.3.3. Evitare dispute e discussioni
5.3.4. «Rotolarsi» con la resistenza
5.3.5. Sostenere il senso di autoefficacia

6. Fase I – Costruire la motivazione al cambiamento, pp.83-111
6.1. La prima seduta
6.1.1. La trappola della «domanda-risposta»
6.1.2. La trappola del «confronto-negazione»
6.1.3. La trappola dell’esperto
6.1.4. Il rischio dell’«etichettatura»
6.1.5. La trappola della «attenzione prematura»
6.1.6. La trappola del biasimo
6.2. Struttura aperta
6.3. Cinque strategie iniziali
6.3.1. Formulare domande aperte 
6.3.2. Praticare l’ascolto riflessivo
6.3.3. Essere assertivi
6.3.4. Riassumere
6.3.5. Suscitare affermazioni automotivanti
6.3.5.1. Indurre domande
6.3.5.2. La bilancia decisionale
6.3.5.3. Elaborazione
6.3.5.4. Utilizzare gli estremi
6.3.5.5. Guardarsi indietro
6.3.5.6. Guardare in avanti
6.3.5.7. Esplorare gli obiettivi
6.3.5.8. Il paradosso
6.4. Contatto successivo

7. Come utilizzare i dati della valutazione, pp.113-125 
7.1. Presentare la valutazione
7.2. Le dimensioni della valutazione
7.2.1. L’uso di alcol o droga
7.2.2. I problemi di vita
7.2.3. La sindrome da dipendenza
7.2.4. L’analisi funzionale
7.2.5. Gli effetti biomedici
7.2.6. Gli effetti neuropsicologici
7.2.7. La storia familiare
7.2.8. Altri problemi psicologici
7.2.9. La valutazione globale
7.3. Come valutare la motivazione
7.3.1. La bilancia della decisione
7.3.2. Essere pronti a cambiare
7.4. Il feedback personalizzato

8. Come gestire la resistenza, pp.127-140
8.1. Il ruolo dell’operatore
8.2. riconoscere la resistenza
8.3. Strategie per gestire la resistenza
8.3.1. La riflessione semplice
8.3.2. La riflessione amplificata
8.3.3. La riflessione a due facce
8.3.4. Spostare il focus
8.3.5. Manifestare assenso introducendo una variazione
8.3.6. Insistere sulla scelta personale e sul controllo autonomo
8.3.7. La ristrutturazione
8.3.8. Il paradosso terapeutico
8.4. Come gestire gli appuntamenti mancati
8.5. Il dramma del cambiamento

9. Fase II – Rafforzare l’impegno al cambiamento, pp.141-155
9.1. Riconoscere la disponibilità al cambiamento
9.2. Fase II: Rischi 

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (223): Leggere PAUL RICOEUR, Amore e giustizia

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Venerdì 12 agosto 2011

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PAUL RICOEUR, Amore e giustizia, (1990: anno di pubblicazione in Germa- nia) MORCELLIANA 2000

INDICE
Introduzione
I. Poetica dell’amore
II. Prosa della giustizia
III. La dialettica amore-giustizia
Postfazione del curatore, Ilario Bertoletti

[dalla quarta di copertina]
Una insanabile opposi- zione sembra sussistere tra il comandamento d’amore – «amate i nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Luca 6,27) e la regola di giustizia – fondata sulla reciprocità e l’uguaglianza: «fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te» – che sovrintende alla vita sociale e politica.
Ma davvero, si chiede Ricoeur, vi può essere solo contraddizione tra la logica paradossale dell’amore biblico («una logica del dono e della sovrabbondanza») e la logica dell’equivalenza propria dell’idea occidentale della giustizia?
In pagine di intensa riflessione (su Aristotele, Franz Rosenzweig, John Rawls…) e di fine esegesi biblica, Ricoeur mostra come, senza togliere la discordanza di principio tra le due logiche, si possa giungere ad una loro integrazione pratica: «Direi che l’incorporazione tenace, via via, di un grado supplementare di compassione e generosità in tutti i nostri codici – dal codice penale alle norme di giustizia sociale – costituisce un compito perfettamente ragionevole, benché difficile e interminabile».

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CAMMINARSI DENTRO (222): Nel regno delle chimere

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Giovedì 11 agosto 2011

La pasta di cui sono fatti i nostri sogni è spesso contestata, quando si tratti di sogni ad ogni aperti. Sembra che non sia serio abbandonarsi all’illusione privata, agli arabeschi sonori imbastiti con filo di fumo. Certamente, contribuisce al brusco rimprovero la confessione pubblica, spesso inavvertita, di chi non teme il giudizio degli altri, ma anzi vede nei racconti fantastici un innocente esercizio e basta.

Non manifestiamo volentieri la volontà di risveglio che si attende da noi. Ci piace cullarci in quella zona disabitata in cui è consentito l’accesso solo a noi. Sono i nostri sogni che ci ritroviamo a sognare, e la terra che siamo impegnati a popolare è la terra abituale in cui mettiamo in scena le fantasie erotiche sconosciute al mondo, l’Inconfes- sabile per eccellenza, con i dialoghi ripetuti infinite volte, in cerca di quell’apertura che non si verificò mai, offerta in dono da chi non la offrirebbe mai, per le più diverse ragioni.

Ci sono giorni felici in cui le nostre fantasie sono generate magari dall’incontro fortuito di qualche ora prima che ha risvegliato in noi un interesse sopito o ha eccitato la fantasia, scaraventandoci in paradisi inesistenti – oh, se non lo sappiamo! – in cui avverrà l’inimmaginabile e il proibito: in quella landa deserta del nostro mundus imaginalis non c’è alcuna censura etica, ché sappiamo bene che nessuno visiterà mai i luoghi delle nostre chimere più ardite, e noi abbiamo la bocca ben cucita, tanto che non temiamo di essere traditi mai da un impulso improvviso che ci induca a confessare l’inconfessabile.

Nel recinto della nostra anima ripassiamo infinite volte il coltello sulla piaga dei nostri errori quotidiani, mentre i fantasmi che assediano le nostre notti insonni si annunciano dalle ore del giorno sotto forma di ricordi dolorosi di un passato più lontano, a scandire il rosario dei torti inflitti agli altri, che credevamo ormai redenti per sempre. Io non immaginavo che a questo punto della mia vita potessero tornare i fantasmi del passato, anche di un passato lontano, a rendere angoscioso il presente, con il pungolo dello sguardo accigliato e della voce roca di chi subì il torto! Debbo pensare che non fu accurato il lavoro di ‘rimozione’ o che i fantasmi tornano proprio perché di rimozione si trattò. Se mi sembra di non essere stato perdonato, sarà proprio così: non ottenni il perdono o, ciò che è peggio, non lo chiesi mai, cercando di lasciar morire l’affanno con il tempo, con il semplice trascorrere del tempo!

Sulla soglia del giorno è faticoso affrontare la realtà, con il peso delle fantasticherie a cui quasi d’imperio sono indotto dalla spinta del magma sottostante. Nelle pause della giornata, mi accade di non riuscire a concentrarmi nel compito, se un ricordo indesiderato affolla l’anima con il corteo delle emozioni sgradevoli. Più desiderabile allora diventa l’innocente fantasticheria a cui ci si abbandona tutte le volte che è indispensabile anticipare un incontro o immaginare quello che si dirà al prossimo appuntamento fissato non importa con chi. Allora, sembra che la vita si espanda leggera, e io mi sento come il naufrago che abbia raggiunto terra e si volga a considerare il pericolo passato. Ci vuole tempo ancora, ma il cuore si acquieterà e il giorno proseguirà nel suo cammino.

Stare in ascolto dell’esistenza spezzata, ma più semplicemente intrattenersi con la vicina di casa e con i propri nipotini, cos’altro è se non sentire forte e penetrante il profumo delle chimere che assediano e riscaldano la mente e la fanno sentire sempre impegnata a tradire un po’ le cose, per trovare riparo e sollievo lontano dai ceppi della necessità, nello spazio felice di tutto ciò che ci viene incontro e ci sorride e ci promette altra felicità, non importa a che prezzo?

Se siamo qui a parlare di niente, delle nostre vane illusioni, è perché abbiamo conosciuto a nostre spese il loro potere distruttivo, e per questo, senza alludere ad esse e agli effetti che ebbero sulla nostra vita, cerchiamo di aiutare i ragazzi che si affidano a noi a riconoscerne le belle sembianze, a veder bene dentro le promesse che facciamo a noi stessi, a non scambiare illusione per speranza, a non chiamare progetto ciò che non può mai essere speranza progettuale, per gli scarsi ancoraggi alla realtà, ma ci chiediamo altresì se abbiamo il diritto di ‘smascherare’ sogni e fantasmi, in nome della realtà e della sua dura legge, quando ad ognuno di noi è data la quotidiana razione di follia, senza la quale aridità di cuore e apatia dei sensi, angustia della mente e noia cingerebbero d’assedio l’anima, contribuendo ad accrescere l’affanno che turba i giorni e popola di oscuri simulacri le notti insonni.

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (221): Leggere BRUNO CALLIERI, Corpo Esistenze Mondi. Per una psicopatologia antropologica

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Giovedì 11 agosto 2011

Pre­sen­ta­zio­ne del li­bro di Bru­no Cal­lie­ri, Cor­po E­si­sten­ze Mon­di. Per una psicopatologia antropologica, Ro­ma, E­di­zio­ni
U­ni­ver­si­ta­rie Ro­ma­ne
. 4 a­pri­le 2008 Ro­ma,
Pa­laz­zo Ma­ri­ni, Sa­la del­le Co­lon­ne. [Recensione]

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ASCOLTARE ANGELO BRANDUARDI: Ballo in Fa Diesis Minore (Live’96)

Video inserito dall’Autore il 10 agosto 2011 nel suo canale Youtube:

Pubblicato in Ascoltare Angelo Branduardi | Contrassegnato | Lascia un commento

ASCOLTARE ANGELO BRANDUARDI: Calenda Maia (Live’96)

Video inserito dall’Autore il 10 agosto 2011 nel suo canale Youtube:

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CAMMINARSI DENTRO (220): Come possiamo continuare a vivere

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Mercoledì 10 agosto 2011

Mary McNeely

Passeggero,
amare è trovare la propria anima
attraverso l’anima dell’amato.
Quando l’amato si ritrae dalla tua anima
allora la tua anima è perduta.
Così sta scritto: «Ho un amico,
ma il mio dolore non ha amici».
Di qui i lunghi anni di solitudine nella casa di mio padre,
nel tentativo di ritrovare me stessa,
e trasformare il mio dolore in qualcosa di più alto.
Ma c’era mio padre con i suoi dolori,
seduto sotto il cedro,
un’immagine che è penetrata fin nel mio cuore
portandovi una pace infinita.
Oh, voi anime che avete fatto la vita
fragrante e bianca come le tuberose
nascono dalla terra nera,
eterna pace!

EDGAR LEE MASTERS

«La morte dell’altro, non soltanto ma soprattutto se lo si ama, non annuncia un’assenza, una scomparsa, la fine di questa o quella vita. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di ogni mondo possibile, e ogni volta la fine del mondo come totalità unica, dunque irrimpiazzabile, dunque infinita» – JACQUES DERRIDA

La morte di un ragazzo scava nel nostro cuore una ferita che non smette di sanguinare, anche se a volte ci sembra che il dolore arrivi attutito dal frastuono della vita quotidiana. O che, addirittura, si sia illanguidito fino a spegnersi. Si torna a vivere. Un filosofo ha raccolto in un grosso volume tutti i discorsi pronunciati in onore degli amici dopo la loro morte: Ogni volta unica, la fine del mondo. Ester si è rivolta così a tutti noi, accanto alla bara di Benedetto, nell’Obitorio del nostro Ospedale: “Come possiamo continuare a vivere ora?”. Certo, la fine del mondo, di tutto il nostro mondo, racchiuso e condensato nell’esistenza delle persone che ci sono care, la morte delle quali, una per una, ci apparirà unica, come se nell’istante supremo tutte le cose precipitassero nell’insignificanza.

Ci ritroviamo di fronte al compito immane di tenere viva la memoria. Lunedì Ester mi diceva piangendo: «Ho paura di non ricordare più la sua voce!» Ma sta combattendo, come non ho mai visto fare prima d’ora, perché questo non accada, perché, piuttosto, attraverso il suo nome vivano altre cose belle a cui si dedicherà: ha in mente di realizzare una Fondazione che si occuperà delle cose che Benedetto amava di più e di quelle che hanno segnato la sua vita.

Questa battaglia incide nel mio cuore, mi aiuta a fare altrettanto, a fare meglio di come io non abbia fatto, anche con la morte di mia madre! Non starò a dire qui cosa io stia facendo, ma da quell’8 giugno in cui Benedetto se n’è andato non c’è giorno che non pensi a lui con commozione e rimpianto. Lo sgomento per la sua morte è intatto. Per la prima volta, forse, riesco a vivere con pienezza, come ho sempre cercato di fare, conservando nel cuore sempre vivo il sentimento della sua presenza. Potrei dire che si tratta di una diversa pace, una pace diversa da quella che abitava già il mio cuore. Benedetto ha portato una consapevolezza nuova. Grazie ad Ester.

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Il 12 ottobre 2004, nel cimitero di Ris-Orangis, si sono svolti i funerali di Jacques Derrida ed è stata data lettura, grazie alla moglie, Marguerite Derrida, del suo ultimo messaggio.

«Jacques non ha voluto né rituale religioso né orazione funebre. Egli sa per esperienza che prova sia per l’amico che se ne fa carico. Mi chiede di ringraziarvi per essere venuti, di benedirvi, vi supplica di non essere tristi e di non pensare che ai numerosi momenti felici che gli avete offerto l’opportunità di condividere con lui.
Sorridetemi, dice, come io vi avrei sorriso fino alla fine.
Preferite sempre la vita e affermate senza posa la sopravvivenza.
Vi amo e vi sorrido da dove io sia.»

Amici e allievi riferiscono che negli ultimi giorni aveva dichiarato: «Ho passato tutta la mia vita a perdonare e a ringraziare».

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CAMMINARSI DENTRO (219): Un centro di gravità permanente

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Mercoledì 10 agosto 2011

Non c’è dubbio che oggi è soprattutto di questo che avremmo bisogno: di un po’ di luce sopra la nostra frammentaria esperienza morale, ma anche di un po’ di voce articolata o di ragione da dare alla meraviglia, allo sgomento e alla pietà. – ROBERTA DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire (2003)

Questa mattina sento il bisogno di radunare tutte le mie idee per poter dire cosa quotidianamente metto dentro la relazione d’aiuto nel Centro di ascolto in cui lavoro. Magari pubblicherò, per tornare poi ad aggiungere e togliere nel corso della giornata; intanto, è urgente dire ‘tutto’. Credo che pochi sarebbero disposti ad ammettere che in fondo a guidare la nostra vita sono poche idee. Possiamo ‘mobilitarne’ tante ancora, se stimolati a farlo, e affiorerebbero complesse configurazioni di senso, se ci dedicassimo a un’opera di raccordo e ‘sistemazione’ delle idee stesse. Resta il fatto che, se indotto a scegliere, non esiterei a dire che oggi poche sono le cose, e chiarissime per me, che mi guidano.

Dal 2003 almeno ho imparato a tenere insieme ciò che era frammentario nell’esperienza morale. A una considerazione delle virtù prese una per una ho imparato ad opporre l’idea più chiara che se il coraggio è la virtù dell’istante, la fedeltà è la virtù dell’intervallo; la perseveranza è la virtù del compimento. Ho appreso che il coraggio è la virtù dell’inizio. E ancora che il coraggio non è un sapere ma una decisione. A proposito della mia identità, mi sono costituito come soggetto morale, come persona. Potrei ‘concludere’ dicendo che detto questo ho detto tutto. E’ senz’altro l’acmé, il punto più alto raggiunto, e non c’è da salire ancora.

Il compimento dell’esistenza personale è questo divenir chiaro in quale modo siamo intenzionati a consistere qui e ora. Non avrebbe senso, infatti, chiudersi nella convinzione che il momento di maggiore chiarezza sarà concesso negli istanti che precedono «l’ora che non ha sorelle». Dovremmo aspettare quel momento per poter dire di noi che abbiamo coscienza di ciò che siamo? L’identità personale sarà anche instabile e magmatica, ma non bisogna confondere i turbamenti quotidiani – che spesso ci spingono a credere che qualcosa stia cambiando in noi – con la struttura della nostra personalità.

Il primo sentimento da educare in noi è riassumibile in questa configurazione di senso: lontananza, assenza, mancanza, perdita. Riconoscere la forza del ‘negativo’, per volgerlo in positivo, facendone un aspetto della vita ineliminabile, da cui trarre lezioni, imparando a convivere con tutte le vicissitudini della coscienza. L’esperienza del dolore, infatti, è ciò che tempra il carattere.

A questa Darstellung – così Walter Benjamin chiamava le ‘configurazioni di senso’, cioè le unità complesse, i gruppi di concetti che insieme concorrono a dare senso a un’esperienza che non si lascia ridurre a un ‘semplice’ – va associata la malinconia d’amore, in cui si traducono assenza e lontananza. Dobbiamo imparare a coltivare l’attesa e la speranza, perché la malinconia non faccia precipitare nel così fu la nostra attesa: ciò che è stato non cessa di esistere per noi, se non ne facciamo un irredimibile. Dovremo imparare a redimere il tempo perduto, a riscattarlo, salvandolo dall’oblio. Il timore, poi, accompagna sempre la speranza: non ci faremo paralizzare dal fraintendimento; quel timore è connaturato alla speranza.

La malinconia d’amore conduce a un sentimento di perdita doloroso: ci comportiamo come se l’oggetto d’amore che ‘semplicemente’ si allontana da noi dovesse andare perduto per sempre! Dunque, bisogna ricordare il bene ricevuto. Solo a questa condizione è possibile sperare e dare senso alle nostre attese.

Riconoscere in noi l’angustia della mente è cosa che riusciamo a fare  solo dopo aver osservato un aprirsi della mente stessa a nuove evidenze: allora, ci rendiamo conto di come ci fossimo ‘chiusi’. Ma ci accade anche di ‘essere chiusi’, che qualcun altro ci chiuda, precludendoci l’esperienza, invadendo la nostra anima, con proibizioni e divieti, ordini e comandi. E’ il ‘grugnito’ scontroso, sgarbato, scorbutico delle persone intrattabili.

L’ordine del cuore, tuttavia, è il concetto più chiaro e più forte, che li comprende tutti: principi, regole, prescrizioni, valori, ideali, virtù, affetti. Quando ero ragazzo ci ricordavano sempre la ‘scala dei valori’. Dovevamo assegnare le cose importanti per noi a un posto della ‘scala’. La disposizione verticale era chiara: c’è qualcosa in cima e poi, a scendere, le cose via via meno importanti. Trattandosi di valori, ogni ‘gradino’ era importante.
Meno suggestiva, forse, ma più efficace l’espressione ‘ordine del cuore’, che contiene un principio d’ordine, appunto, e l’idea della mappa del territorio della mente e del cuore. Bisogna mettere le cose a posto: non bisogna stare ‘fuori di sesto’; un retto sentire assegnerà il giusto valore a persone e cose; l’esattezza del sentire farà giustizia del valore di ognuno, a nessuno negando i necessari riconoscimenti; la misura degli atteggiamenti contribuirà a mantenere la giusta distanza con le persone; l’attivazione degli strati profondi della personalità costituirà la misura del nostro valore. Nessuno può sottrarsi allo sguardo dell’altro, che saprà facilmente riconoscere in noi ordine e disordine.

La chiarezza morale, che possiamo anche chiamare onestà – a me piace dire onestà intellettuale, cioè capacità di riconosce gli errori commessi e di dare agli altri ciò che meritano -, contribuisce a darci la pace interiore, che è benessere e viatico.

La lezione più antica che io ricordi, però, mi è venuta da Nilde Jotti, la compagna di Palmiro Togliatti. In tempi in cui non c’era ancora il divorzio, che potesse intervenire a stabilire nuovi ordini negli affetti, i due vivevano insieme, pur essendo lui sposato. La loro unione, tuttavia, non era né ‘clandestina’ né ‘irregolare’: era il risultato di una scelta irreversibile. L’onorevole Jotti disse della vita sentimentale in un’intervista che bisogna evitare la confusione dei sentimenti. Stabilire in modo chiaro da che parte si sta e lì consistere. Non ho mai dimenticato le sue parole. Abbiamo bisogno di valori e di virtù e di principi che guidino l’azione, ma anche di ‘semplici’ prescrizioni, per non restare confusi in eterno, come si diceva tanto tempo fa.

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ASCOLTARE ANGELO BRANDUARDI: Al’Entrada Del Temps Clar + intro (live1996)

Video inserito dall’Autore il 9 agosto 2011 nel suo canale Youtube:

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CAMMINARSI DENTRO (215): Lo statuto della voce nella relazione d’aiuto

 

Scripta volant, verba manent.
JACQUES LACAN

La verità è il tono di un incontro.
HUGO VON HOFMANNSTHAL

0. Rispetto al motto di Lacan – I testi (scritti) volano, i discorsi (orali) restano – e a tutta la lezione del maestro Jacques Derrida, c’è da segnalare qui il primato del significante, rispetto al significato, e il primato della voce, rispetto al testo scritto. Quest’ultimo ‘vola’, nel senso che non costituisce documento ‘fedele’ della realtà che più ci sta a cuore: il ‘luogo’ del soggetto, lo spazio ‘relazionale’ della verità.
A noi interessa raggiungere il cuore della verità, e questo luogo è là dove si disloca il soggetto che è di fronte a noi e che parla. Di lui diremo che non è semplice-presenza. Di lui ci interessa la trascendenza, ciò che lo supera, collocandolo in un altrove che desideriamo ‘abitare’. Ciò che appare a noi non è tutto. Seguiremo la traccia del suo apparire e i modi di quell’apparire, per ‘andare’ là dove si dilegua ogni nostro apparire.
Il soggetto, poi, non è più il legislatore dell’esperienza, perché non è padrone a casa sua, come ci ha insegnato Freud. ‘In casa’ c’è qualcun altro con cui il soggetto è perennemente impegnato a ‘dialogare’. E’ stato Ricoeur a parlare del «sé come un altro». Già Mallarmé aveva sentenziato: «Je est un autre», Io è un altro. Sicuramente, non siamo di fronte a un ‘semplice’, e la nostra coscienza non è mai possibile ri(con)durre a un dominio conchiuso, ad una sintesi chiara, se non al culmine della nostra vita, quando ormai essa è stata interamente vissuta…
Ciò che ‘resta’ è la vita della ‘parola’, la qualità dell’accordo, che costituisce l’autentico καιρός – ο κρόνος καιρός, il tempo ‘debito’ – di cui si sostanzia l’efficacia dei processi empatici. Riconoscere il primato della parola, dunque, – della voce – equivale a proporre una diversa posta: è altro ‘in gioco’. Cercheremo – e troveremo – l’altro non in un intemporale significato della verità che dovrebbe mostrarsi a noi  incontrovertibile nel bagliore della luce meridiana.
Già Eco nel 1980 aveva avvertito, in apertura del suo primo romanzo, che la verità ci si mostra spesso «per speculum et in aenigmate» – attraverso giochi di specchi e tale che debba essere interpretata -, dunque non ci fermeremo alle mere apparenze, anche se sappiamo bene che «nulla appare invano»: l’apparenza non ci ingannerà, se noi sapremo farci condurre da essa al cuore ben rotondo della verità. Seguire il significante è già metodo, qui – cioè dentro la relazione -, per noi.
Il significante per eccellenza è la voce umana. Da essa ci faremo guidare in tutte le vicissitudini della nostra vita activa.

1. «Viviamo in una fonosfera, presi nell’ascolto, tesi all‘ascolto, estroflessi e portati fuori di noi, per intendere qualcosa» (Carlo Serra). In Exodus siamo abituati a parlare di paesaggio affettivo, per indicare le figure di riferimento della famiglia d’origine che ogni ragazzo deve riscoprire, al culmine dei programmi riparativi e ricostruttivi che si rendono indispensabili per uscire dalle dipendenze. Una sede residenziale – noi preferiamo parlare delle nostre Case – è propriamente una fonosfera, come lo è ogni Centro d’ascolto. In ‘casa’ risuonano le voci alle quali si impara ad essere fedeli, se è vero che ‘tradire’ è un ‘tra-udire’, cioè sentire altre voci, prestar fede ad altre voci. Creare in sé lo spazio indispensabile per ospitare gli altri, tutti gli altri con i quali si intrattengono relazioni significative, vuol dire propriamente accettare ogni risonanza affettiva, che solo la voce ‘direttamente’ restituisce. Nella dimensione dell’ascolto occorre inserire poi la nozione complessa di paesaggio sonoro.
La voce dell’Operatore e la voce della persona che chiede aiuto non sono mai in questione: non costituiscono, cioè, materia di studio né, tantomeno, oggetto di riflessione personale o argomento su cui riferire esperienze significative, come se si desse comunicazione solo a livello di concetti, di significati, di riferimenti oggettivi facilmente condivisi! Nel colloquio, che è una delle strutture portanti della condizione umana, invece, sono implicati piani di realtà relativi ai parlanti che non sono ri(con)ducibili al solo dominio della parola. Il contenuto manifesto e l’espressione verbale delle proprie intenzioni e dei propri scopi non esauriscono il senso. Al di là di impliciti e di presupposti, su cui pure si basa la comunicazione umana, ci riferiamo qui al non detto delle emozioni, al preverbale, ai tratti sovrasegmentali dei sintagmi che vanno a comporre le catene di parole con le quali costruiamo i nostri discorsi [vedi anche  ].
Il senso, poi, è costruzione collettiva; non è il mero significato delle parole, che pure sono soggette al fenomeno della connotazione, limitatamente all’esperienza del singolo parlante: noi siamo quotidianamente impegnati a contrattare con gli altri il senso da dare alle parole con le quali poi interagiamo sempre, perché un mondo a noi sostanzialmente estraneo si trasformi in una realtà durevolmente condivisa.
Lo statuto della voce, anche considerata nella comune relazione faccia a faccia che intratteniamo con le persone che ci circondano, resta inindagato, quasi fossero irrilevanti gli effetti di senso che pure essa produce e veicola.
Io credo che questa ‘omissione’, che si configura come vera falla teorica, dipenda da una sottovalutazione del peso della voce, soprattutto all’interno dei processi di empatia che mettiamo in moto, non solo nei Centri di ascolto. La stessa cosa non si può certo dire della prassi (psico)terapeutica, che è da sempre consapevole della funzione della voce, come se facesse parte del setting terapeutico.
Chiedersi quale sia lo statuto di una ‘cosa’ equivale a chiedersi quale sia la sua natura, cercare il fondamento, l’origine; assegnare alla ‘cosa’ un campo, farne un fenomeno, cioè un oggetto di scienza; indicare la scienza alla quale ricondurre l’oggetto, il fenomeno.

2. Della voce non diremo che appartiene al dominio della fonetica o della fonologia, di una scienza medica che ci sveli i segreti della fonazione umana, a partire dalla corporeità degli apparati, degli organi, delle funzioni. La mera produzione di suoni non basta per esaurire l’essenza della voce.
Se, ad esempio, ne facciamo l’espressione del desiderio, come fa Sergio Solmi nel suo Canto di donna, l’asse della connotazione e il riferimento all’invisibile, alla realtà dell’anima, prevarranno: siamo già oltre il fenomenico. 
La voce, dunque, non si lascia sottomettere all’azione classificatoria e categorizzante di nessuna scienza. Più che di una logica, essa si avvale di una grammatica. La voce non è un oggetto, un fenomeno. Non appartiene a una classe di oggetti con tratti comuni, che si manifestino in modo sempre uguale sotto tutte le latitudini geografiche e storiche. Il danno che la fenomenologia ha procurato all’ascolto è nella pretesa che l’essere si manifesti nella verità ultima del fenomeno. In questo modo, l’ascolto fenomenologico annullerebbe la risonanza di fondo, «l’eco della figura nuda nella profondità aperta» (Nancy). «L’ascolto, invece, designa il luogo dell’ascoltare in segreto, il potere della sorpresa in una conversazione o in una confessione… Ma quale segreto svelerebbe l’ascolto? La voce… Prestare ascolto significa ascoltare la voce, essere all’ascolto della voce, che risuona nel fondo abissale del linguaggio». Sentire significa comprendere, sentir dire o sentirsi parlare. In fondo al sentire è come se ci fosse una risonanza fondamentale, «una profondità prima o ultima di “senso” stesso (o della verità)». Sentire significa comprendere il senso. Ascoltare «è essere tesi verso un senso possibile, e quindi non immediatamente accessibile». In tale senso possibile si stabilisce una spaziatura – un ‘intervallo’, una ‘sospensione’ – che è quella dove abita il soggetto, meglio il senso del soggetto. E tale senso «consiste nel rinvio». La struttura del rinvio è il luogo del soggetto, il quale non è altro che la forma di questo rinvio.

3. «La logica dell’ascolto fa appello a un’altra logica, non quella della manifestazione, ma quella dell’evocazione, come nella musica. E’ questo un modo dell’ascoltare che non pretende di essere padrone del senso, della voce che svanisce. La voce si dilegua in una deriva ed è sempre una promessa. Il suo vero prodursi viene dal silenzio. Essa dice poco, o nulla, ma ci consente di ascoltarla se ad essa si tende l’orecchio. Essa ci concede il momento di uno stupore, una meraviglia e ci permette di considerare la parola come un evento che non si lascia avvolgere ed esaurire da un significato. La voce ci chiede una sospensione, uno svuotamento che ci consenta di accoglierla come un’eco nella nostra disposizione soggettiva. Non è ascolto dell’ovvio, ma dell’estraneo  che guadagna margine e spazio nel soffio della parola; interrompe il tempo e irrompe nel flusso del pensiero, premendo e spingendo ad interrogarlo. Il silenzio, in questa prospettiva, non è privazione, ma “una disposizione alla risonanza”, alla sua tensione, vibrazione, grido, appello, canto. Una disposizione profonda ad accogliere una enunciazione senza enunciato, “un’alterità da ciò che si dice” (Lacan): una voce.» (Giovanni Rotiroti).
Proprio perché essa appartiene al dominio dell’immateriale – a dispetto della materialità da cui proviene -, in quanto soffio, flatus, richiede un altro sguardo, per farsi fine ascolto, capacità ‘discreta’ di cogliere in essa l’interruzione del continuum dell’esperienza: il ‘discreto’ da cogliere è proprio il tratto suo specifico. Essa appartiene a un parlante e solo ad esso. Restituisce l’unicità del singolo, il suo declinarsi al mondo, nei modi che gli sono propri, non importa quanto ‘corretti’ e ‘sani’. E’ inconfondibile, cioè non è assimilabile a nessun’altra voce. E’ problematica nelle sue manifestazioni: richiede sempre un supplemento di riflessione, poiché non è da confondere con termini, definizioni, concetti, regole, leggi, categorie… Essa è, piuttosto, la vibrazione particolare che un’esistenza in un momento dato esprime. Quando diciamo “dare voce a…”, immaginiamo forse che dalla voce dipende la chiarezza del concetto, la forza del linguaggio, la precisione della lingua… In realtà, la voce ‘supera’ le manifestazioni logiche, di cui pure è capace, per ‘dire’, piuttosto, e meglio della parola, il non detto, l’indicibile, il silenzio.
L’espressione usata da Antonio Prete per ‘mostrare’ l’oggetto de L’infinito leopardiano è molto eloquente: «non esperienza del piacere, ma parola del desiderio». Naturalmente, per noi, quella parola del desiderio è il farsi parola della voce del desiderio, è il tentativo di dare ad esso forma. E l’infinità del desiderio, la sua inesauribilità, può essere ‘espressa’ compiutamente solo dalla voce. La tensione romantica per eccellenza, quella che modernamente ‘guarda’ all’illimite degli «interminati spazi» e dei «sovrumani silenzi», trova forse il suo più convincente compimento nel rinvio alla «voce» del vento, che ci conduce oltre la mera presenza delle cose, ad altre epoche, in un rinvio indefinito che produce lo scacco del pensiero. Se il rammemorare iniziale è «caro», non può non essere «dolce» il «naufragar» conclusivo. Oltre ogni diretto riferimento all’estetica del sensismo, da cui pure Leopardi proviene, qui vale l’affermazione degli spazi aperti e del protendersi oltre il puro apparire delle cose nell’ek-stasis mondana: il ‘superamento’ del dato sensibile, della presenza alle cose, del mero nunc è possibile solo nel ‘risalimento’ a quell’unica sorgente del nostro consistere che è data dal punto di incontro del desiderio e della parola che segna la ‘nascita’ dell’individuo. A quell’origo occorre dare, appunto, ‘voce’. Non era stato già Platone a porre, in tema d’amore, la questione della dicibilità dell’indicibile, come vero ‘fondamento’ dell’amore stesso? Lo sfondo di impossibile in cui si colloca la domanda d’amore non ci consente altro, se non divinare da quel fondo enigmatico e buio da cui ‘parliamo’. Le parole non basteranno mai per dire compiutamente cosa ci leghi a un oggetto d’amore e perché: sempre di nuovo affronteremo il compito dando voce al desiderio. 

4. Se consideriamo più da vicino il non detto delle emozioni, cioè l’impossibilità di dire compiutamente cosa esse producano in noi (a questo occorrerà aggiungere il non detto della droga, il non detto della sessualità), ci renderemo subito conto della rilevanza della voce, ché è il mezzo con il quale noi tentiamo di esprimere il ‘fondo’ da cui le cose ‘provengono’, per assicurare una ‘risposta’ convincente alla domanda di senso che ci viene sempre dall’altro, ad ogni piè sospinto. Relativamente alla vita degli affetti, dare voce a emozioni e sentimenti è uno dei compiti più ardui per noi.
La difficoltà in cui versa chi chiede aiuto riguarda fortemente la percezione confusa che la persona ha di sé, soprattutto nella fase della precontemplazione, quando, cioè, per lei la richiesta di aiuto non sia possibile ancora formulare chiaramente. Quella percezione è anche un insieme di stati di corpo e d’animo che hanno bisogno di essere decantati, perché sia possibile poi favorire l’accesso alla coscienza e da lì partire alla ricerca di ‘ragioni’ da dare al proprio consistere ‘qui’ e ‘ora’. L’incidenza sulla struttura delle motivazioni personali è possibile se riusciamo a far accettare all’altro una diversa rappresentazione delle cose, anche con il ricorso a forme di modellizzazione dell’esperienza (mappe del ‘territorio’, ‘esempi’, metafore, fino al ricorso all’antifrasi) in cui sia sempre implicata la nostra esperienza, cioè i tentativi fatti per trovare una via d’uscita dalle difficoltà della vita. Voglio dire che le nostre emozioni, ma soprattutto la voce che ad esse daremo, potrà essere determinante nello sforzo di ‘presa in carico’ che non sempre dà i frutti sperati.
Sicuramente, nel colloquio di motivazione, pesa l’autorevolezza della nostra voce. Se l’attitudine non-giudicante spiana la strada, si tratta poi di indicare un cammino possibile. Procedere insieme diventa realtà, se saremo convincenti validatori dell’esperienza dell’altro. Per questo non bastano scienza e conoscenza della vita, saggezza pratica e misura: l’accesso al simbolico, che il Padre garantisce, è via, verità e vita. (Oltre i processi riparativi e ricostruttivi previsti dai programmi di ‘recupero’, conta sempre lavorare – ad esempio, con le terapie territoriali – per l’empowerment della persona, attraverso la motivazione all’affrontamento della realtà, che vengono indicati con il linguaggio del cambiamento, anche se sono appannaggio di altri momenti del complesso lavoro di aiuto che la Rete appronta con la persona). Si potrebbe dire che l’autorevolezza del Padre è nella sua voce, più che nell’esempio di vita, come si è sempre creduto. Se i ragazzi guardano all’esempio, riusciranno a individuarsi compiutamente attraverso il riconoscimento della realtà del Padre. Ogni figlio sa che, a dispetto di tutti i limiti che pure scopre nel proprio padre, ciò che conta alla fine è che quello sia il proprio padre. Nient’altro. Ciò che il Padre ancora incarna è difficile afferrare, se non si è disposti a farsi figli, corrispondendo alla sua legge. Montale ha scritto del mare che è vasto è molteplice, e si è voluto vedere in questa espressione la legge del padre: comprendere, cioè abbracciare, fino a ‘ridurre’ il suo significato a mero concetto, non è possibile. Consistere in modo ‘sano’ è possibile, a condizione che si accetti quella legge. La creatura è in ascolto. E’ compito del figlio interpretare – cioè, accettare – la voce del Padre. Il ‘ricordo’ più vivo della mia vita è la voce di mio padre.
Il riferimento al Padre qui non appaia peregrino: in un Centro di ascolto, un sessantaduenne come me come apparirà agli occhi di un ragazzo o di un ragazzo-adulto? In tutti i colloqui che tengo settimanalmente con i ragazzi è presente in me la consapevolezza di un ruolo o di un segmento di ‘professionalità’ che debbo prevedere e che riguarda la mia condizione di adulto: la pre-vecchiaia non è una condizione di privilegio; un anziano non necessariamente sarà saggio ed equilibrato! E’ possibile essere volgari e osceni, nonostante l’età! Piuttosto, mi riferisco all’atteggiamento che assumo. In quell’atteggiamento non posso fare a meno di contemplare un uso della voce che segni una diversa presenza. Sono sufficienti pochi riferimenti a tempi lontani della mia vita, all’esperienza educativa passata, per dare la misura di un’esperienza che è stata sempre consapevole di sé e preoccupata di aderire alla realtà che cambia: in questo modo, ad esempio, il ragazzo percepisce una chiara disponibilità, un’attitudine paziente che lo aiuterà ad aprirsi e ad affidarsi… Altre volte ho sentito dire che nelle sedi residenziali l’Educatore di riferimento è stato ‘vissuto’ dai ragazzi come un padre. In un gruppo che teniamo il venerdì con i ragazzi che hanno completato il programma residenziale e con quelli che sono impegnati in terapie territoriali (solo le terapie antagoniste degli oppiacei), il conduttore lamentava alcune settimane fa la mia assenza a un incontro, perché, secondo lui, la presenza di un’Educatrice andava bene, ma quel giorno si era sentita la mia mancanza. Secondo lui, mancava un padre. Ricordo nitidamente che i miei alunni apprezzavano la calma della mia voce, l’effetto soporifero, come dicevano scherzando. Insomma, siamo ormai dentro un campo che è parecchio da dissodare ancora.

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I testi a cui qui si rinvia – risultato di esplorazioni che durano da trent’anni –  esprimono compiutamente tutte le questioni toccate. Il post sarà rimaneggiato infinite volte, perché esprima compiutamente il senso dell’esperienza del colloquio, non solo nella relazione d’aiuto.

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CAMMINARSI DENTRO (218): Un amore astratto

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Ritrovato dopo ventisei anni, sepolto in un palchetto sotto i miei occhi, il volume di Asor Rosa contiene dolorosi frammenti del tempo felice della politica, o meglio, di un tempo che era già successivo. Il tempo dopo la felicità. A quei tempi, credevamo che la felicità fosse una virtù civica, roba da consumare insieme. Io non mi sarei mai permesso di pensare di poter essere felice da solo, radunando e accumulando beni solo per me… Quando lessi la prima volta il testo che segue, ne ricavai una pessima impressione: mi sembrò solo un pretesto per affermare la volontà di sapere che era propria della sessualità e basta. Ero già convinto che l’amore dosse (quasi) tutto. Lo vedevo dappertutto.

A rileggerlo oggi, mi sembra quasi la delicata presa di posizione di un vecchio ormai ridotto ad elemosinare l’amore, non potendo sperare nei percorsi lunghi e obbligati a cui tutti siamo tenuti. Se allora mi vergognai perfino di averlo letto, oggi mi sembra un documento umano da tenere a disposizione e su cui riflettere, per non scartare nessuna ipotesi sull’amore e sui modi in cui è umanamente possibile viverlo.

177. Un amore astratto. I. Può esserci un amore totalmente astratto? un amore, cioè, che non ha bisogno di convivenza, di famiglia, d’incontri quotidiani, ma s’accontenta di avere come proprio oggetto una pura idea? un amore non finalizzato a questo o quello, ma solo al fatto di esserci – sentimento senza obiettività né obiettivo, pago di sé? Io credo che sia possibile. Anzi, se ci si pensa, ci si rende conto che nelle condizioni presenti della vita, dove i rapporti, le relazioni, le gerarchie sono sempre più importanti che non la sostanza, l’essere e l’esserci, l’unica forma di amore vera è questa che non si identifica necessariamente in un rapporto, anche se non lo esclude. Non parliamo di «amor platonico»: se mai, del suo contrario. Se si riesce infatti a concepire l’amore come una forma essenziale della vita, si capisce anche che solo quando esso è, per così dire, de-socializzato e de-storicizzato – messo «fuori di relazione» – riacquista tutta la sua originaria carica biologica ed anche una forte, insolita tensione sessuale. Solo che, anche a questo proposito (a proposito del sesso, voglio dire), l’amore astratto non lo finalizza mai alla costruzione di una storia ma alla ricerca di un’identità. Anzi, il punto d’incontro del sesso dei due partners diventa esattamente questo: non c’è amore, per loro, né vero congiungimento sessuale, senza che, specchiandosi l’una nell’altra, le due personalità non ne vengano reciprocamente ingigantite. Il sesso, cioè, torna ad essere strumento di conoscenza dal momento in cui l’astrazione, delimitandone il campo, gli impedisce di essere usato. Tutto il contrario avviene per l’amore-famiglia e per l’amore-pornografia, i due poli estremi nel mondo d’oggi di una progressiva (presunta?) socializzazione dell’amore. Tutti vogliono socializzare l’amore: ma l’amore che resta, ed è intangibile, non è condivisibile. Passione e astrazione in questo caso vanno insieme.
II. Solo l’amore astratto può mettere veramente in crisi sia la coppia sia la famiglia, queste due concezioni speculari dell’impossibilità umana di andar oltre i limiti costituzionali del genere. Le mette in crisi, voglio dire, perché non si contrappone loro antagonisticamente, ma neanche le elimina (né ambisce eliminarle). Sta in un piano suo, dove il possesso dell’oggetto è totale e al tempo stesso reciproco – fatto quasi miracoloso, direi, e che non avviene mai laddove l’amore passa attraverso le figure istituzionalizzate della famiglia e della coppia (neanche della coppia irregolare o adultera, naturalmente). Questo amore astratto è così possente e totale, così privo di limiti, da sconfinare continuamente e irresistibilmente nell’immaginario
III. L’amore astratto non può che essere un amore scettico, disincantato, ironico e auto-ironico: non è per niente quello che comunemente si definirebbe un «amore caldo», o, meglio, non ha il calore dell’estate ma piuttosto quello assai caratteristico del gelo, e proprio per ciò è capace d’essere fortissimo, intenso, bruciante, e di una ostinazione senza pari. Il dubbio, infatti, che in campo erotico spesso nasce dalla sproporzione esistente fra il risolto e l’irrisolto e fra il reale e il (cosiddetto) irreale, lui se l’è lasciato dietro le spalle: non ha dubbi, precisamente perché non crede più in niente; non crede più in niente – e dunque può credere fortemente nell’unica cosa che resta al di là di qualsiasi obiettivazione: la reciproca ricerca dell’identità – senza motivazioni, senza scopo e senza uso. Anche da questo lato, dunque, l’amore astratto entra nel dominio, o addirittura è già di per sé una componente importantissima del dominio dell’immaginario.
IV. L’amore astratto, per conservare intatta la sua forza, non deve cercare di diventare né l’amore-coppia né l’amore-famiglia né l’amore-pornografia, ma non può aspirare neanche – l’ho già detto – a eliminarli o a rimpiazzarli. Si dirà: ben poca cosa, quest’amore, che non riesce a collocarsi con pari dignità accanto agli altri suoi simili, né ad imporsi a loro, se è migliore di loro. Confessiamo pure questa debolezza: il carattere umbratile, non pubblico, reticente, talvolta del tutto segreto, dell’amore astratto.
 Ma proprio questo è il punto: l’amore astratto è migliore di loro, perché non è loro… Questo è l’abisso che lo separa dalle altre forme di amore, le quali, invece, poiché tutte partecipano dell’universo della comunicazione, sono diverse fra loro, ma per l’appunto non incomunicabili, anzi hanno qualcosa in comune: tant’è vero che si sopportano tranquillamente a vicenda e che aspetti dell’una passano facilmente nell’altra (quanta pornografia nella vita segreta della coppia o della famiglia, e quanti sogni di normalità nella morale piccolo-borghese e filistea della moderna produzione pornografica). L’amore astratto, invece, non comunica con gli altri perché non ha, come loro ce li hanno, né scopo né uso: apparentemente non serve a nulla, e quindi non può essere usato. Tecnicamente parlando, è una macchina immaginaria per la produzione di alte energie, che possono essere soltanto consumate e disperse… L’amore astratto nasce al di fuori dei circuiti fondamentali della società moderna, perché non ha a che fare né con la produzione né con il consumo né con la ri-produzione né con l’informazione, né, perfino, con i bisogni comunemente intesi (intesi, dico, come espressioni di socialità). Serve solo a chi lo prova solo a confermargli che c’è. E’ eminentemente tautologico. 
V. Per quanto sia caratterizzato da un’altissima eccezionalità, tuttavia l’amore astratto è la forma di amore che più si avvicina a quell’indeterminato ma universale amore, che lega l’uomo alla propria specie e alla conservazione di essa. Questo amore universale raramente emerge in forma consapevole e si presenta come discorso, ragionamento, dialettica, tentativo di persuasione. Più spesso esso si presenta come il cemento puramente naturale, sub-esistenziale, dei rapporti sociali e degli avvenimenti storici, senza il quale né gli uni né gli altri sarebbero possibili: perché, senza un presupposto pre-sociale e pre-storico, la società e la storia non avrebbero su che fondarsi. Ebbene, anche questo amore universale è astratto come quello, individuale, di cui abbiamo precedentemente parlato: anch’esso, infatti, non ha motivazioni né scopo, e può essere usato solo nel senso del tutto indiretto e genericissimo (e tuttavia, come si può ben intendere, decisivo) che, ove esso non ci fosse, nulla ci sarebbe. Tornando a noi, dunque, si potrebbe dire che l’amore astratto insinua fra due individui il modo d’essere più vicino a quell’amore in base al quale la specie vive, anzi più esattamente, in base al quale la specie è. Questa è un’altra spiegazione possibile della sua straordinaria e sorprendente intensità.
VI. L’amore astratto, per sua natura, è il più indifferente alle distinzioni fra i sessi, e può manifestarsi perciò tanto fra un uomo e una donna quanto tra individui dello stesso sesso. Questa è una prova ulteriore della sua maggiore approssimazione all’universalità rispetto alle altre forme d’amore contemplate. Anzi, si potrebbe dire che, data la maggiore difficoltà che un amore fra due uomini o fra due donne sia storicizzato e socializzato, e comunque riconosciuto e accettato nel sistema delle relazioni vigenti, all’amore astratto sono in grado di arrivare più facilmente i rapporti omosessuali (che non sempre, peraltro, coincidono con i rapporti tra gli omosessuali). Si può anche dire, però, che fra un uomo e una donna, fra questi due esseri reciprocamente diversi, l’amore astratto ha più probabilità di raggiungere la dirompente intensità d’un rapporto che non sceglie, per manifestarsi, nessuna delle forme istituzionali possibili, ed anzi, miracolosamente, le nega tutte (coppia, famiglia, gruppo, pornografia, ecc.). E’ vero, peraltro, che nell’amore astratto la diversità non è decisiva: anche fra un uomo e una donna, infatti, esso presenta un carattere paradossalmente omosessuale. Poiché non ha né motivazione né scopo né uso, e si basa sulla pratica di un possesso totale e al tempo stesso reciproco (è ovvio che, se quest’ultima condizione non si pone, non si può parlare di amore astratto), esso si spoglia delle motivazioni istituzionali dei sessi, tende a un piano di parità e recupera tutt’intera la carica del sesso in quanto la fruisce del tutto indipendentemente dal rapporto storico-sociale, entro cui di solito le altre forme d’amore si collocano. Tutto il retroterra è cancellato, persino i due sessi tendono ad eguagliarsi. L’amore astratto, cioè, funziona da specchio, è uno specchio: permette ad ognuno dei due amanti di vedersi letteralmente nell’altro. Al limite – come nell’antico mito dell’androgino – ognuno non fa che amare sé nell’altro: ognuno si ama da , ma nella polarità dei due individui distinti, e destinati a restar tali.
VII. L’esperienza suprema dell’amore astratto è la reciproca auto-identificazione dei due esseri che vi partecipano, attraverso il piacere sessuale. Spogliato ormai di ogni attributo storico ed evenemenziale, questo non è, infatti, che il modo più alto di potenziare la propria identità in quella dell’altro – e viceversa. Amando sé in lui (o in lei), ciò che si viene a desiderare è che le differenze siano confermate e magari precisate solo perché risultano necessarie a potenziare l’elemento di unità, il cemento reale, che i due corpi si sforzano di realizzare: il fatto, ben visibile, che essi vorrebbero non separarsi più, vorrebbero continuare ad aderire fino alla loro completa consumazione e dissoluzione. Questo, per esempio, è un tipico fatto che non fa notizia: come notizia, infatti, è assolutamente banale. Ma se si prescinde da questa sostanziale possibilità, non solo il rapporto sessuale, ma qualsiasi altro rapporto tra esseri umani non sarebbe neanche pensabile.
VIII. La cosa più difficile da spiegare è perché l’amore astratto si manifesti proprio fra quei due individui determinati, e non fra altri. Facciamo, intanto, questa constatazione preliminare: l’amore astratto fa emergere senza ombra di dubbio un segmento di destino dal caso-caos, con il quale, sia pure confusamente, tutti i giorni facciamo i conti: il piacere altissimo, che l’amore astratto, anche attraverso il sesso,  consente, è in stretta relazione con l’affiorare di questa consapevolezza. Se questo è vero – e sul piano psicologico ed emotivo se ne può fare un’esperienza difficilmente confutabile – allora bisognerà arrivare alla conclusione (ahimè, quanto presuntuosa!) che all’amore astratto si perviene soltanto quando si verifica l’incontro di due identità superiori, nelle quali il processo di autoidentificazione e separazione rispetto a tutto il mondo circostante è già andato molto, molto avanti. La congiunzione sessuale, in queste condizioni, è la rappresentazione simbolico-biologica (un fatto biologico, che, potremmo dire, assume valenze concettuali-simboliche, o un simbolo fortemente incardinato nel linguaggio biologico), è la più efficace «sacra rappresentazione» di questa perdurante, ineliminabile tensione fra unità e diversità, fra sotto e sopra, fra pensiero e corpo: ha, insieme, tutta la forza del simbolo, e tutta la forza della biologia; spinge i cervelli oltre i confini dati dal sapere umano, senza, al tempo stesso, proporsi (né potrebbe farlo) come «nuovo modello». E’ supremo, unico, irripetibile e incomunicabile: è conoscenza, senza essere sapere (e tantomeno persuasione). E’ l’anticamera del nulla; ed è, al tempo stesso, il tutto.

da ALBERTO ASOR ROSA, L’ultimo paradosso, EINAUDI 1985, pp.155-161

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CAMMINARSI DENTRO (217): La grana della voce – Le mie letture

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Attraverso gli studi più recenti ho ricostruito la mia personale ‘bibliografia’ intorno alla Voce, un percorso forte, lungo almeno trent’anni.

JACQUES DERRIDA, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, EDIZIONI JACA BOOK 1968

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Sintesi della voce Voce dell’Enciclopedia Einaudi curata da Corrado Bologna – Volume 14°, pubblicato nel 1981, pp.1257-1292

La voce non può essere presa in considerazione soltanto come esito di un complesso meccanismo fonatorio (cfr. fonetica), quindi come un fenomeno fisico assai prossimo alla parola e alle funzioni e dispositivi della lingua (cfr. atti linguisticilingua/parola), che trovano un’espressione scritta oppure orale (cfr. orale/scritto). La voce, in quanto fa parte di una precisa dotazione biologica (cfr. cervellomente), riveste, nell’uomo, un significato insieme di ordine metafisico (cfr. metafisica) e antropologico (cfr. cultura/culturenatura/culturaanthropos, ma anche animale). Le ipotesi sulle origini del linguaggio, l’opposizione quasi costante nelle filosofie (cfr.filosofia/filosofie) occidentali fra voce e scrittura, i vari modi di pensare un “ordine degli esseri” (cfr. esistenza), le attività speculative, teoretiche ma pratico-strumentali agenti ai confini tra soma e psiche (cfr. soma/psiche), le teorie dell’espressione hanno da un lato toccato la materialità della voce, e dall’altro – o congiuntamente – fatto leva sul suo aspetto simbolico, metaforico (cfr. simbolometaforamythos/logos). Il testoe la sua organizzazione formale non esauriscono il ruolo della voce che è comunque sempre accordata a fattori che riguardano il ritmo interiore e che spesso rimangono prigionieri dell’implicito, del silenzio, dei meccanismi del discorso (cfr.dicibile/indicibileenunciazione). Fra ispirazione poetica e composizione musicale (cfr. cantomelodiasuono/rumore), fra teologia (cfr. dei) ed erotica (cfr. eros), fra ilpotere e la fascinazione della magia (cfr. divinazione) e il potere/autorità di chi giudica, assolve o condanna (cfr. censuracontrollo sociale), fra le esigenze rituali delcerimoniale (cfr. rito) e dell’etichetta e la produzione artistica di un soggetto che pretende anche di comunicare (cfr. comunicazione), la voce è strumento sempre preso fra ispirazione critica e propaganda, traccia e parte del corposegnodell’inconscio che preme e che talora è costretto alla follia/delirio di non essere ascoltato (cfr. ascoltointerpretazione). [I termini riportati in neretto sono altrettante voci a cui si rimanda]

Indice 
I. Metafisica della voce, pag.1257 
I.1. Voce, parola, linguaggio, pag.1257 
I.2. La voce del silenzio, pag.1259I.
I.3. La voce d’amore, pag.1261 
I.4. L’autorità della voce, pag.1263 
I.5. Il Nome impronunziabile, pag.1265 
I.6. La voce del corpo e le passioni dell’anima, pag.1267 
2. Antropologia della voce, pag. 1271 
2.1. Dalla metafisica all’antropologia. La voce che feconda, pag.1271 
2.2. La voce (in)naturale, pag.1276 
2.3. La voce da salotto, pag.1279 
2.4. La voce dal pulpito, pag.1282 
2.5. La voce malata; la voce che sana, pag.1284 
2.6. La voce della tecnica, pag.1286

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Il 15° volume dell’Enciclopedia Einaudi (1982), intitolato Sistematica, è suddiviso in Sistematica locale e Ricoprimenti tematici.

Voce compare nella Sistematica locale, alle pagine 449-457, assieme a Alfabeto, Ascolto, Gesto, Lettura, Luogo comune, Orale/scritto, Parola, Ritmo, Scrittura, ‘dentro’ il capitolo Orale/scritto, curato da Gian Paolo Caprettini.
Indice
1. Al di là e al di qua del linguaggio, pag.449
2. Le forme di trasmissione, pag.451
3. Teatro, poesia e oratoria: fra illusione e persuasione, pag.454

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Voce compare poi nei Ricoprimenti tematici, alle pagine 867-916, ‘dentro’ il capitolo I paradossi dell’esperienza, curato da Emilio Garroni.
Indice
1. Il paradosso del linguaggio, pag.867
2. Il paradosso della filosofia, pag.882
3. I paradossi della storia, del testo, dell’opera, pag.895

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MICHEL CHION, La voce nel cinema, PRATICHE EDITRICE 1991
 

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Phoné semantiké, il verri – rivista di letteratura diretta da luciano anceschi, marzo-giugno 1993 1-2
Sommario
IVAN FONAGY, Il significato dello stile vocale, pag.7
ROSSANA DALMONTE, Parole di musica e poesia, pag.31
FABRIZIO FRASNEDI, La voce e il senso, pag.45
NIVA LORENZINI, La voce nel testo poetico, pag.73
PAOLO CURCI – CIRO RUGGERINI, Innato ed acquisito nello sviluppo del linguaggio. Recenti teorie ed osservazioni cliniche, pag.89
GIANFRANCO DENES, Il contributo della neuropsicologia alla conoscenza del sistema semantico, pag.111
ANTONIO DI BENEDETTO, L’inconscio attraverso la musica e la vocalità, pag.129
GIULIANA MONTANARI – CESARE SECCHI, Le alterazioni espressive del timbro nel canto. Considerazioni su Traité complet de l’Art du Chant di Manuel Garcia (1847), pag.149
PAOLO BAGNI, Efficacia della parola, pag.163
LUCIO VETRI, La “poesia fonetico-sonora”, pag.183
ERMANNO COMUZIO, Voce/Volto. Problemi della vocalità nel dppiaggio cinematografico, pag.191
Rassegna
LUIGI ANOLLI e RITA CICERI, La voce nelle emozioni. Verso una semiosi della comunicazione vocale non-verbale delle emozioni (M.Baroni)

ADRIANA CAVARERO, A più  voci. Filosofia dell’espressione vocale, FELTRINELLI 2003 [dalla quarta di copertina: La voce non inganna. Le sue inflessioni, il suo timbro, perfino le sue pause e i suoi silenzi ci parlano del suo possessore, e ci permettono di riconoscerlo e conoscerne le intenzioni, cioe di riconoscere il senso di un discorso là dove la parola scritta deve arrestarsi al solo significato. A partire da qui è possibile rileggere la storia della voce come rovescio dei grandi temi che hanno attraversato la filosofia fin dalle sue origini. Figure femminili – dalle sirene alla ninfa Eco alle cantanti d’opera – disegnano una vicenda della vocalità che si contrappone al sistema logocentrico della parola, a un sistema cioè che astrae dalle differenze individuali per poter “teorizzare”, per poter “vedere”, come indica la radice greca del verbo. La voce, a differenza della vista che non richiede la presenza di un altro, è sempre relazionale. Cio che si scopre, dunque, tenendo in mano il filo d’Arianna della vocalità è una comunità in cui la parola sgorga da una pluralità di voci, uniche e relazionali, che “risuonano” l’una con l’altra. Si delinea così la possibilità di ricostruire un immaginario che nulla ha a che vedere con quello classico della filosofia. In grado, inoltre, di avere ricadute anche di natura politica in virtù delle prospettive nuove che una simile posizione contiene.][su Google Books] [le opere di Adriana Cavarero]

SILVIA BIFERALE e RITA TOTI, Il corpo della voce, la voce dell’ascolto

CARLO SERRA, La voce e il riferimento. Una discussione su A l’écoute di Jean-Luc Nancy

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VINCENZO CUOMO, La voce e gli scarti della trascendenza

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GIOVANNI ROTIROTI, Ascoltando la voce

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GIOVANNI ROTIROTI, A orecchie tese

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SILVIA MAGNANI e FRANCO FUSSI, Ascoltare la voce. Itinerario percettivo alla scoperta delle qualità della voce, FRANCO ANGELI 2008

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CAMMINARSI DENTRO (216): Leggere SILVIA MAGNANI e FRANCO FUSSI, Ascoltare la voce. Itinerario percettivo alla scoperta delle qualità della voce, FRANCO ANGELI 2008

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SILVIA MAGNANI e FRANCO FUSSI, Ascoltare la voce. Itinerario percettivo alla scoperta delle qualità della voce, FRANCO ANGELI 2008

In breve: Una valida proposta per l’istituzione di una semantica vocale. Attraverso un’attenta analisi del fenomeno percettivo, il testo getta le basi per la formalizzazione di un vocabolario condivisibile che può garantire la collaborazione tra chi cura la voce e quanti ne fanno oggetto di arte, di ricerca estetica ed espressiva o semplicemente strumento di lavoro.

Presentazione: Nonostante lo sviluppo delle metodiche di indagine strumentale sia ottica che acustica, la valutazione della voce, in senso clinico e in senso estetico, non può rinunciare al giudizio individuale fondato sul dato percettivo. La voce, prima ancora di poter essere giudicata sana o malata, è un evento che colpisce i sensi, genera emozioni, che, se fa nascere immagini che aiutano il clinico a porre la propria diagnosi, lo confrontano con la difficoltà di dare parole a ciò che è certo di avere udito ma per il quale non trova un’immediata collocazione nella terminologia scientifica.
La materia di cui è fatta la voce necessita dell’orecchio umano per essere valutata, salvo poi accorgersi che al linguaggio mancano le parole per esprimere ciò che la mente ha così bene e preventivamente compreso. È il destino di tutte le conoscenze simboliche. Immediatamente esplicite al soggetto, immesse nella fredda logica sequenziale del linguaggio, soffrono dei vincoli di questo e le parole si dimostrano contenitori inefficaci.
Questo libro costituisce una valida proposta per l’istituzione di una semantica vocale. Esso, attraverso un’attenta analisi del fenomeno percettivo, getta le basi per la formalizzazione di un vocabolario condivisibile che può garantire la collaborazione tra chi cura la voce e quanti ne fanno oggetto di arte, di ricerca estetica ed espressiva o semplicemente strumento di lavoro.

Il volume è corredato da un cd audio con esempi vocali.

Entrambi medici e specialisti in otorinolaringoiatria e in foniatria, Silvia Magnani e Franco Fussi da anni si occupano di vocalità, artistica in particolare. A un’intensa attività clinica e di docenza hanno sempre affiancato una passione per il fenomeno vocale che li ha condotti a uno studio continuo dei suoi aspetti artistici ed espressivi oltre che della sua patologia. Referenti nazionali per le problematiche inerenti la vocalità da più di venti anni lavorano in stretta collaborazione. Insieme hanno scritto L’arte vocale e Lo spartito logopedico. Silvia Magnani, in questa stessa collana, ha pubblicato il testo Curare la voce.

Indice:

Presentazione

Parte I. Conoscere la voce

L’universo percettivo (Sensazione e percezione; La percezione come esperienza del soggetto)

Primo incontro con la voce: il giudizio di normalità (L’euforia è sempre relativa; Valutare un evento irripetibile; Elementi di psicologia della percezione; La voce normale; La voce e la struttura acustica del linguaggio: normalità della voce come adeguatezza prosodica)

Conoscere la voce nel suo prodursi: iniziare a dare parole a ciò che udiamo (Dalla fisiologia alla interpretazione dei sintomi percettivi; Il mantice; L’adduzione cordale e il ciclo vibratorio; Il vocal tract e il sistema delle risonanze; Il vocal tract superiore e la fonoarticolazione)

Lo specifico della voce cantata (Quando la voce diventa canto; Conseguenze percettive di appoggio e sostegno del fiato; registri vocali; Il ruolo del vocal tract nella voce cantata; La percezione delle caratteristiche della voce in alcuni generi vocali moderni)

Per un’antropologia vocale (Qualche notizia sulle emozioni; Dal soffio alla voce; Sfinteri funzionali e sfinteri anatomici; La voce tra mentale e psichico; La forma della voce; Tutto avviene nel tempo)

Parte II. Terminologia percettiva della voce

Dare nome a ciò che si valuta (La scelta semantica; Parlare di voce; Di fronte al paziente; Le metodiche di analisi acustica del segnale come implemento della valutazione percettiva)

Valutazione della prosodia e della fonoarticolazione (Perché valutare inizialmente questi parametri; La prosodia; La fonoarticolazione)

Terminologia percettiva relativa alla situazione glottica (Caratteristiche laringee generali e sintomi percettivi; Generatore glottico; Andamento del ciclo vibratorio; Qualità dell’adduzione; Valutazione dell’attacco vocale; Valutazione della situazione glottica e correlati percettivi delle alterazioni di postura)

Terminologia percettiva relativa alla funzione risonanziale (Il vocal tract come cavità dinamica; Terminologia percettiva relativa all’atteggiamento generale del vocal tract; Terminologia percettiva relativa al contributo delle cavità rinofaringea e nasale; Terminologia percettiva relativa all’atteggiamento della cavità orale)

Terminologia applicabile alle patologie neurologiche (Difficoltà di attribuzione sindromica del sintomo vocale; La prosodia come luogo della espressività sintomatica per eccellenza; Sintomi percettivi e sede della lesione; Alterazioni della forza; Perdita di coordinazione; La presenza di movimenti ritmici; La presenza di movimenti atipici)

Parte III. Forme cliniche di disfonia

Disfonie organiche (Classificazione generale delle disfonie; Disfonie organiche primarie; Disfonie organiche secondarie a patologie di altri organi e apparati; Disfonie iatrogene)

Disfonie funzionali (Cosa si intende per disfonia funzionale; Disfonie funzionali proprie; Disfonie funzionali a esito organico)

Disfonie neurologiche (Difficoltà terminologiche e loro superamento; Inquadramento generale delle patologie per sede di lesione; Via finale comune; Vie piramidali; Forme miste; Sistema extrapiramidale; Patologie a movimenti ritmici; Patologie cerebrali)

Disfonie psicogene (Cosa si intende per disfonia psicogena; Come viene messa in atto una disfonia psicogena; Ascoltare il paziente e porre diagnosi differenziale; Una situazione particolare: la muta paradossa)

Disfonie nell’infanzia (Cenni di fisiologia evolutiva; Sintomi percettivi delle disfonie organiche; Sintomi percettivi delle disfonie funzionali; Altre ragioni di disfonia nel bambino)

Riflessioni conclusive

Atlante percettivo

I testi

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RIFUGIATI – Progetto Integra.Azione

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Rifugiati (Home Page) 

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Il testo del Progetto Integra.Azione – Rete per l’accoglienza diffusa di richiedenti e titolari di protezione internazionale e temporanea 

Il Contratto di accoglienza

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