RIFUGIATI: Leggere MARIA IMMACOLATA MACIOTI – ENRICO PUGLIESE, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, EDITORI LATERZA

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MARIA IMMACOLATA MACIOTI – ENRICO PUGLIESE, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, EDITORI LATERZA [Scheda dell’Editore]

IN BREVE – Più sicurezza, meno solidarietà. È in questa direzione che stanno andando le politiche italiane nei confronti degli immigrati, dei rifugiati e dei richiedenti asilo, con riflessi immediati sulla situazione e le prospettive dei migranti. In questo volume sono affrontate le tematiche fondamentali che investono un fenomeno complesso e in continuo mutamento: il mercato del lavoro, i flussi in relazione alle politiche di ingresso e controllo, i modi di vivere e gli usi religiosi, il rapporto con i paesi di origine, le politiche sociali e le maggiori difficoltà incontrate dalle donne immigrate.

INDICE – Premessa alla presente edizione – Introduzione – 1. Globalizzazione e nuove migrazioni internazionali – 2. Struttura ed evoluzione della popolazione immigrata in Italia – 3. Gli immigrati nel mercato del lavoro e nell’economia italiana – 4. La politica migratoria e le politiche sociali per gli immigrati – 5. Immigrazione al femminile – 6. Immigrati e religioni – 7. I rifugiati – 8. Narrazioni, comunicazioni e migrazioni – Note – Postfazione. Immigrati e rifugiati nel primo decennio del XXI secolo – Nota cronologica

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RIFUGIATI: Leggere ROBERTO BENEDUCE, Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, LATERZA 2010

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Le opere di Roberto Beneduce

Scheda dell’Editore – [dalla quarta di co- pertina] È possibile pensare ai richiedenti asilo, ai corpi occupa- ti dei palestinesi, ai profughi e ai clande- stini senza distogliere lo sguardo dalle diffe- renze e ricondurre le loro biografie al solo stato di ‘rifugiati’? Le matrici sociali e sto- riche della sofferenza, della memoria e del lutto possono essere pensate senza ridurre il dolore di queste donne e questi uomini entro il perimetro di un meccanismo psichico già scritto, di un solo concetto: ‘trauma’? Roberto Beneduce interroga modelli e categorie che, all’ombra della retorica umanitaria e del sapere psichiatrico, ignorano spesso differenze, responsabilità e ruoli e lasciano irrisolta la questione dell’impunità di chi si è reso colpevole di sofferenze e umiliazioni. L’antropologia e la clinica fanno qui dialogare gli enigmi dell’oblio e della memoria, del trauma e della cura sul terreno di una Storia contesa.

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INDICE:
Introduzione – Per un’antropologia del sottosuolo
1. «La questione»
2. Scienze della memoria ed «esorcismi moderni»
3. Edipo non abita la Storia
4. Testimoni e vittime fra narrazione, retoriche umanitarie e ripetizione
5. Le vertebre spezzate del tempo
6. Memorie smembrate e Corpi Occupati
7. Un Dio che aiuti a dimenticare?
Riferimenti bibliografici
Indice dei nomi

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CAMMINARSI DENTRO (214): Mai così vivo il pensiero di loro, i nostri eterni, vere presenze

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Giovedì 4 agosto 2011

Mentre una nostra giovane amica lotta per la vita in una stanza d’Ospedale a Roma, il pensiero va a Benedetto, che dall’8 giugno riposa nel Cimitero della città. I sentimenti che a lungo giacciono nel nostro cuore, magari dandoci l’impressione di sonnecchiare, perché rivolti a una persona lontana o a un’altra che forse ci sfuggiva, all’improvviso si risvegliano, rivelandosi per quello che sono: un forte sentire, spia di legami non superficiali e di pensieri che non ci hanno mai abbandonato.

C’è qualcosa che alcuni non sanno, soprattutto i più giovani, che si affacciano alla vita stupefatti: che sia possibile amare ancora una persona che non c’è più; che sia possibile pregare, senza avere un dio personale a cui rivolgersi, ma spinti dal bisogno profondo di farlo.

Oggi ci sentiamo così: campo del dolore e preghiera. D’altra parte, in un caso e nell’altro, non è un muto dialogo quello che intrecciamo con gli assenti, comunque convinti che esso debba continuare e che da esso dipenda addirittura il persistere nel tempo degli eterni a cui rivolgiamo il pensiero e la preghiera?

L’esperienza del dolore non è mai breve. Sento dire ogni tanto: questo è un periodo terribile. Stanno accadendo troppe cose tutte insieme. C’è chi vorrebbe un funerale all’anno. Non di più. Qualche rara malattia, senza conseguenze. C’è chi si stupisce che qualcuno si ammali e muoia e che qualcun altro inspiegabilmente vada incontro alla morte proprio quando sembra che la vita incominci a sorridergli… Più ragionevole l’insegnamento dei filosofi che dicono: l’uomo non è l’animale che muore perché si ammala; piuttosto, l’uomo è l’animale che si ammala perché deve morire.

La nostra esperienza del dolore è sempre dimentica di questa verità elementare. Allo stupore ottuso di chi non sa o crede di non sapere bisognerà sostituire un più umano sentire, che sia compreso della condizione che ci è propria. A una madre addolorata non diremo parole rassegnate né ostenteremo un sano realismo, che non si capisce bene cosa abbia di sano, posto che non è certo malato credere di essere eterni. Ma quando la stessa madre decidesse di approntare tutti i dispositivi necessari per far durare la memoria della persona cara, allora diventerebbe possibile ragionare degli assenti e con essi proseguire il cammino interrotto, nella sacralità del ricordo.

Probabilmente, non siamo pronti a riconoscere prima quello che ci ritroviamo a pensare e a sentire poi, che non si muore del tutto. Noi non vogliamo che cessi di esistere chi per lungo tempo giacque nel nostro cuore, presenza cara e silenziosa a volte, rumorosa e appassionata altre volte. Ma ciò che è veramente doloroso è sentir dire che bisogna disfarsi degli oggetti appartenuti a chi non c’è più, che non ha senso andare infinite volte al Cimitero, dove non ci sarebbe nessuno; che bisogna ‘elaborare’ il lutto, curarlo addirittura, come cosa che opprime l’anima impedendole di vivere. La vita continua! Bisogna pensare a chi resta. E via cianciando, con la chiacchiera mondana che conosciamo bene.

Io credo, invece, che bisogna lasciare che la ferita non cessi di sanguinare; che il ricordo resti sempre vivo, che sia anzi alimentato con tutti i dispositivi di cui disponiamo e approntandone anche di nuovi; che si continui a parlare con la persona cara, a parlare sempre di lei. Al presente. Solo così quello che giudicammo sacro al fondo del nostro cuore non cesserà di essere tale. Nel recinto dell’anima ci sarà posto per vere presenze. Se alla semplice-presenza dei viventi non crediamo, perché non ci accontentiamo del (solo) visibile, dove cercheremo e troveremo i nostri eterni se non là dove essi non cessano di esistere, perché all’ora che non ha sorelle non abbiamo lasciato l’ultima parola?  

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Ascolta Emanuele Severino sugli eterni,
dopo la pubblicazione del libro
Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia“.

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Vorrei dieci minuti del suo tempo

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Domenica 24 luglio 2011

CAMMINARSI DENTRO (213): «Vorrei dieci minuti del suo tempo», disse senza preamboli una voce di donna. Io sono piuttosto bravo a riconoscere le persone dalla voce. Quella lì però non l’avevo mai sentita.

Ho iniziato da pochi minuti la lettura del romanzo di Murakami Haruki L’uccello che girava le viti del mondo, edito nel 1997 in Giappone e nel 2007 in Italia. Un lettore lo ha descritto così: «un libro senza fine: non ha un inizio, non ha una fine, non ha neanche una trama nel senso classico del termine; è scrittura pura, invenzione pura, è la dimostrazione che la scrittura può essere una ossessione. Bellissimo. Implacabile. Come uno specchio che improvvisamente ti riveli che sei nudo. Che i tuoi sentimenti sono fasulli. Che le persone che ami e che ti amano sono in realtà ombre impalpabili di una realtà diversa». Naturalmente, curiosando con il motore di ricerca, per avere solo notizie sul titolo, mi sono imbattuto in questo giudizio. Non ho letto recensioni. Non lo faccio mai. Nemmeno dopo la lettura di un romanzo. Mi fido solo di Paolo e Luciana, due amici comaschi che sanno leggere. E di Renata.

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LA PRATICA LETTERARIA. INTERROGARSI ATTRAVERSO LA LETTURA SU SE STESSI E IL MONDO (4): JORGE LUIS BORGES, L’altra morte, da L’Aleph

da un post di Kolonistuga

L’altra morte (da L’Aleph) from Francesco Troccoli on Vimeo.

Pier Damiani

Marco Rossini, Il gaucho e la vergine. Borges, Pier Damiani e i passati contingenti

ALDO AMMENDOLA, Una proposta di lettura dei racconti di Jorge Luis Borges

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CAMMINARSI DENTRO (212): Nulla sappiamo

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Sabato 23 luglio 2011

Che dici? Se ti abbraccio forte
forte, ho qualche chance in più
di scampare alla morte?

Franco Marcoaldi

Non è forse così? non cerchiamo di opporre nel tempo della virilità alla Morte la Vita? Non accatastiamo ragioni su ragioni per riempire tutti gli spazi vuoti, perché non ci siano interstizi dai quali possa insinuarsi il vento freddo che annuncia il suo passo?

Non ci accade mai all’imbrunire di sentire minacciosa la tenebra, tanto da temere quel che accade alle nostre spalle? e non ci voltiamo a volte in preda al terrore, oppressi da angor al petto, come in un assedio a cui l’anima non sa opporre argini efficaci?

Ci manca qui una cultura della Morte, la possibilità di parlarne sempre e a tutte le età della vita. Non abbiamo forse il pensiero di quel che diremo ai bambini, il giorno della morte di un nonno? e quanto più ci opprimerà il compito di dover parlare della morte di uno zio giovane da essi lungamente amato!

Sappiamo che il nostro Irrappresentabile è l’ultimo tabù della nostra civiltà. Dovremmo saperne a sufficienza. Eppure, non abbiamo già un patrimonio di idee a cui attingere, immagini da evocare, simboli a noi comuni… Del morto sappiamo ‘tutto’. E’ lì, davanti a noi. Abbiamo fatto esperienza della morte di persone a noi care. Assistiamo quotidianamente allo spettacolo delle persone, che continuano a morire. Un po’ più difficile dire cosa sia la Morte, soprattutto la nostra morte. Solo di essa occorrerebbe parlare, ma è proprio questo che è impossibile fare: di essa non faremo mai esperienza. Perciò, Heidegger prima e Sartre poi la chiamarono l’Irrappresentabile.

Mi torna sempre alla mente il ricordo di un amico siciliano, che si ritrovava come me ad insegnare in Trentino tra il 1974 e il 1976. Egli mi raccontava i costumi di Catania, a proposito del 2 novembre e dei Morti. Mi diceva che quello è un giorno di festa per loro: coincide con la nostra Befana. I Morti portano i giocattoli ai bambini. Quando me ne parlò la prima volta stentai a comprendere. Ma subito familiarizzai con un’idea che mi sembrava dolcissima. Al tempo di un esame di sua sorella, corse giù a Catania per starle vicino. Quando tornò su a Rovereto, mi confessò che la sorella aveva superato brillantemente l’esame perché suo padre l’aveva aiutata. Il padre era morto qualche anno prima. Andò a Catania con questo compito, dire alla sorella che non doveva temere, ché il loro padre l’avrebbe protetta…

A noi, forse, qui manca questa cultura: l’idea che i nostri Morti sono presso di noi. In altra forma, sono con noi ancora. Noi, invece, temiamo la Morte. Proviamo autentico terrore al pensiero della separazione. Se questo ci sembra naturale e scontato, in realtà non è così, se pensiamo che non è così dappertutto. Il nostro compito è imparare a morire e imparare a pensare la caducità di tutte le cose, perché il momento in cui dovremo separarci da esse non costituisca un’esperienza catastrofica per noi.

Non siamo sempre costretti, poi, a costruire le nostre dighe, come il Castoro industre, perché la piena dei sentimenti non ci travolga, mettendoci di fronte all’Irreparabile ogni volta di nuovo, come se fosse la prima volta?

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ESPERIENZA DELLA MORTE

Nulla sappiamo di questo svanire
che non accade a noi. Non abbiamo ragioni
– ammirazione, odio oppure amore –
da mostrare alla morte la cui bocca una maschera

di tragico lamento stranamente sfigura.
Molte parti ha per noi ancora il mondo. Fino a quando
ci domandiamo se la nostra parte piaccia,
recita anche la morte, benché spiaccia.

Ma quando te ne andasti, un raggio di realtà
irruppe in questa scena per quel varco
che tu ti apristi: vero verde il verde,
il sole vero sole, vero il bosco.

Noi recitiamo ancora. Frasi apprese
con pena e con paura sillabando,
e qualche gesto; ma la tua esistenza,
a noi, al nostro copione sottratta,

ci assale a volte e su di noi scende come
un segno certo di quella realtà;
tanto che trascinati recitiamo
qualche istante la vita non pensando all’applauso.

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ELIZABETH KÜBLER-ROSS, La morte e il morire, CITTADELLA EDITRICE 1988 

  

ELIZABETH KÜBLER-ROSS ci ha insegnato a considerare le cinque fasi della elaborazione del lutto

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LA PRATICA LETTERARIA. INTERROGARSI ATTRAVERSO LA LETTURA SU SE STESSI E IL MONDO (3): MICHELA MURGIA, Accabadora

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Venerdì 22 luglio 2011

«Acabar» in spagnolo significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. E’ lei l’ultima madre.

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[la lettura di Tartarugosa]

Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava ha pensato di prenderla con sé, perché «le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge». E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l’aspettano, come imparare l’umiltà di accogliere sia la vita sia la morte. D’altra parte, «non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada». Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come «l’ultima». Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. «Tutt’a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill’e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia». Eppure c’è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c’è un’aura misteriosa che l’accompagna, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte. Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell’accabadora, l’ultima madre. La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico sull’orlo del precipizio, ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle. Sa come unire due solitudini, sa quali vincoli non si possono violare, sa dare una fine a chi la cerca. Michela Murgia, con una lingua scabra e poetica insieme, usa tutta la forza della letteratura per affrontare un tema così complesso senza semplificarlo. E trova le parole per interrogare il nostro mondo mentre racconta di quell’universo lontano e del suo equilibrio segreto e sostanziale, dove le domande avevano risposte chiare come le tessere di un abbecedario, l’alfabeto elementare di «quando gli oggetti e il loro nome erano misteri non ancora separati dalla violenza sottile dell’analisi logica». – Leggi un estratto del libro. – Michela Murgia. – Sito ufficiale.

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CAMMINARSI DENTRO (211): Il coraggio di restare

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Viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando; è crudele, incalza Canetti. Immorale è la vanità della fuga, ben nota a Orazio che ammoniva a non cercare di eludere i dolori e gli affanni spronando il cavallo, perché la nera angoscia, dice il suo verso, siede in groppa dietro il cavaliere che spera di farle perdere le proprie tracce. L’io forte, secondo il filosofo viennese presto stroncato dalla convivenza con l’assoluto, deve restare a casa, guardare in faccia angoscia e disperazione senza volerne essere distratto o stordito, non distogliere lo sguardo dalla realtà e dal combattimento; la metafisica è residente, non cerca evasioni né vacanze. Forse talora l’io resta a casa e a viaggiare è un suo sembiante, un simulacro simile a quello di Elena che, secondo una delle versioni del mito, aveva seguito Paride a Troia, mentre la vera Elena sarebbe rimasta, per tutti i lunghi anni della guerra, altrove, in Egitto. Weininger denunciava nel viaggio la tentazione dell’irresponsabilità; chi viaggia è spettatore, non è coinvolto a fondo nella realtà che attraversa, non è colpevole delle brutture, delle infamie e delle tragedie del paese in cui s’inoltra. Non ha fatto lui quelle leggi inique e non ha da rimproverarsi di non averle combattute; se il tetto di una notte crolla ed egli non ha proprio la disgrazia di restare sotto le macerie, non ha altro da fare che prendere la sua valigia e spostarsi un po’ più in là. In viaggio si sta bene perché, a parte qualche sciagura, terremoto o disastro aereo, non può veramente accaderci nulla; non si mette in gioco la propria vita. Il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza.

L’avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio. La casa non è un idillio; è lo spazio dell’esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’errore, alla sopraffazione e all’aridità, al naufragio. Per questo essa è il luogo centrale della vita, col suo bene e il suo male; il luogo della passione più forte, talora devastante – per la compagna e il compagno dei propri giorni, per i figli – e la passione coinvolge senza riguardi. Andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’intensità domestica, adagiarsi in piacevoli pause pantofolaie, lasciarsi andare passivamente – immoralmente, secondo Weininger – al fluire delle cose.

da CLAUDIO MAGRIS, L’infinito viaggiare, MONDADORI

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VITO TETI, Pietre di pane. Un’antropolo- gia del restare, QUODLIBET

«Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni». L’incipit di Tristi Tropici di Lévi-Strauss è forse la frase più celebre e più avvincente di tutta la letteratura antropologica. Nulla più dell’idea del «restare» potrebbe, quindi, apparire estraneo alla storia del sapere etnografico. Restare sembra l’antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, della disponibilità al disordine, alla scoperta, all’incontro. Ma davvero l’idea e la pratica del restare sono inconciliabili con l’esperienza antropologica? E, soprattutto, è possibile pensare un viaggiare separatamente dall’esperienza del restare, e davvero il restare va accostato all’immobilità, alla scelta di non incontrare l’alterità e di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio? Restare è difendere un appaesamento o esiste anche una maniera spaesante di restare che, a volte, può risultare più scioccante del viaggiare? L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della «restanza» – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, vanno colte e narrate insieme. Restare, allora, non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità; restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Senza enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo. Attraverso racconti, memorie, note di viaggio e riflessioni, che si fondono in un romanzo antropologico ambientato tra la Calabria e il Canada, Vito Teti ricostruisce la complessità della «restanza», senza nessun cedimento a un’estetica dell’immobilismo e con una sofferta interrogazione sul senso dell’erranza nell’epoca della modernizzazione globale.

A volte i sassi hanno forma di pane. Bisogna vederli, a una svolta di una strada biancheggiante, cumuli di sassi che sembrano pani. Sono i sassi dei torrenti, arrotondati e dorati. La prima idea è quella del pane. Poi della pietra. E la fantasia oscilla tra questi due estremi. Sono i mucchi dei sassi trasportati dal greto dei torrenti e ammucchiati per fabbricare la casa. – Corrado Alvaro, Pane e pietre

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CAMMINARSI DENTRO (210): A che cosa dobbiamo prepararci?

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Sabato 16 luglio 2011

Mentre l’Italia affronta la crisi finanziaria più grave della sua storia – sullo sfondo, il rischio di bancarotta addirittura degli Stati Uniti d’America! – con strumenti solo finanziari, senza che la gente tutta sia chiamata a partecipare a scelte che peseranno chissà per quanti anni ancora dopo di noi, non c’è da chiedersi a cosa andiamo incontro? a cosa dobbiamo prepararci?

Quando i ragazzi mi chiederanno per quale ragione io parli di sacrifici e di rinunce, potrò soltanto dire con altre parole le stesse cose, che occorre liberare energie vitali e riscattare il tempo perduto. In un tempo in cui i destini personali sono stati caricati per intero sulle spalle di chi ne sente di più il peso avrebbe senso indirizzare altrove lo sguardo, verso chi ha colonizzato le coscienze, se non siamo tutti interessati a guardare in quella direzione?

Abbiamo troppi esempi di esistenze che si sono consumate tutte nell’ostinato diniego e negli astratti furori per poter agevolmente distinguere tra progetto e destino: saremo sempre dentro l’oscillazione tra un ‘termine’ e l’altro. Il modello che seguiamo non prevede più che si attribuisca – anche solo in parte – al contesto, alla famiglia, alla società, al tempo storico la ‘responsabilità’ dei destini personali. Siamo soli.

I Servizi sociali si muovono nei labirinti dell’esistenza personale avendo come nemico proprio il tempo storico, le derive di un tempo che non sembra governato da nessuna forza razionale che autorizzi a pensare che le risorse della Terra, sempre meno sufficienti per tutti, non saranno dissipate e che non saranno perpetuati gli errori che hanno contribuito a portarci qui, in questo spazio stretto in cui da soli affrontiamo il compito dell’educazione dei ragazzi. 

L’educazione si interroga sempre sulle strade da indicare, soprattutto sulla direzione del cammino di crescita personale, sulle mete da raggiungere, sui fini da assegnare all’azione. C’è, per me, come uno scopo fisso dal quale non riesco a staccarmi: l’idea che attraverso sacrifici e rinunce soltanto sia possibile arricchire la propria personalità, imparando ad affrontare il mondo che cambia. Il compito più difficile: imparare a vivere la propria solitudine, coltivando lo spazio della coscienza necessario per poter dialogare con se stessi . E’ indispensabile dedicarsi ai più diversi esercizi spirituali , per riuscire a passare attraverso la cruna dell’ago che ci sarà messo davanti, ma, nello stesso tempo, imparare a riconoscere i progressi compiuti, confidando nei mezzi personali. Accettare gli atti di benevolenza che ci vengono dagli altri. Ricordare il bene ricevuto . Sentirsi parte di qualcosa di più grande, a partire dalle piccole cerchie che si creano con l’amicizia e la solidarietà. Riconoscere l’esistenza delle relazioni significative e provvedere alla manutenzione degli affetti . Inchinarsi di fronte alla vita così come ci viene incontro e ringraziare per le piccole cose. Perdonare e ringraziare .

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CAMMINARSI DENTRO (209): For fools rush in where angels fear to tread

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Venerdì 15 luglio 2011

For fools rush in where angels fear to tread. – Poiché gli sciocchi si gettano a capofitto là dove gli angeli non osano camminare. – Alexander Pope

E’ così. I nostri ragazzi a volte (io dico: a volte, perché ho esperienza da 22 anni di persone che ‘hanno appreso’; lo studioso Fabio Fagnani parla di una incapacità di apprendere propria di tutti i tossicomani; Claude Olievenstein sostiene che la difficoltà che essi incontrano è quella di darsi un’identità) non apprendono, non riescono ad approdare a un nuovo stile di vita.

Sono ‘sciocchi’, per dirla affettuosamente, perché non ‘vedono’ la porta aperta che hanno davanti. Indicarla ripetutamente, anche per anni, non è sufficiente: scopriamo ad ogni piè sospinto una difficoltà che ha dell’incredibile, a una considerazione ‘ingenua’ del loro comportamento. ‘Chiusi’ tra emozione e motivazione, si agitano senza muoversi, confondono sentimento e azione, attribuiscono all’esterno la ‘causa’ di tutto ciò che accade dentro di loro. Il linguaggio del cambiamento  – indicato da Watzlawick – non sempre è efficace, a meno che non si instauri un adeguato setting terapeutico. Al di fuori delle posture e dei contesti terapeutici, perché si dia vera ‘presa in carico’, in un Servizio sociale privato, occorre un lungo lavoro di motivazione. Il tempo, non importa se breve o lungo, riservato ai colloqui di motivazione, serve a incidere sulla struttura delle motivazioni della persona, per favorire la decisione di abbandonare gli stili di vita ‘controproducenti’ adottati. Continua a leggere

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CAMMINARSI DENTRO (208): Un confidente abbandono

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Venerdì 15 luglio 2011

Jennie McGrew

Non una figura incappucciata 
dove la scala curva nell’oscurità
rattrappita sotto un mantello fluttuante!
Non occhi gialli nella stanza di notte,
che fissano da una superficie di ragnatela grigia!
E non il battito d’ala di un condor,
quando il ruggito della vita inizia
come un suono mai udito prima!
Ma in un pomeriggio di sole,
in una strada di campagna,
dove erbacce viola fioriscono
lungo una staccionata sconnessa,
e il campo è stato spigolato, e l’aria è ferma,
vedere contro la luce del sole qualcosa di nero,
come una macchia con un bordo iridescente –
questo è il segnale per occhi di seconda vista…
e io vidi quello.

EDGAR LEE MASTERS

Occorre esercizio di vera umiltà per riuscire a cogliere l’evidenza che si mostra lungo il nastro discontinuo degli eventi. L’umile splendore della vita quotidiana è tutto nel suo apparire, e se il suo scomparire ci induce nella tentazione di far precipitare nel nulla la sua effimera bellezza per la nostra pretesa di assoluto, ‘dimenticare’ quella bellezza per l’incapacità di salvarne la necessaria caducità è proprio l’errore che commettiamo noi, gli umani.

Angustia della mente, apatia dei sensi, aridità del cuore, malinconia d’amore, fascino della dissolvenza cos’altro sono se non questa nostra incapacità di aprirci a nuove evidenze?

Se non impareremo a ringraziare per le piccole cose, come potremo affidarci ancora ad esse quando si sottrarranno alla vista, rendendoci scemi di memoria, se non avremo appreso il bene ricevuto?

L’arte più difficile è riuscire a tenere insieme presenza e assenza, a partire dalla capacità di cogliere nella mera presenza un modo di darsi della cosa che troverà compiutamente il suo senso nel successivo ritrarsi, nel suo modo di scomparire.

Ogni cosa è veramente illuminata dalla luce del passato, dei ricordi, della memoria. Se lasceremo precipitare nella dimenticanza l’apparizione di Noelle e della famiglia di cigni sul lago, che ne sarà di noi e dei nostri giorni? Riusciremo a comprendere perché il sole continua a sorgere per noi e perché le creature ci sorridono ancora, per il loro semplice apparire, se non sapremo andare oltre questo loro apparire, che non è mai semplice, perché ogni volta di nuovo si richiederà piuttosto la semplicità dello sguardo, il nitore di uno sguardo che salva le apparenze comprendendole tutte nel cerchio del loro apparire?

Fino a quando continueremo a sognare la «terra senza il male» non onoreremo la vita che è tutta buona e santa, a dispetto del fulmine e del tuono e di tutto ciò che si abbatte sulle nostre povere dimore, alla maniera di Eros, l’immensurabile, che mette scompiglio nel nostro cuore, impedendoci di vedere il lago e i cigni e Noelle e tutto il resto.

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PENSARE E SCRIVERE (10): Precious

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Martedì 12 luglio 2011

Da il blog del mestiere di scrivere di Luisa Carrada, Precious.

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CAMMINARSI DENTRO (207): Spudoratezza

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Martedì 12 luglio 2011

Se la passione non accende più il cuore delle ragazze – ERICA JONG, Maternità, mono- gamia e web. Alle ragazze il sesso piace meno, la Repubblica 11 luglio 2011 – L’autrice di Paura di volare sostiene che le nuove generazioni sono tornate ai comportamenti tradizionali. E spiega che la rinuncia alla libertà nei rapporti erotici significa ancora una volta cedere al potere del maschio.

COMMENTO – In tempi di spudo- ratezza, mi domando se tanto erotismo sbandierato non sia, in realtà, l’espressione più prosaica della miseria culturale dominante.
Il desiderio, come espressione pro- pria dell’individuo, può mai essere ‘omologato’, come vuol far credere la televisione? Quello che va in onda è solo noiosa ripetizione, come la pornografia. Iperrealismo. Dunque, la negazione dell’erotismo.
Se si considera, poi, che l’erotismo è solo un aspetto dell’amore, mi stupisce lo stupore della signora Jong. Anche noi, al tempo dell’Università, abbiamo letto “La rivoluzione sessuale” di Reich. Soprattutto, siamo stati colpiti da un’ingiunzione: nel corso della propria vita bisogna fare l’amore almeno 20.000 volte. Ci siamo messi a contare. Abbiamo anche intensificato l’attività. Alla fine, ci siamo arresi: abbiamo capito che non ce l’avremmo fatta mai. Ma, soprattutto, abbiamo capito quanto fosse stupido far coincidere con schemi e modelli una cosa privata, intima, personale, soggettiva, irriducibile a qualsiasi altra esperienza come l’esperienza sentimentale tra un maschio e una femmina.
La relazione affettiva è cosa che non tollera intrusioni né riduzioni di alcun genere. Almeno lì siamo liberi. Nessuno può suggerire cosa dobbiamo dire e cosa dobbiamo fare. Chi la pensa diversamente vada pure in televisione a vomitare (inutilmente) vissuti. Se pure stesse lì per ore e per giorni, non riuscirebbe a dire se non la propria spudoratezza. Nient’altro.

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CAMMINARSI DENTRO (206): «La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi»

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Domenica 10 luglio 2011

Venerdì sera ci siamo ritrovati in tanti a Sora, nel Parco Valente (una volta, Campo Boario), intorno a Ester e alla sua famiglia per ricordare Benedetto, a trenta giorni dalla sua morte. L’8 luglio sarebbe stato il giorno del suo trentunesimo compleanno.

 

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CAMMINARSI DENTRO (205): L’empowerment professionale

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Sabato 9 luglio 2011

Un elemento che caratterizza la condizione di tutti gli Educatori è dato dalla capacità personale di ‘proseguire’ nel lavoro avviato, senza aspettarsi troppe conferme e riconoscimenti per il lavoro svolto. Mi riferisco al sentimento, spesso inespresso, che accompagna tutte le fasi cruciali della carriera personale: ad ogni prova affrontata e superata con successo, ma anche a fronte di un impegno che si sia aggiunto ad altri impegni, come in seguito alla manifestazione esplicita di stima da parte di alunni e genitori, ci si aspetta che arrivino i veri riconoscimenti, quelli dei Colleghi e dei dirigenti scolastici. E se non arrivano, non si smette di attenderli. 

Non si tratta di insicurezza personale quando si ‘reclamino’ i necessari riconoscimenti: il bisogno è professionale, non ‘privato’. Dal momento, però, che nel tempo si sperimenta una solitudine che è senza rimedio, tanto vale capire prima possibile che non bisogna mettere nel conto nessun riconoscimento. Bisogna fare da soli.

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