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Sabato 3 novembre 2012
Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (437): Le intermittenze del cuore
Intermittenze del cuore
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Sabato 3 novembre 2012
Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (437): Le intermittenze del cuore
Acquisto e Povertà
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Giovedì 1° novembre 2012
CAMMINARSI DENTRO (434): Acquisto e Povertà
Il mito è quello platonico di Poros e Penia. Poros ebbro, venendo meno alla sua natura di figlio di Métis, si congiunge con la Sete senza fine di Penia, col non-essere del soddisfacimento illusorio ed effimero, con la privazione e la miseria che succedono ad ogni apparente appagamento. Eros nasce da questo obnubilamento della potenza e pienezza dell’Essere. Pandora è il frutto di questo deragliamento dell’Essere, la donna del desiderio per la quale, secondo Esiodo, entra nel mondo la morte.
MASSIMO CACCIARI, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, ADELPHI 1980, pag.171
L’amore preso sul serio non è un venticello primaverile, capriccioso e imprevedibile. Se c’è dell’imprevedibile, proviene dalla vita stessa, non dalla sua natura. Siamo noi gli imprevedibili. Sarebbe forse più corretto dire che siamo gli inesauribili. Stupisce sempre, infatti, l’atteggiamento di chi crede di sapere tutto del proprio partner, come se tutto fosse già stato detto e tutto dovesse ripetersi sempre uguale! In realtà, è la paura che detta la regola all’altro: “Non cambiare, non mostrare mai di te ciò che non mi sia già noto e familiare! Fa che io stia sempre bene. Donami la sicurezza di un amore caldo e accogliente, tenero e gentile! Non allontanarti troppo e non distinguerti troppo, fino al punto che io possa perderti di vista! Tieni a bada i tuoi demoni cattivi, perché io non abbia a soffrirne mai! Sii buono con me! …”
La piccola ansia che subito si impadronisce del soggetto amoroso di fronte all’oggetto d’amore ha la sua ragion d’essere nel fatto che l’altro non è oggetto ma, a sua volta, soggetto amoroso: vita attiva, lavoro, interessi, inclinazioni, modi di sentire, atteggiamenti che non coincidono quasi mai con quelli del partner.
Il grande equivoco che viene imbastito ai danni dell’amore si consuma fin dalle prime battute, quando si decida che siamo simili, che l’amore unisce, che può tutto, che quello che non ci piace cambierà o lo cambieremo! Una delle cose più orrende che abbia sentito risale a una performance di una moglie esperta della vita che ripeteva stizzita: “Sto insieme a quest’uomo da venti anni e in tutto questo tempo non sono riuscita a cambiarlo!”. Le resiste, si oppone, recalcitra. Eppure, lei possiede un’intuizione dell’amore che egli si ostina a non voler comprendere e fare propria. Il filosofo americano Davidson ha scritto un’opera che fin dal titolo è tutta un programma: Annullare la distanza uccide. E’ ‘distanza’ ogni differenza che ci divide, ci allontana, ci fa soffrire. Amore è questo: riconoscere come differenza la differenza e accettarla, cioè viverla come produttivo contatto e scambio. Oltre la guerra dei sessi, è vero amore accettare l’altro così come è. Fin dall’inizio. Senza farsi accecare dalla propria luce, dall’entusiasmo, dalla passione, dal sentimento che nasce. Amare è prendersi cura di un distante, di un lontano, nella ‘differenza in pace‘ che sola garantisce all’amore durata e certezza.
Insicurezza è la nostra insecuritas, è paura di perdere l’altro, perché dimentichi di noi, incapaci come siamo di accettare la nostra Povertà per cogliere dell’amore Acquisto, la dote che pure dobbiamo possedere per accostarci alla realtà dell’altro. Roland Barthes ha scritto severamente che senza cultura non è possibile nemmeno essere innamorati. Poros e Penia, Acquisto e Povertà. Se andiamo incontro all’amore ‘armati’ solo della nostra Povertà, cioè della mancanza da cui proveniamo tutti, rischiamo di mancare all’appuntamento, cioè di non incontrare veramente la realtà dell’altro, che sarà sempre un celarsi dietro le apparenze attraverso le quali pure si mostrerà e si donerà a noi. Acquisto è tutto ciò che viene a noi dall’altro, a cui dovremo dare il giusto significato, per non essere sempre e soltanto Povertà, cioè la marca di una mancanza.
Incertezza è scoprire la differenza e contemplarla come un irriducibile, perché vogliamo ridurre, assimilare l’altro a noi; perché vogliamo trasformare ciò che pure diciamo di amare.
Sicurezza è accettazione della realtà dell’altro. Così com’è. Questo è esattezza del sentire, maturità affettiva, capacità di rendersi felici. Crescita, trasformazione, cambiamento si danno dentro questo quadro ‘ordinato’. E’ il nostro ‘ordine del cuore‘ che rende possibile l’amore in tutte le sue forme.
2 novembre
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Mercoledì 31 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (433): 2 novembre
Il 2 novembre sarà una buona occasione per piangere i propri morti, ma è sperabile che ci siano lacrime a sufficienza per piangere tutti coloro che sono morti alla speranza di essere amati da noi o almeno considerati, rispettati, riconosciuti. Che dire poi di noi, morti nel cuore di chi ci aveva promesso lungo amore! ma forse no, ci eravamo solo illusi di aver sentito le parole più lunghe, quelle che durano più di una notte d’estate! Bisognerebbe istituire una Giornata della vita speciale, per ricordare gli amori mai nati, quelli delle lunghe attese e quelli che aspettiamo ancora.
Accanto all’immortalità dell’anima personale, bisognerebbe celebrare l’illusione eterna, la chimera che non ci abbandona mai e che risorge sempre, a popolare i nostri sogni ad occhi aperti di vani ragionamenti, inutili anticipazioni, rovinosi entusiasmi, racconti senza storia.
Bisognerebbe prevedere una particolare forma di assistenza per coloro che sono inclini a fantasticare troppo, a fondare scampoli di felicità su pochi sorrisi, magari abbracci ripetuti, emozionanti rendez-vous con la seduzione e l’incanto. Come se la vita fosse un’incantevole serata d’autunno, alle soglie di un inverno che non arriverà mai!
Invece è arrivato il gelido vento degli ostinati silenzi e degli scarti improvvisi, i rilanci ossessivi e i dinieghi. Sapevamo già dell’inverno del cuore. Abbiamo attraversato le nostre solitudini e costruito per noi un acconcio deserto che valesse come prova di inesausto amore. Abbiamo vissuto uno per uno tutti i nostri inverni, paghi di ogni più aspro rimprovero e rammarico, perché presi dalla nostra parte. L’abbiamo recitata tutta, di una sola cosa delusi, che non ci fosse riservato nemmeno un addio. La nostra colpa fu grande, tanto che non è mai stata nominata. Deve essere stata veramente grande, se ci apprestiamo a piangere noi la morte di chi non fu da noi amato come avrebbe voluto!
Trovare le parole
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Martedì 30 ottobre 2012
Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (432): Caduto fuori dal tempo
Non capisco qualcosa finché non la scrivo. – DAVID GROSSMAN
Io credo che trovare le parole sia per ogni uomo una delle condizioni della propria libertà. Dare voce ai sentimenti, poi, è compito essenziale per ‘salvarsi’: c’è un’altra via per fronteggiare il dolore conseguente a una perdita? Ogni persona dovrebbe essere aiutata veramente ad ‘elaborare il lutto’. Tuttavia, ho sempre sentito dire: “Ora deve elaborare il lutto”, come se ognuno di noi, lasciato solo, fosse in grado di farlo!
Della Morte ci siamo affrettati a dire, consumata tutta la vita – non abbiamo forse reso tutto ‘comune’, come direbbe Rilke? -, che è l’ultimo tabù! Per fortuna, l’Irrappresentabile per eccellenza non si lascia ridurre a mero concetto e assedia le nostre notti e agita con tutti i fantasmi con i quali cerchiamo di esorcizzarla le nostre ore!
Tra pochi giorni onoreremo i nostri morti – il Cimitero della mia città si trasformerà in un tappeto di fiori -, ma con quali parole? La “corrispondenza di amorosi sensi” dura nel nostro cuore? Ma soprattutto, che ne è di coloro dai quali abbiamo subito un abbandono? Dove sono tutti quelli che hanno finto di amarci o hanno solo creduto di poterlo fare? Con quali mezzi ci accingiamo sempre di nuovo ad attraversare il deserto delle nostre solitudini? Siamo disposti ad accettare la necessaria solitudine che contraddistingue ogni esistenza in quanto tale?
Questa mattina i giornali parlano di un bambino di dieci anni che si è impiccato. Troveremo le parole?
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La riflessione che precede è stata originata da un Commento alle parole di Grossman di una amica poetessa, Grazia Apisa Gloria :
Nella scrittura parla chi ci abita. L’anima pensiero nel suo dirsi spontaneo e la coscienza ragione ne prende atto nella riflessione: vede più nitidamente e in profondità ciò che in forma intuitiva già sapeva. Mi riconosco in questo dire di Grossman. I suoi libri sono come luce che illumina la zona d’ombra della vita.
Posso soltanto testimoniare che io sono stata salvata (all’età di dieci anni, non ancora compiuti) non dalle persone che avevo intorno, ma da uno scritto poetico di un autore di cui non ricordo neppure il nome.
Nella più cupa disperazione, già determinata a darmi la morte, alzai lo sguardo intorno ed aprii un libro, un’antologia di scuola di mia sorella maggiore, una poesia mi folgorò: esprimeva il mio vissuto di solitudine. Ricordo soltanto il pensiero che attraversò la mia mente: “Se esiste una persona che ha vissuto questo, io non sono sola, se lui ha vissuto anch’io devo vivere per aiutare chi vive questo senso di solitudine, anch’io scriverò per salvare qualcuno, senza ancora essere consapevole che chi riesce a dirsi salva per primo se stesso. Qui è nata la mia vocazione, anche se scrivevo già dall’età di 7 anni.
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Tutto comincia con un’immagine, un gesto, un movimento di misteriosa, evocativa potenza: un uomo si alza all’improvviso da tavola, prende commiato dalla moglie ed esce per andare “laggiù”.
Ha perso un figlio, anni prima, e “laggiù” è dove il mondo dei vivi confina con la terra dei morti.
Non sa dove sta andando, e soprattutto non sa cosa troverà. Lascia che siano le gambe a condurlo, per giorni e notti gira intorno alla sua città e a poco a poco si unisce a lui una variegata serie di personaggi che vivono lo stesso dramma e lo stesso dolore: il Duca signore di quelle terre, una riparatrice di reti da pesca, una levatrice, un ciabattino, un anziano insegnante che risolve problemi di matematica sui muri delle case. E l’uomo a cui è stato affidato l’incarico di scrivere le cronache cittadine. Ciascuno ha la propria storia, chi ha perso il figlio per una grave malattia, chi in un incidente, chi in guerra. Insieme a loro idealmente, visto che non può muoversi dalla sua stanza, c’è anche una strana figura di Centauro, con la parte inferiore del corpo che nel tempo si è trasformata in scrivania. È uno scrittore che da quindici anni vive circondato dagli oggetti del figlio che non c’è più, e il cui unico desiderio da allora è catturare quella morte con le parole. “Non riesco a capire qualcosa finché non la scrivo” dice. È lui a ispirare e a inglobare la storia che stiamo leggendo.
La marcia di quei genitori prosegue in giri sempre più ampi intorno alla città, monologando o dialogando ognuno di essi parla di sé, del desiderio di rivedere almeno una volta il proprio figlio, della vita che si è interrotta in quel tragico momento. E ognuno ha una sua voce, che Grossman in modo sublime trasforma nella voce della poesia, la lingua del dolore.
Arriveranno “laggiù”? Sì, ci arriveranno, fusi a quel punto in un coro di pura e profonda umanità. E noi con loro, in pagine di sconvolgente intensità e verità. Per capire, insieme a Centauro, che il cammino di questi uomini e donne esiliati nella terra del dolore è stato una “lotta contro la distruzione, la cancellazione, l’oblio”, il bisogno di dare un paesaggio a quella terra, la volontà di sottrarre la memoria alla tenebra per riconsegnarla alla vita.
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David Grossman è intervenuto ieri sera, 29 ottobre, nel programma Che tempo che fa, di Fabio Fazio, sul suo libro.
Una segreta tragedia
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Lunedì 22 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (431): Una segreta tragedia
«Sono sempre i nostri muri quelli contro cui urtiamo e su cui proiettiamo la nostra immagine del mondo, sia che cerchiamo di amplificare il nostro spazio, sia che vi accatastiamo i nostri beni.»
«Solo chi rimane completamente se stesso si presta alla lunga a venire amato, perché solo così, nella sua pienezza vitale, può simbolizzare per l’altro la vita, essere avvertito come una potenza di essa. Non vi è errore più grande nell’amore dell’adattarsi timorosamente l’uno all’altro e di uniformarsi a vicenda…».
«Un eterno rimanere estranei nell’eterna vicinanza è dunque il segno più pertinente e inalienabile di ogni amore in quanto tale: …non solo nel disprezzo o nell’amore non ricambiato, infatti, ma dappertutto, ovunque dove ci si ama, l’uno sfiora solo l’altro lasciandolo poi a se stesso. E’ sempre una stella irraggiungibile che noi amiamo, e ogni amore è sempre nella sua profonda essenza una segreta tragedia, ma proprio per il fatto di esserlo riesce ad avere effetti così potentemente produttivi».
LOU ANDREAS SALOME’, Riflessioni sull’amore (1900)
A proposito delle ragioni di un amore, se ci chiediamo perché proprio quella persona sia diventata ‘oggetto’ del nostro amore, siamo giunti ad una consapevolezza tragica: siamo divisi, in noi, tra le ragioni manifeste e quelle che ci sfuggono, tra chiarezza e oscurità.
Sulle ragioni manifeste è stato scritto per secoli. Possiamo dire di sapere per quante vie possiamo incamminarci. E’ stata descritta, con Il portiere di notte, perfino la ‘nazificazione’ dell’amore.
Meno noti sono i percorsi, gli infiniti percorsi possibili che abbiamo ricondotto alla nostra capacità di divinare da quel fondo enigmatico e buio di cui ci parla Platone. Tentare di costruirne una mappa è impresa impossibile, perché dovrebbe coincidere con la nostra capacità di invenzione, con la sfera della nostra libertà.
L’attività di cui parliamo è l’improvvisazione. Quante volte ci è capitato di stupirci di noi stessi, per aver detto (e fatto) cose che sembravano avere un soggetto diverso da noi? Possiamo parlare anche di spontaneità. All’opera è la fantasia, la facoltà inconscia della nostra anima che ‘produce’ ad occhi aperti discorsi e azioni. Diremo, allora, che ci sono i momenti in cui controlliamo le nostre azioni, che sono prodotti per lo più consapevoli del nostro sentire. Ci sono, poi, momenti di ‘abbandono’, di espressione di sé incontrollati: i nostri atti non sono veri atti, perché si tratta di manifestazioni impreviste della sensibilità contraddistinte da gestualità, mimica facciale, vocalità. Oltre il dominio del ‘verbale’ puro.
Siamo portati tutti a credere nell’amore per questa ragione, perché il sentimento si manifesta in forme imprevedibili e questo ci fa pensare che sia autentico il sentire di chi vi si abbandona, non essendovi controllo alcuno sui comportamenti e sugli atteggiamenti personali. Quanto più grande è questo abbandono, tanto più chiaro ci apparirà l’attaccamento che la persona realizza quotidianamente nei confronti delle persone che ama.
Tuttavia, la natura di questo attaccamento sarà influenzata dal modo di sentire e dalla sua intensità, dall’educazione sentimentale della persona e dalle convinzioni che accompagnano quel sentire.
La serietà delle intenzioni di una persona, allora, dovrà essere osservata nel tempo e così compresa, fino a nuova smentita da parte della realtà.
Di quest’ultima, forse, bisognerebbe parlare veramente. Il senso comune, e noi con esso, è portato a pensare la realtà come la pura oggettività, lo spazio dei dati di fatto che non sfuggono mai alla comprensione, tanto forte è la luce con cui ci si mostrano. Sembra che stiamo parlando di ciò di cui non sia possibile dubitare mai in alcun modo.
A me piace dire nel Centro di ascolto in cui lavoro che alla verità preferisco la realtà (c’è una madre che mi guarda con sospetto: mi ricorda periodicamente che sa bene che io non credo nella verità!, come se fossi un viandante che ha smarrito la strada): solo la realtà smentisce veramente le mie illusioni e falsifica le mie congetture, le supposizioni, ogni argomentare quotidiano su ciò che vi è, se non ci sia opportuna congruenza tra le parole e le cose. La conquista più grande è proprio nel riconoscere che la nozione di realtà è più ampia di quella di verità. È come se la realtà fosse più vera della stessa verità! C’è più verità nella contraddittorietà del reale che non nella fissità, nella rigidità di un fatto che pure sarà vero, perché è accaduto. Ce ne sono le tracce, le prove, le testimonianze. Tuttavia, la verità di un ‘piccolo’ fatto non può essere assunta nelle relazioni umane al rango di verità ultima. Se così fosse, se invocassimo quella ‘piccola’ verità come guida per l’azione, rischieremmo di farci guidare ora da questo ora da quel fatto, senza venire a capo di alcuna verità vera. Per questo, io preferisco dire che “la verità è il tono di un incontro”. Vladimir Jankélévitch chiama le-presque-rien, il-quasi-niente, quello che stringiamo tra le mani quando ci affanniamo ad inseguire le nostre verità quotidiane.
Inscritta nei registri del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario, la nostra esperienza non è la cosa di cui si appropria tanto facilmente il senso comune, per dire che ieri abbiamo fatto questo e quest’altro ancora, come se tutto ciò che è apparso si fosse mostrato nella sua evidenza incontrovertibile.
I tre super-concetti possono essere compresi solo se pensati in connessione l’uno con l’altro. Secondo Recalcati Reale, Simbolico e Immaginario “sono tre vettori, tre linee di forza. Abbiamo il vettore che va dal reale all’immaginario. Il reale coperto dall’immaginario dà il senso di realtà e la realtà è precisamente l’effetto di questo ricoprimento immaginario del reale. La castrazione rende possibile l’accesso alla realtà. La realtà non è il reale per Lacan. La realtà è il reale coperto dall’immaginario e dal simbolico. La freccia che va dall’Immaginario al Simbolico è la freccia del senso. La dimensione della verità implica il rapporto tra immaginario e simbolico. La verità si dà come simbolizzazione dell’immaginario. Ogni volta che accade la simbolizzazione dell’Immaginario c’è effetto di verità…”. Dobbiamo partire da qui per comprendere le vie che prende la nostra coscienza quando si abbandona all’esperienza amorosa. Per fare veramente i conti con la verità credo che costituisca una via obbligata fare i conti con la realtà.
Barlumi di anime
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Venerdì 19 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (430): Che noi si scriva, si parli o solo si sia visti
Che noi si scriva, si parli o solo si sia visti
rimaniamo evanescenti. E tutto il nostro essere
non può in parola o in volto giammai trasmutarsi.
L’anima nostra è da noi immensamente lontana:
per quanta forza si imprima in quei nostri pensieri,
mostrando le anime nostre con far da vetrinisti,
indicibili i nostri cuori pur sempre rimangono.
Per quanto di noi si mostri, continuiamo ignoti.
L’abisso tra le anime non può essere collegato
da un miraggio della vista o da un volo del pensiero.
Nel profondo di noi stessi restiamo ancora celati
quando al pensiero dell’essere nostro parliamo.
Siamo i sogni di noi stessi, barlumi di anime,
e l’un per l’altro resta il sogno dell’altrui sogno.FERNANDO PESSOA, Trentacinque sonetti, Passigli Poesia
Noi ci affanniamo ad uscire dall’anonimato, a dare voce al desiderio, a mostrare di noi le più intime erranze; tocchiamo i nostri corpi, afferriamo le mani, stringiamo le braccia, entriamo in profonda intimità. Eppure, dopo ogni sguardo, dopo ogni bacio e abbraccio, dopo la spossatezza dei sensi, stringiamo tra le mani forme evanescenti, ombre di ombre, nient’altro possediamo saldamente. Una più forte presa basterebbe in ultimo a restituirci una chiara visione e il chiaro significato delle cose?
Ma se questo svanire è il proprio di ogni cosa, se non ci fosse dato altro, se non sospirare l’amata, perché affannarsi a cercare ancora lo sguardo e il bacio e l’abbraccio, quando non ci fu mai uno svanire veramente? Le cose amano nascondersi alla vista. E allora, ciò che pure si eclissa risorgerà per noi sotto altra forma, incanto di una voce e di un vasto incedere, ansito breve e spasmo incontrollato. Un invisibile e un indecidibile si donano perplessi alla creatura in ascolto. Non sappiamo quando torneremo a sentire il canto di donna che ascolta sé stupefatta esistere.
Il nostro tragediare quotidiano
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Venerdì 19 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (429): Il nostro tragediare quotidiano
Il terrore degli dèi è tragediato ed esagerato nella vita privata dei Romani e in quella pubblica sino al massimo; […] ne segue che la plebe viene tenuta a freno con oscuri terrori e con tale tragedia (POLIBIO). Un’ansia tragica, dunque, che si vive giorno per giorno, nel rito più che nel mito, nella quotidiana superstizione più ancora che nella rievocazione storico-drammatica delle “preteste” di Nevio, Ennio, Accio, Pacuvio. C’è appena bisogno di dire che nelle parole di Polibio le espressioni “tragedia” e “tragediare” hanno valore puramente negativo e di dispregio, come a indicare un’angoscia irrazionale e assurda; esse sono scritte nel segno di una pragmatica avversione per il tragico, a cui si ispira anche la polemica di Polibio contro gli storici “tragici”. Tuttavia, lo spostamento del tragico dal mondo mitico a quello rituale della religio è caratteristico dei Romani: un tratto che noi moderni possiamo mettere in rilievo, svolgendo in questo senso le osservazioni di Polibio su quello che si chiamerebbe il “tragico quotidiano” della religio italica. – SANTO MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II,1, EDITORI LATERZA 1966: pp.59-60
La prima volta che ne ho sentito parlare è stato nel 1968, durante l’anno accademico 1967-1968, il mio primo anno del Corso di Filosofia alla Sapienza di Roma. Ero curvo su Il pensiero storico classico di Santo Mazzarino, Maestro di Storia romana. Non capivo bene la portata della sua riflessione sul ‘tragico’.
Dopo aver ‘letto’ in tutto questo tempo i tragici greci e poi i moderni, la riflessione dei filosofi e dei critici letterari sull’essenza del tragico, ho continuato ad interrogarmi su quel ‘tragediare quotidiano’ che ancora oggi mi affascina, perché credo di averne colto qualche aspetto essenziale.
Se il cuore della tragedia, il suo acmè, è dato dalle opposte volontà divine che confliggono nella coscienza dell’eroe protagonista, e se l’esito del drãn, cioè dell’agire tragico, è sempre lo stesso, possiamo concentrare la nostra attenzione su un ‘momento’ che ancora appartiene anche a noi. Mi riferisco al tempo che precede la scelta, che vede l’eroe sempre diviso, nella condizione di chi comunque ‘sbaglierà’, qualunque cosa scelga.
In questione, tuttavia, non è lo statuto del tragico. Il sapere tragico, piuttosto, è ciò che ci preme mettere a fuoco, cioè la possibilità di arrivare a qualche conoscenza attraverso il conflitto drammatico che questa forma esprime.
Diventa più chiaro quello che chiameremo ‘tragediare quotidiano’, il nostro tragediare quotidiano, se pensiamo alle grandi scelte che abbiamo affrontato, quando, ad esempio, abbiamo dovuto definire i modi del legiferare in materia di aborto. Di una scelta tragica si è trattato, perché eravamo tutti divisi tra il non legiferare – per non ‘riconoscere’ la realtà dell’aborto -, cosa che avrebbe comportato il perpetuarsi delle pratiche clandestine, che tanto hanno nociuto alla salute delle donne e alla loro stabilità psicologica, e il legiferare, che avrebbe tutelato la salute delle donne in strutture sanitarie pubbliche, ma sarebbe stato la sanzione della liceità dell’aborto.
Potremmo dire, in breve, che ritrovarsi di fronte alla scelta e non poter scegliere, esitare di fronte alla scelta è il tragediare, cioè vivere la condizione tragica di scissione interiore tra due ragioni tra le quali è necessario scegliere.
Immaginate ora una madre a cui sia morto un figlio per droga. Immaginate ancora che questa madre, in virtù della sua profonda religiosità, senta la presenza di questo figlio fino al punto di vivere ancora, dopo quasi due anni, con lui ogni giorno; che parli di lui ogni giorno; che faccia ruotare gran parte della sua vita ora intorno al compito della memoria.
Da una parte, è operante il ricordo doloroso di ciò che il figlio effettivamente è stato; dall’altra, l’onda dei ricordi le riporta un cumulo di memorie tutte positive: la gioiosità, la vitalità, la sensibilità, la creatività di quel figlio.
C’è chi non comprende il lavoro della memoria che lei sta compiendo, per salvare dall’oblio in cui inevitabilmente precipiterà tutto ciò che di buono pure suo figlio è stato: c’è chi vorrebbe che lei tacesse, che smettesse addirittura di andare al cimitero, che si sbarazzasse degli oggetti e di tutte le cose che testimoniano il suo passaggio sulla terra! E tutto questo in nome della verità, di una sola verità, della verità di ciò che lui è stato nella seconda parte della sua vita.
C’è chi crede, invece, che lei faccia bene a proseguire nell’opera strenua di difesa dalle ingiurie del tempo della parte della vita di suo figlio che lo vedeva felice e inconsapevole del destino che lo attendeva.
Io chiamo ‘tragediare quotidiano’ la condizione di questa madre che sicuramente custodisce in sé il ricordo di quelle due verità, a cui dovrebbe forse rendere omaggio laicamente, senza farne cadere nessuna. Veramente difficile, però, per una madre contemplare il lato oscuro di quella esistenza spezzata, considerandolo alla stregua di tutto quello che fu luce nella vita di suo figlio!
Mentre rivive le cose buone sarà sicuramente lacerata dall’insidia perenne delle cose cattive che pure furono e che vengono in qualche modo ricordate dallo spettacolo della vita di coloro che conobbero suo figlio.
Un esercizio spirituale in più potrebbe essere anche questo: individuare e fissare le situazioni in cui ci ritroviamo a vivere noi e coloro che ci circondano, riservando un’attenzione particolare a tutte quelle in cui due ragioni si combattono in noi, lacerando la nostra coscienza.
Il nostro tragediare quotidiano è fatto di tutti gli affanni che provengono da situazioni esterne a noi ma che ci vedono in qualche modo coinvolti, con la profondità delle questioni religiose e ‘mitiche’ o con la profondità dei garbugli del nostro cuore. Questi ultimi non traggono origine da numina, come chiamavano i Romani la volontà degli dei, o da timai, come chiamavano i Greci i contrastanti discorsi degli stessi dei.
Nella foresta dei simboli di cui è intessuta l’esperienza, spesso ci si para davanti la necessità della scelta. Talvolta, non siamo noi con la nostra coscienza di fronte al compito a dover scegliere: la nostra coscienza diventa campo di battaglia per compiti a cui non riusciamo a sottrarci; il tempo della scelta non è il tempo della decisione immediata.
Lo strascico della contesa si porta con sé una parte importante delle nostre energie, fino alla consumazione di quel tempo tragico, fino alla risoluzione del conflitto.
Oltre ogni radicale dissidio, si accampa sulla scena la coscienza ‘pacificata’: siamo pronti per un altro inciampo, per un altro impedimento, per i malintesi e le incomprensioni che ci aspettano. Per i torti e i soprusi, i dinieghi e le menzogne. Di essi è fatta la nostra vita.
Sigur Rós – Varúð (Valtari Mystery Film Competition) from Kris Sundberg on Vimeo.
Usatelo senza pietà!
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Mercoledì 17 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (428): Usatelo senza pietà!
Godetevi il silenzio. Usatelo senza pietà. È l’arma più potente che avete, più crudele di qualsiasi parola. [dalla Bacheca di un Amico su un social network]
Sono sempre stato estraneo e ostile a questa ‘logica’ morale. Mio nonno era solito dire una cosa che da ragazzo mi faceva orrore sentire: “Le bestie si umiliano con il silenzio”. Non capivo di quali bestie parlasse, a quale ferocia si riferisse e perché, poi, si dovesse usare un’arma così poco cristiana. Avendo imparato a conoscere la viltà, la stupidità, la malvagità, mi sono convinto del fatto che a nulla vale l’arma dell’amore contro il Male. Restare disarmati e indifesi, di fronte al Male, è stupido e sbagliato. Dalle armi della critica bisogna passare alla critica delle armi, come diceva il vecchio Karl Marx. Non potendo passare – per ora! – alle vie di fatto con gente che persiste nel fare del male, bisogna usare tutti i mezzi per mettere i sotto-uomini in condizione di non nuocere. Più di tutte le armi rumorose, tuttavia, non ce n’è nessuna più crudele del silenzio.
Dopo essere stati oppressi per anni e anni dalla politica del silenzio, in ambienti in cui non ci saremmo aspettati mai di doverla conoscere, bisogna punire i quaquaraquà con il silenzio. Non bisogna rispondere alle loro telefonate. Non bisogna rispondere alle loro lettere. Bisogna evitare ogni occasione di incontro con loro. Ai sedicenti cristiani bisogna rispondere con la morale precristiana – che bisogna riservare solo a loro! – dell’ “occhio per occhio, dente per dente”. Ai farisei e ai sepolcri imbiancati bisogna riservare la loro morale di atei.
Un’altra rinuncia
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Martedì 16 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (427): Un’altra rinuncia
I sentimenti che accompagnano lo strascico degli addii non sono improntati tutti a rabbia e illusione. Il nostro tragediare quotidiano è consapevolezza raggiunta dello scarto incolmabile, dell’assoluta impossibilità di comunicare in modo significativo. I litigi interminabili sono sempre la riprova del fatto che non c’è più volontà di incontro da una parte, perchè non c’è (più) disponibilità alcuna dall’altra.
Dopo l’interminabile oscillare tra accettazione e rifiuto, non si cerca un’aurea medietà ma un dignitoso consistere ricercato tra le varie forme dell’eccitazione e del distacco controllato. Dopo aver provato vari modi di essere, si tenta con ironia e scetticismo, assenso formale e diniego studiato. Ma ancora non basta! Troppo forti ancora sono i toni della risposta.
Oggi ho provato un’emozione nuova. Sopra il ‘carico’ di sempre – lo strascico dell’addio mai veramente ‘dichiarato’ – lunghi momenti trascorsi insieme da soli. Al suo imbarazzo, che forse temeva che potessi avvicinarmi o esprimere una richiesta, è seguito un sereno fair play da parte mia, che ho parlato con garrula letizia delle cose più futili e amene, come se nulla potesse intervenire a turbare quella serena distanza. Mi sono comportato con lei come mi comporto solitamente con le donne con le quali non ci sia grande familiarità, cioè con spassionata franchezza e rispetto. La timidezza continua sempre a fare la sua parte di compagna fedele che provvede prontamente a stabilire una distanza. Altre volte ero riuscito a dimostrare a me stesso che sono in grado di stare da solo con una donna senza sentirmi in dovere di corteggiarla. Oggi, però, era diverso. Ho pensato che non darò più voce al desiderio con lei, anche per non sentirmi dire ancora un cortese no, mascherato con i pretesti più stupidi e inverosimili. Mi è piaciuto pensare che di serena rinuncia si trattava. Un’autentica rinuncia. Sarà affar suo, ora, procedere oppure no.
Io e l’altro
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Venerdì 12 ottobre 2012
Contributi alla cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (426): ZYGMUNT BAUMAN, Io e l’altro
Sempre in ascolto
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Giovedì 11 ottobre 2012
UNA GIORNATA AL CENTRO DI ASCOLTO (0): La creatura è in ascolto (Massimo Cacciari)
All’ascolto come atto intenzionale di audizione (ascoltare significa voler sentire, in modo pienamente cosciente), attualmente si riconosce il potere, quasi la funzione, di esplorare terreni sconosciuti: nel campo dell’ascolto è incluso non solo l’inconscio, nel senso topico del termine, ma anche, se così si può dire, le sue forme laiche: l’implicito, l’indiretto, il supplementare, il differito. L’ascolto si apre a tutte le forme di polisemia, di sovradeterminazione, di sovrapposizione, disgregando la Legge che prescrive l’ascolto diretto, univoco. L’ascolto è stato, per definizione, applicato; oggi gli si chiede, piuttosto, di lasciar manifestare.
ROLAND BARTHES
Non solo e non tanto il resoconto fedele di un’intera giornata mi preme fare qui, quanto piuttosto riferire il senso di un Colloquio, la natura stessa dei Colloqui di motivazione, la suggestione di un frammento di senso rinvenuto nel disordine che contraddistingue l’esistenza spezzata, per far emergere progressivamente il significato e il valore di un’esperienza intersoggettiva.
Ascolto, Colloquio, Colloquio di motivazione, Esistenza (leggere anche 1, 2, 3), Intersoggettività (leggere anche 1, 2, 3) andranno ridefiniti qui, alla luce delle nuove conoscenze personali, che illuminano ad ogni passo il lavoro educativo in un Centro di ascolto. Negli anni dedicati all’ascolto il valore delle parole si è chiarito e fissato sempre più per me.
Chiamo esistenza spezzata non solo la condizione tossicomanica, che costituisce l’oggetto precipuo delle ‘giornate’ di cui parlerò, ma anche il danno, il disagio grave che talvolta colpisce chi è parte dei relativi sistemi di riferimento in cui le persone sono immerse.
‘Sempre in ascolto’ non significa ‘una vocazione all’ascolto’, una scelta di vita, una missione… Vengono in nostro aiuto le parole di Cacciari, che definisce addirittura la nostra condizione creaturale come segnata da un’attitudine, un atteggiamento fondamentale, che è propriamente l’apertura alle ragioni dell’altro.
Bertrand Russell ha definito la felicità come un “adeguare il ritmo dell’esistenza individuale al ritmo dell’esistenza universale”. Non l’esistenza collettiva, non l’immaginario di un’intera società o di un’epoca, della propria epoca… Piuttosto, l’esistenza universale, ciò che di universale c’è in ogni esistenza umana. L’esistenza in universale, quando essa esprime la sua natura, ciò che le è più proprio. Diremo, allora: “la creatura è in ascolto”, cioè “la creatura esiste, si mostra, dà a vedere la sua natura profonda quando si dispone all’ascolto”. Io trovo in questa apertura un motivo di felicità.
Noi siamo gli ‘ascoltanti’.
“Noi siamo un colloquio” (Eugenio Borgna).
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La nostra esperienza educativa si riassume nella pratica dell’ascolto, nella relazione d’aiuto, nella costruzione di reti solidali con le famiglie dei ragazzi che si rivolgono al Centro in cerca di aiuto, nella costruzione di reti sociali con gli altri Enti e con le Professioni d’aiuto operanti nel territorio.
Sigur Rós – Varúð (Valtari Mystery Film Competition) from Diogo Louro on Vimeo.
Rabbia illusione desiderio
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Martedì 9 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (425): Rabbia illusione desiderio
Nelle relazioni sentimentali avviate sulla strada del tramonto l’incidenza di illusione, rabbia e desiderio è di varia intensità e peso. Siamo abituati a considerare ora l’una ora l’altra emozione, più interessante volgere lo sguardo ad esse, appuntando l’attenzione su una in particolare, per vedere cosa accade quando nello stesso tempo sia operante un’altra delle due rimanenti. Sicuramente, il desiderio si fa ostinato nelle sue richieste ossessive, come se fosse dovuto un abbraccio o una più completa ‘seduta’ d’amore tutte le volte che ci sembra ragionevole abbracciare, toccare, penetrare…! Nelle cose d’amore una verifica severa sulle aporie del desiderio è data proprio dai riscontri negativi di cui si fa esperienza.
La potenza dell’illusione sostiene sempre il desiderio. I ripetuti dinieghi, ad ogni nuova richiesta, saranno ‘oscurati’ da più benevole interpretazioni di ciò che non viene riguardato senz’altro come diniego. Ogni schiaffo in faccia si fa massaggio, addirittura carezza! Vediamo solo quello che vogliamo vedere. È un po’ come quando si chiede perché continui a stare con il partner alla moglie di un alcolista a cui sia stato spezzato un braccio dal coniuge abusante. Lei risponderà press’a poco così: “Pasquale è buono, quando non beve”. Anche noi saremo portati a ‘ricordare’ soltanto il bene ricevuto, che sarà esercizio corretto tutte le volte che ci troveremo a sperimentare lunghe file di continuità, ma che sarà utile volgere nel suo contrario tutte le volte che ci ritroveremo davanti alla porta chiusa.
Una buona responsabilità nel nostro vacuo errare risiede nella convinzione che il desiderio sia la radice dell’amore, che abbia addirittura una sua autonomia. Un tempo ero convinto che fosse un primum assoluto, che non ci fosse prova più grande del fatto di nominare il desiderio di fronte alla propria donna: cosa poteva costituire prova più grande del fatto di desiderarla? Che dire poi della rabbia, che interviene puntualmente a sostenere ogni ‘mossa’ del desiderio, nel vano tentativo di spezzare incomprensibili resistenze? Solo l’alternanza con l’illusione – che possa cadere la resistenza con blandizie e complimenti – contribuisce ad attenuare la rabbia fino a depotenziarla.
In ogni caso, le emozioni si fanno distruttive quando non si riesca a vedere, ad accettare il nuovo che avanza. Ma ciò che c’è da vedere non ci si mostra sempre nella sua palmare evidenza! Occorrono occhi di seconda vista per dare un nome a ciò che pure ci accade di ‘vedere’. Se “Amore non è cieco, anzi insegna a vedere”, diremo qui che non ci conduce solo alla corretta visione del bene che riceviamo: nel tempo della miseria, ci sostiene nella contesa di sapienza: ci dice quando è tempo di tornare a casa, quando il nostro tempo è scaduto!
Un elogio del silenzio
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Martedì 9 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (424): Un elogio del silenzio
Anche la rabbia ne esce ridefinita. Nella sua forma più rozza e primitiva non è altro che ‘risposta’ alle mancate risposte, ostinazione contro il silenzio. Quest’ultimo, nelle relazioni umane, non è altro che viltà o misconoscimento efficace della verità che l’altro non ha niente da dirci. Allora, la rabbia non sarà rivolta all’altro e al suo silenzio, ma si farà astratto furore, che durerà fino a quando la verità ben rotonda non si accamperà sulla scena e noi ci sentiremo pacificati, se saremo capaci di riconoscere che di un addio si è trattato.
Quanto lungo dovrà essere il silenzio del cuore, prima di arrivare ad ammettere che di questo si tratta? che altro non ‘arriva’ fino a noi, se non duro silenzio? Non la durezza del cuore dell’altro o altre bizzarre invenzioni della mente aiuteranno a vedere giustamente. Il nostro significato è estinto.
Gli addii possono essere bruschi oppure no. Quando non sono bruschi, essi hanno la caratteristica che stiamo cercando di descrivere da tutti i lati. Si risolvono semplicemente nel silenzio. L’altro attende l’illuminazione che ci faccia finalmente vedere ciò che pure è già evidente.
Perché poi bisognerebbe preferire un brusco addio, quando comunque seguirà il silenzio e l’attesa dell’illuminazione che ci faccia vedere ciò che pure è già evidente?
Trovare le parole
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Martedì 9 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (423): Non avete niente da dirmi
È importante trovare le parole, per riuscire finalmente a dire la cosa, quello che si agita dall’altra parte. O meglio, quello che si tace dall’altra parte. Insomma, del significato del silenzio abbiamo detto (quasi) tutto! Mancava da dire, forse, l’ultima possibilità, quella che da tempo immemorabile era sotto i nostri occhi, ma che non riuscivamo a vedere, perché troppo evidente, tanto che ci accecava: voi non avete niente da dirmi. Delle verità luminose, questa è la più luminosa. Tutte le volte che qualcuno ha qualcosa da dire lo dice: potrà tacere una speranza segreta, ma si leggerà nei suoi occhi e nel volto e negli atti quello che ‘nasconde’; se, più probabilmente, né dagli occhi, né dal volto, né dagli atti trasparirà alcunché, possiamo tranquillamente concludere che quella persona non ha niente da dirci.
Non sarà più difficile pensare questa ‘indifferenza’ o questa viltà, perché ha un nome: il nostro estinto significato. Una vanificazione, come direbbe il poeta Zanzotto. Quello che poteva tradursi in un incontro, in una relazione umana non è mai nato. Oppure, è venuto meno.
Ieri, 8 novembre 2012, sono riuscito a dire finalmente a lei, assimilandola alla schiera di cui è parte: voi non avete (più) niente da dirmi. A me queste parole sembrano bellissime, perché mi permettono di vedere chiaro quello che non riuscivo a vedere, a causa del potere distruttivo dell’illusione che, assieme alle altre due emozioni distruttive maggiori – la rabbia e il desiderio -, mi inducevano a persistere nell’errore: chiedere ancora e aspettare.
Il circo della farfalla
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Lunedì 8 ottobre 2012
CAMMINARSI DENTRO (422): Il circo della farfalla