Altre voci

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Lunedì 8 ottobre 2012

CAMMINARSI DENTRO (421): Altre voci

‎Riguardo ai bambini e alla loro psicologia, voglio che ci togliamo i paraocchi dell’abitudine. Voglio che riusciamo a vedere come ciò che fanno e che patiscono abbia a che fare con la necessità di trovare un posto alla propria specifica vocazione in questo mondo. I bambini cercano di vivere due vite contemporaneamente, la vita con la quale sono nati e quella del luogo e delle persone in mezzo a cui sono nati. L’immagine di un intero destino sta tutta stipata in una minuscola ghianda, seme di una quercia enorme su esili spalle. E la sua voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell’ambiente. La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze, nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene.
James Hillmann, Il codice dell’anima

Osservare trepidanti un nipotino che gioca con le bolle di sapone o che avvia faticosamente la prima bicicletta personale può sembrare solo attesa preoccupata e partecipe, che non si risolva in delusione o in un sentimento di amara sconfitta la prova di sé a cui il piccolo si sottopone. In realtà, si assiste a qualcosa di più grande e misterioso, che rischiamo di non cogliere mai, assistendo indifferenti e distratti a un semplice gioco con il sapone o a una pedalata e basta.

Il piccolo affanno di quel piccolo cuore è il ripetuto affacciarsi alla vita, è un tentarla a tastoni, avanzare tra liane che trattengono e costituiscono inciampo, esitare, forzare le cose, cercare di emergere e finalmente sorridere alla vita stessa. Quel sorriso di gioia prorompe inconsapevole dal fondo enigmatico e buio dal quale noi tutti diviniamo, dando voce agli abissi della nostra libertà.

C’è già cuore e anima in ogni gioco e capriccio, in ogni più spontaneo dire e fare. Essi poi torneranno a parlare solo a noi negli istanti cruciali, quando un sentimento oscuro ci chiamerà al fondo e saremo tentati di lanciare alla terra il nostro lungo addio, spodestati e stanchi… Da quel fondo medesimo verrà la voce che salva, un pianissimo e l’onda che assale più dolce la sera. 


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Braccia chiuse

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Domenica 7 ottobre 2012

CAMMINARSI DENTRO (420): Braccia chiuse

Abbracciare ed essere abbracciati non sono la stessa cosa. Noi possiamo abbracciare i nostri nipotini, perfino i nostri cani, e sentirci ripagati, remunerati quasi del dono che facciamo, come se qualcuno stesse lì ad abbracciare noi, a confortare noi… Ma non è la stessa cosa che essere abbracciati! Forse le nostre braccia sono troppo grandi, troppo ampie per essere ‘contenute’ da altre braccia o forse sbagliamo noi perché ci immaginiamo sempre con le braccia aperte, pronti a soccorrere o, più semplicemente, a fare la nostra parte: comprendere dentro le nostre braccia il bisogno di altri che attendono. Dovremmo, forse, chiudere le nostre braccia, e rannicchiarci quasi, per farci oggetto d’amore e permettere che altri facciano a noi quello che forse non dovremmo fare solo noi! Forse il segreto è tutto qui, nelle nostre braccia spalancate, come i nostri occhi che non si stancano mai di bere il mondo, di succhiare quasi tutta la bellezza che promana umile dalle cose. È possibile stringere in un abbraccio anche lei, senza che si avveda che nel contatto casuale da cui ci sciogliamo troppo presto si nasconde un bene lungamente atteso che sognavamo per noi. È forse solo da lei che ci attendiamo lo scioglimento, che la guerra dei fraintendimenti e delle incomprensioni cessi, per non rinnovare altre vanificazioni e ritrovarsi qui ancora con le braccia saldamente aperte!

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Ho cambiato vita

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Lunedì 1° ottobre 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (419): Ho cambiato vita

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La lettura della mia amica TartaRugosa di SERENA ZOLI, Ho cambiato vita. Storie di chi ce l’ha fatta, EDIZIONI SAN PAOLO, Milano 2011

«E’ sempre interessante conoscere le altrui storie, nonché le inquietudini che portano a scegliere fondamentali svolte. Ne so bene qualcosa, visto che per sopravvivere trascorro metà dell’esistenza sotto terra. Chissà in quale categoria mi inserirebbe Serena Zoli …

Già. L’autrice di questo testo opera una distinzione tra le diverse opzioni che, prima o poi (oppure mai) inducono a dire basta con lo stile condotto fino a quel momento per lanciarsi in nuove sfide. Vediamole.

1) Cambiare perché si vuole cambiare: “Spesso l’età del mutamento si aggira sui quarant’anni”, quella metà del cammino dove lo sguardo si rivolge all’interiorità e “da questa identità più profonda può spuntare fuori e imporsi qualche nuova passione: mollo tutto e faccio quest’altra cosa che mi piace tanto”.

2) La scelta del non-profit. Se il lavoro abituale ha perso l’anima si può scegliere di aderire al lavoro non-profit: “paghe minori rispetto alle imprese profit, ma pienezza di senso. Quello che fai aiuta davvero qualcuno, fa davvero la differenza per tante persone in difficoltà … lavorare nel non-profit significa tornare a sentirsi protagonisti, riprendersi la vita in un altro modo”

3) Ripartire a sessant’anni. Ci si riferisce a coloro che la stessa Zoli classifica come generazione fortunata, ovvero i nati tra il 1935 e il 1955, che possono contare sulla pensione e che vedono di fronte a sé circa un ventennio in piena salute prima della vera vecchiaia. “C’è chi si imbarca in una nuova carriera, chi cambia non solo città ma continente, chi si impegna nel volontariato, chi rende affare quello che prima era solo una passione”.

4) Abbandonare l’Italia. “La Fondazione Migrantes, dei quasi quattro milioni di emigranti, indica che la metà è sotto i trentacinque anni … Milano è in testa con 46.000 persone contro le 34.000 di Napoli. Non più il Sud, non più la mera necessità a spingere questi espatri”. Da un sondaggio de La Repubblica (22.10.10) le motivazioni dichiarate da chi sceglie di vivere all’estero riguardano “disgusto per la politica, corruzione che fa rima con raccomandazione, orizzonti claustrofobici, incertezza dei diritti”. Singolare che di questi protestatari, molti siano disposti a riciclarsi in mestieri umili decisamente snobbati in Italia.

5) Scalare una marcia (in inglese downshifter): “oggi che dal lavoro tantissimi si sentono derubati piuttosto che appagati, si fa strada il sogno di lavorare meno, di avere meno stress da competizione quotidiana, di raggiungere minori vette di risultati e di professionalità e va benissimo, allora, che gli introiti siano inferiori, a volte che sparisca lo stipendio certo, e che i benefit si dissolvano: in cambio si aspettano, tout court, di vivere”.

A supporto di questi filoni, Serena Zoli racconta piccole storie di persone che si sono date una seconda opportunità esistenziale.

Camilla e Franco, entrambi con professioni ben remunerate e ben avviate, ma insoddisfatti della qualità di vita che si respira a Milano e in generale in Italia, si fanno contagiare dal mal d’Australia e decidono di trasferirsi nel quinto continente per aprire una gelateria. A volte però il desiderio di cambiare luogo andrebbe valutato con un miglior ascolto del proprio scontento interiore. Dopo varie vicissitudini, Camilla e Franco – che pure considerano positivamente la loro scelta nonostante gli australiani ritengano il gelato cibo-spazzatura e preferiscano il McDonald’s – nel raccontare le difficoltà per trovare risorse e personale confessano: “Da quando ci siamo trasferiti qui abbiamo scoperto tutta la nostra italianità, ci sentiamo italiani a 360 gradi. Però quando torniamo in Italia, ogni anno, dopo dieci giorni non ne possiamo più del traffico, del modo di vivere convulso, dell’aggressività. Insomma, vogliamo tornare a casa. Ma una volta qui, a Caloundra, vediamo tutti i difetti del posto e ci lamentiamo. Chi vuole espatriare, sappia che non si sentirà più completamente a casa in nessun posto”.

Dal mal d’Australia al mal d’Africa con due storie completamente diverse.

Riccardo Orizio, al culmine di un’invidiata carriera di giornalista, a 41 anni abbandona tutto e si trasferisce in Kenya, dove apre il primo lodge composto da sei grandi cottage. Il turismo che qui propone è di gran lusso: 500 euro al giorno (esclusi voli internazionali e interni). Ma vuoi mettere? “dopo una giornata a piedi o in Land Rover nella savana, si può cenare sulla veranda a lume di candela con piatti di una cucina gourmet mentre qualche animale selvatico guarda dai bordi del campo … mentre i masai responsabili della sicurezza vigilano dotati di lancia e torcia”.

Dietro a un turismo d’élite, però, ci sta un’altra motivazione: “i turisti devono sapere che venendo in safari aiutano la conservazione della savana e degli animali. Il Masai Mara ha bisogno di turisti: i nuovi lodge e campi tendati che sono stati creati avendo in mente l’interesse della comunità masai e della natura sono gli strumenti migliori per far sì che tutto ciò di cui io e molti altri ci siamo innamorati sia trasmesso alle generazioni future. Col suo fascino intatto”.

Il caso di Vanna, invece, va in tutt’altra direzione. Il primo passo è l’innamoramento del paesaggio senegalese che spinge Vanna e marito alla radicale scelta di lì trasferirsi, vendendo tutto ciò che avevano in Italia. La morte del marito in un incidente e della madre ultranovantenne che si era portata appresso perché sola e anziana, inducono Vanna a pensare se fare rientro in Italia o rimanere a Thiès. Non potendo più contare sulle rendite economiche pensionistiche, Vanna decide di aprire un bed&breakfast con due tipi di vacanza per gli ospiti: una tutta riposo con piscina, sole, mare, casa e una più finalizzata a conoscere il vero Senegal con gite di un giorno ciascuno. Pubblicità attraverso Internet curato dal figlio trentasettenne, trasferitosi pure lui in Senegal.

C’è poi chi non va molto lontano.

Simone scegli Val di Lara, tra le Cinque Terre e La Spezia per fare downshifter. Manager con notevoli riconoscimenti e guadagni, a 41 anni chiude tutto. “Chissà che stipendio avrei oggi, ma di sicuro sto meglio come sono ora. Per fare questa scelta ho ridotto tutto: mi bastano 700 euro al mese per vivere. E sono pronto a dimostrarlo a chiunque non mi creda. Il problema, infatti, non è quanto guadagni. Il punto è quanto spendi”. Gli introiti se li procura scrivendo, facendo lo skipper in conto terzi e lavando e rimettendo in sesto le barche. “Io la crisi non la sento, perché mi ero già messo in crisi prima, non compro mai niente, abbiamo già così tanto di tutto. Ma se non si riflette a fondo su che cosa davvero dà o no dà ben-essere e non ci si mette in discussione, la crisi c’è eccome, e senza più quel rassicurante orizzonte economico lì sei perso. Altrimenti smontare il gioco è semplice. Diabolicamente semplice”.

Altre piccole storie avvalorano questo principio del guardarsi dentro per capire che cosa vuoi veramente. Molte sono le testimonianze di scelte di uso dei soldi per finanziare progetti a tutela dei soggetti deboli (bambini di strada a rischio di pedofilia, costruzione di scuole, centri d’accoglienza e ambulatori) nei diversi paesi del mondo.

Ma non mancano scelte di vita diverse legate alla scoperta della propria individuazione, come nel caso di Liliana Segre che a sessant’anni ha deciso di diventare una testimone pubblica della shoah, oppure del magistrato Giuliano Turone che alla soglia dei cinquant’anni scopre la passione per il teatro indipendente e decide di studiare presso il Centro Teatro Attivo e diventare attore.

Una lettura adatta per chi, nelle sue incursioni nel profondo, trova materia per dire: “cambio vita”».

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Quello che possiamo promettere

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Domenica 30 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (418): Quello che possiamo promettere

58. Ciò che si può promettere. Si possono promettere azioni, ma non sentimenti, perché questi sono involontari. Chi promette a qualcuno di amarlo sempre o di odiarlo sempre o di essergli sempre fedele promette qualcosa che non è in suo potere; invece può ben promettere quelle azioni, che sono sì, di solito, effetto dell’amore, dell’odio e della fedeltà, ma che possono anche scaturire da altri motivi: giacché a un’azione conducono più vie e motivi. La promessa di amare sempre qualcuno significa cioè: finché ti amero, compirò verso di te le azioni dell’amore; se non ti amerò più, continuerai a ricevere da me le stesse azioni, anche se per altri motivi, sicché nella testa del prossimo persiste l’illusione che l’amore sia immutato e sempre il medesimo. Si promette, dunque, di continuare nell’apparenza dell’amore quando, senza accecarsi da sé, si giura a qualcuno eterno amore. – FRIEDRICH NIETZSCHE, Umano, troppo umano

La verità dell’assunto niciano risiede nel fatto che per noi oggi la sfera tutta del sentire ‘contiene’ porzioni significative della vita della coscienza che ci sfuggono: non siamo del tutto padroni del nostro sentire.
Le ragioni che sono alla base dell’amore ci sono in parte note, in parte sconosciute.
Quello che diviniamo dal nostro fondo enigmatico e buio ci rivela a noi stessi e alla persona amata 
Tuttavia, preferiamo concentrare la nostra attenzione su ciò di cui siamo consapevoli, trattando separatamente l’area dell’inconsapevolezza, come se quest’ultima fosse estranea alla vita del sentimento, un’espressione involontaria non riconducibile alla sua natura!

In questo senso, possiamo dire che i sentimenti sono involontari. Almeno in parte, sfuggono al nostro controllo. Di qui il rischio ricorrente dell’illusione. Non è poi così difficile inseguire le sirene di un cuore che poi si rivelerà di poco pregio!

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Impazienza

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Sabato 29 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (417): Impazienza

Tutti gli errori umani sono impazienza, interruzione precipitosa di ciò che è metodico, apparente recinzione intorno all’apparente. – FRANZ KAFKA, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via

E altrove, ancora sull’impazienza Kafka scrive:

Negli uomini ci sono due peccati capitali, da cui derivano tutti gli altri: impazienza e negligenza. Per l’impazienza sono stati cacciati dal Paradiso, per la negligenza non vi tornano. Ma forse c’è un solo peccato capitale: l’impazienza. Per l’impazienza sono stati cacciati, per l’impazienza non ritornano. – FRANZ KAFKA, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via

Quante volte abbiamo avviato un’azione di cui poi ci siamo pentiti!, e questo è il caso a noi tutti ben noto. Forse meno numerosi sono i casi in cui, trattandosi di una relazione sentimentale o di legame educativo, abbiamo cercato subito l’effetto desiderato, magari con una lettera inappropriata o con una espressione verbale risentita, dando così adito alle critiche più smaccate e ipocrite.

Più significativo ancora, io credo, è il caso di un legame affettivo mai nato o nato male, a causa di movimenti affrettati ai quali ci siamo abbandonati perché non riuscivamo a fare altro. Bisognava parlare, dare un nome alle cose, anche se non erano ancora ‘cose’! Allo stato nascente, infatti, ogni relazione umana non è forma. Come si può pretendere che abbia già un nome ciò che non ha forma? E le cose prendono forma semplicemente sotto la spinta che imprimiamo noi al corso delle cose stesse? Quante volte un’amicizia non è mai nata, eppure noi ci siamo ‘lanciati’ con iniziative rivolte a persone che male hanno gradito il nostro entusiasmo? Abbiamo supposto che ormai era cosa fatta: eravamo amici!

Probabilmente, è più prudente, cioè più saggio aspettare, addirittura non presumere nulla di buono. Non aspettarsi che le cose andranno bene. Può risultare piacevole in seguito ritrovarsi accanto persone che avranno apprezzato la nostra discrezione, il passo breve, la giusta attesa.

Le smentite della realtà sono dolorose, tanto che molti preferiscono non agire per niente, standosene buoni ad aspettare non si sa bene cosa. Decidono, contemporaneamente e contraddittoriamente, in materia di sentimenti, di essere single e lo sbandierano ai quattro venti. Sperano così che il mondo, informato della cosa, corra a leggere il curricolo, magari nel Profilo di una rete sociale, convinti che la condizione di single sia solo un’esca lanciata lì per qualcuno che a sua volta non sopporti una condizione che potrebbe anche non essere provvisoria: chi può dire cosa ci riservi la sorte, una volta che abbiamo deciso di non illuderci più, passando il tempo a rincorrere chi non ha tempo né voglia di dedicarsi a noi?

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Oltre Itaca

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Giovedì 27 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (416): Non poter amare

Il dolore più intenso non è l’infelicità, bensì l’incapacità di tendere alla felicità; l’intelligenza può solo fingere, per sopravvivere, di non accorgersene, anche se il riso della conoscenza prorompe forte e disincantato. – CLAUDIO MAGRIS, Itaca e oltre

E’ doloroso ricevere da una cara amica la notizia della fine dell’amore della sua vita. E ancor più doloroso sentirle dire che il dolore che la sta devastando non è dato dalla perdita della persona amata ma dal non poter amare.
Uno spirito analitico non tarderebbe a scorgere dietro tutto ciò nient’altro che lutto. Noi crediamo, invece, che si tratti d’altro. Questa infelicità, che conosciamo bene, che molti conoscono per non essere parte della schiera dei favoriti degli dèi, è l’impossibilità di cogliere la felicità, di afferrarla, pur avendola a portata di mano.
Come non pensare, infatti, che là fuori ci sono innumerevoli persone alle quali sarebbe possibile dare il proprio amore e nello stesso tempo sentire che ora non è prudente, che sarebbe solo un modo per compensare una mancanza, che a un’illusione finita si corre il rischio di aggiungere una nuova illusione, aprendo il proprio cuore alla persona ‘sbagliata’?

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Stupidità e dono

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Giovedì 27 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (415): Perché solo il bene alla fine è degno di considerazione

La rozzezza è la prassi della stupidità – ROBERT MUSIL

Il tempo della lotta per il riconoscimento è finito (per me). Le vane richieste e l’affanno e la preoccupazione di essere finalmente accettato, accolto, apprezzato, magari giudicato per il mio lavoro o per le mie qualità umane sono pratiche abbandonate, a vantaggio di un più sereno sentire, fatto di pacificato stupore, per l’umana stupidità.
Questo divertito stupore che a volte mi assale è come una benedizione, perché mi consente di vincere l’impazienza, che sempre vorrebbe esigere giustizia, andare addirittura all’incasso, come se da qualche parte ci fosse uno sportello approntato per noi, per farci ritrovare l’incanto perduto! 
Siamo liberi di continuare a credere che quanto ci è stato negato fin qui sarà prontamente elargito, magari con qualche altra dilazione ancora, ma arriverà, oh, arriverà il premio ambito. Qualcuno si alzerà per dire sì, e allora potremo perdere i sensi per raggiunto orgasmo.

La fiera della vanità, con il corteo dei trucchi e delle meschinità che sempre contraddistinguono le condotte degli stupidi, sta lì, sempre in prima pagina. E’ come quel tipo di Educatore – si fa per dire! – che non risponde al telefono, se lo chiami, e che non risponde alle tue lettere, se gli scrivi, facendo derivare il proprio potere da questi gesti regali che apparentano le persone alle più basse specie prive di anima.

Le ‘virtù’ italiche sono note. Furono elencate da Leopardi nel suo famoso Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani. Da allora nulla è cambiato. Gli italofoni si affannano tutti ad inseguire vane chimere, facendosi guidare dalle sirene del potere. Disdegnano la pubblica utilità e la lealtà civile, a vantaggio di immediati riconoscimenti, strappati con i mezzi più abietti. L’importante in Italia è sempre vincere, mai partecipare.

Io preferisco per me questo tempo di mezzo, non più torrida estate, non ancora pungente inverno, in cui sembra di potersi fermare ancora a conversare, magari nello spazio virtuale, con dolci amici e conoscenti, che non disdegnano il retto conversare cittadino, accompagnandosi con donne virtuose – le famose trenta! – e riservate che preferiscono il riserbo al clamore della scena.
E’ possibile incontrare ancora donne di cui non si conoscano le nudità e che non aspirino a stare sotto i riflettori, mai dimentiche di sé, dei loro concreti doveri, giustamente chiuse nel perimetro della loro esperienza umana.
Questo tempo passerà, e come non ci lamentammo del caldo eccessivo, non lo faremo con il freddo eccessivo, e non ci attarderemo a discettare sulle mezze stagioni e sull’aumento dei prezzi. Altre delizie ci attendono, nell’arena della vita, dove non si consumano aspre contese per un posto in seconda fila. Non siamo nati per primeggiare noi, ci basta un posto qualsiasi da dove sia possibile sentire distintamente le voci care di coloro che non sono mai risentiti con noi.

Da questa umanità senza potere riceveremo tanti doni, non insperati, perché  ciascuno di coloro che amiamo non ha bisogno delle nostre richieste per pronunciare il sì per cui forse siamo venuti al mondo, per cui ci siamo sollevati al di sopra della condizione misera da cui proveniamo.

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Perdersi

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Sabato 22 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (414): Perdersi

Attraversare l’esperienza della perdita è duro ad ogni età. Il senso di vuoto che si prova non è mancanza dell’oggetto d’amore (soltanto). Siamo noi quel ‘vuoto’. Le cose si appannano perché il nostro sguardo è appannato. In verità, non vogliamo tenere gli occhi spalancati sul mondo, perché vedremmo solo ‘cose’, non il colore delle cose.
Se una lezione dobbiamo ricavare da questa esperienza forse è proprio in questa destituzione di senso che riguarda noi, i soggetti amorosi. Perdere un amore significa perdersi, smarrire il senso di sé, una porzione grande della propria identità.
E se esce intaccata, ferita l’identità personale, vorrà dire che aveva senso la teoria dell’amore che assegna al soggetto amoroso l’importanza più grande: nell’esperienza sentimentale a due esce accresciuta la mia identità, addirittura realizzo la mia identità, cioè rendo reale una parte di me, forse la più importante, la più grande di fronte all’altro.
L’abbandono della relazione, la separazione di fatto, la mancanza che conseguono alla rottura del legame si costituiscono come una ‘negazione’ di me, un rifiuto, un mutamento del giudizio che sorreggeva il sentimento, il venir meno del valore che mi era stato assegnato. Perciò è corretto pensare che di me si tratta, della mia identità, del mio modo di consistere e di declinarmi nel mondo.

Sotto lo sguardo dell’altro io ‘apro’ il mio cuore e lascio ‘entrare’ l’altro, che non è soggetto conoscente soltanto ma prima di tutto senziente, paziente, parlante. L’altro ‘risponderà’ a quell’apertura. Dovrà decidere che farsene della mia libertà, se legarla a sé con il legame d’amore o con lacci e catene; dovrà dare un senso ai giorni, e nelle costellazioni di senso che ne deriveranno dovrà decidere quale posto io occupi nel ritaglio di tempo in cui mi sarà dato poi consistere.

Tuttavia, la mia esistenza non dipende interamente dal ‘consenso’ dell’altro. Se così fosse, mi ritroverei nell’assoluta insicurezza (un capitolo importante de L’io diviso di Ronald Laing, sulla schizofrenia, non a caso è intitolato L’insicurezza ontologica). La dipendenza dall’altro, nella relazione sentimentale, è ‘fisiologica’. Essa diventa patologica quando si fa disfunzionale.
La mia esistenza non dipenderà in modo disfunzionale da quella dell’altro, se la mia fragilità e i miei limiti saranno ‘rispettati’ e se saprò custodire lo spazio interiore, difendendolo dagli ‘attacchi’ esterni, anche della persona oggetto del mio amore. Non debbo permettere che parti importanti della mia esistenza siano erose dall’insicurezza dell’altro. Se questo accade, vuol dire che da una parte o dall’altra ci sono carenze nella ‘costruzione’ dell’edificio della personalità che si riverberano sulla relazione sentimentale.

Escluso tutto ciò che è disfunzionale, patologico, non resta che considerare  lo stato di ‘sofferenza’ personale che deriva da una ‘normale’ perdita sentimentale. L’elaborazione del ‘lutto’ non è compito che si possa esaurire in un tempo breve. Dopo anni, talvolta decenni, andati in fumo, si tratta di ‘ridefinire’ il senso di quegli anni, di quei decenni. La persona amata era quella ‘giusta’ per noi? Eravamo ‘compatibili’? Era prevedibile l’esito finale? Poteva essere evitato con comportamenti più adeguati? Le infinite domande a cui sottoporremo la nostra coscienza serviranno a ‘liberare’ la coscienza stessa da quelle forze che ci legano ancora a chi non c’è più.
Al di là e oltre ogni strategia ed esercizio e ‘terapia’, però, conta saper illuminare la propria esperienza, rendendo chiare le ragioni che hanno portato a stringere una relazione come quella che è stata appena distrutta. Apprendere dall’esperienza è compito difficile, e su esso torneremo, ma di questo si tratta: di fare i conti solo con se stessi.

Quello che non possiamo fare è questo: revocare in dubbio le scelte consapevoli fatte. Amore non è cieco, anzi insegna a vedere. Amore è visionario, creativo, immaginifico… L’investimento sentimentale prodotto non può essere svilito, come se fossimo stati guidati da forze oscure! Noi abbiamo scelto proprio quella persona, con i suoi difetti ben noti a noi. Non eravamo ciechi nel momento della scelta. Non possiamo dichiararci oggi ‘desti’, come se fossimo ‘dormienti’!

Noi possiamo fare una sola cosa, con onore: accettare la lontananza, l’assenza, la mancanza, la perdita come ‘prezzi’ da pagare, per l’esito ‘negativo’ di una nostra impresa umana. L’esperienza del dolore, poi, è connaturata alla condizione umana. La vita è fatta di assenze, separazioni, perdite.  
C’è un tempo anche per il dolore. Non possiamo sottrarci al potere del tempo. Viviamo nel tempo. Siamo il tempo della nostra coscienza.
Distillare istante per istante ogni ‘colpo’ che verrà dal dolore conseguente alla perdita. Solo così potremo assegnare il giusto posto nella nostra esistenza all’esperienza sentimentale conclusa. Dal significato che sapremo dare ad essa dipenderanno le scelte che faremo ancora per dare senso alla nostra vita, intrecciando nuovi legami sentimentali.

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Parlami d’amore 2 – Frédéric Beigbeder

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Venerdì 14 settembre 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (411): Parlami d’amore / 2 – Una passione a tempo
“Così racconto l’egoismo romantico” 

ANAIS GINORI, Una passione a tempo
“Così racconto l’egoismo romantico” 

Parla Frédéric Beigbeder, autore del libro “L’amore dura tre anni”, celebre per i suoi personaggi affettivamente disillusi. Secondo lo scrittore francese la coppia deve accontentarsi di un amore a tempo limitato. Sono altre le forme di relazione che sopravvivono in eterno, come il legame tra genitori e figli. – la Repubblica, 26 luglio 2012

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Leggere FEDERICO RAMPINI, “Non ci possiamo più permettere uno stato sociale” Falso!, LATERZA

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Giovedì 13 settembre 2012

POLITICA e SOCIETA’

Leggere FEDERICO RAMPINI, “Non ci possiamo più permettere uno stato sociale” Falso!

Molti si sono convinti che il nostro welfare è un lusso, che mantenendo certe conquiste sociali abbiamo ‘vissuto al di sopra dei nostri mezzi’, e che è ora di ridimensionarci. Ma siamo sicuri che sia l’unica alternativa possibile? Siamo davvero sicuri che l’Europa è in declino perché statalista e assistenziale? Chi lo ha detto che lo Stato sociale deve essere smantellato?

Gli idoli e le nozioni false che hanno invaso l’intelletto umano gettandovi radici profonde […] assediano la mente umana sì da rendere difficile l’accesso alla verità e ciò è tanto più insidioso se gli uomini, di ciò avvisati, non si mettono in condizione di combatterli. Francesco Bacone, Novum Organum

Sono le parole di un filosofo del Seicento, ma parlano anche a noi e al nostro tempo. Perché invitano a porre attenzione ai condizionamenti che influenzano il nostro modo di ragionare. Anche quando non ce ne rendiamo conto, su di noi agiscono gli idola, categorie mentali che abbiamo interiorizzato e mai messo in discussione. Gli idola sono frasi fatte, ripetute a gran voce dai media, rilanciate dai politici e dagli opinion makers, sono luoghi comuni radicati nell’opinione pubblica e duri a morire. Sono capaci di allontanarci da scelte consapevoli, sono seducenti e accattivanti, è facile restarne prigionieri.
«Idòla», la nuova collana Laterza, si ispira al pensiero del grande filosofo inglese e si propone come un antidoto contro i falsi assiomi, che circolano ampiamente nel dibattito pubblico, senza venire confutati, malgrado la loro fragilità.
Si tratta di testi agili, ognuno dei quali riassume nel titolo lo slogan che intende mettere in discussione e lo bolla con il timbro «Falso!».

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Parlami d’amore 1 – Natalia Aspesi

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Giovedì 13 settembre 2012

Contributi a una cultura dell’ascolto
CAMMINARSI DENTRO (410): Parlami d’amore / 1  –  Sesso, bugie e disincanto: l’Italia nella posta del cuore

NATALIA ASPESI, Sesso, bugie e disincanto: l’Italia nella posta del cuore

Con quali parole si narra una passione che nasce o una che finisce? Nelle lettere a un giornale c’è un campionario di segreti nascosti anche a se stessi. Chi scrive conosce già le risposte e disprezzerebbe i consigli. – la Repubblica, 20 luglio 2012

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Spalancare le finestre

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Lunedì 10 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (409): Le angustie della mente

La nostra angustia ci è sfuggita fin troppo. Da cinque anni, ormai, non facciamo altro che parlare di noi, delle nostre umidità gastriche, come avrebbe detto Sartre. Senza costrutto. Scrivere avrà fatto sicuramente bene a noi. Sarà stato ‘igiene mentale’. Saremo venuti in chiaro di noi stessi. Ma fuori di qui, nella vita di relazione, nelle relazioni significative tutto è andato peggio di come avremmo voluto.  Abbiamo avuto la conferma del fatto che la scrittura non serve a niente. Non serve, soprattutto, a farci amare (di più). Anche questo esercizio si è rivelato una pratica privata, solitaria. L’unico risultato conseguito è la chiarezza. Potremmo continuare all’infinito a mettere puntini sulle i – e lo faremo ancora! -, ma senza convinzione. Senza altra ragione, se non quella privata: si scrive per se stessi.

Anche se questa è solo una delle Rubriche curate, di certo è la più corposa. È quasi la ragion d’essere di questo sito. Oggi mi ritrovo a pensare che è angustia della mente, ormai, questo insistere sulla propria vita sentimentale. È tempo di spalancare gli occhi. Spalancare le finestre.

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Ritrovarsi per qualche decennio in una condizione di stallo, e addirittura vedere regredire la qualità della propria vita, e persistere nell’errore è forse cosa che meriti ancora analisi e approfondimenti? Ormai, è solo noia.

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Rinunciare a rendersi infelici

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Domenica 9 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (408): Rinunciare a rendersi infelici

Temo che pochi conoscano il potere distruttivo delle illusioni, che ne siano cioè coscienti. La nostra mente è disposta ad ammettere questo fenomeno. Altra cosa è riconoscere nella propria esistenza i segni di tale azione, considerando ampie porzioni temporali dell’esistenza stessa. Riconoscere di essersi ingannati su una persona a cui siamo stati lungamente legati non è poi così facile a farsi!
La distruttività di cui parlo non risiede in un potere ‘diretto’ dell’illusione sulle cose o in una natura violenta dell’illusione stessa, come se fosse una forza che si abbatte su qualcuno! La negatività insita nella tendenza ad illudersi sempre sullo stesso ‘oggetto’, anche dopo ripetute smentite della realtà, dipende per intero da noi, dal fatto che facciamo derivare un sentimento, una relazione, un incontro non dalla conoscenza morale ma da preconoscenze, anticipazioni dell’esperienza, impressioni, vaghe sensazioni a cui non segue alcuna verifica! Quando si sia consolidato un giudizio sulla persona o sia stato fissato un criterio per l’azione, e per anni sia stato perseguito sempre lo stesso fine, il trascorrere del tempo non ci aiuterà ad allontanarci da quelle false ‘premesse’, dai falsi ‘fini’ assegnati all’azione. Se poi siamo convinti che ogni relazione sentimentale sia destinata a portare con sé una promessa di miglioramento, di cambiamento, che sicuramente seguirà, finiremo per aspettare per anni, anche per decenni il cambiamento desiderato.

Ciò che di più drammatico interviene a richiamarci alla realtà, nell’acmè, nel momento nevralgico dell’esperienza sentimentale, è il cumulo degli effetti a distanza, delle conseguenze di scelte lontane che continuano a farsi sentire: gli schiaffi in faccia, le sonore smentite, che non sono veri richiami alla realtà; dipende ancora dal nostro sentire, dal modo di percepire le cose la capacità di vedere ciò che abbiamo sotto gli occhi. Possiamo continuare per anni ancora a negare la realtà, fino alla catastrofe successiva, fino all’ultima catastrofe, quando ci ritroviamo in un vicolo cieco e siamo costretti a guardare indietro. E pure questo volgersi a considerare la strada fatta non è garanzia di ‘risveglio’, di resipiscenza, di ravvedimento.
Parlare di strada fatta è segno di una condizione di forte spaesamento. Quale ‘uso’ è possibile fare ora di una strada che è alle nostre spalle? Ci fregeremo di un titolo di merito, per aver finalmente capito? Chiuderemo al traffico la strada percorsa, per non tornarvi mai più? quando sappiamo bene che non ha senso immaginare un ‘ritorno’! Sanciremo con decreto solenne la fine di un errore? E come si amministrano gli errori? Basta dire che non torneremo a fare quello che abbiamo appena ‘finito’ di fare? Come se non sapessimo bene che siamo tutti condannati a commettere sempre gli stessi errori!

Allora, non ci resta che assumere il vero problema come il problema da affrontare: la nostra tendenza a illuderci, a costruire vane chimere su basi inconsistenti, progettando imprese al limite della disperazione, pur di soddisfare il bisogno di assegnare alla vita dei sentimenti fini che sono ad essi estranei. Pretendere, ad esempio, di rendere felice una persona che presumiamo non lo sia (a sufficienza) è stupido. L’unica cosa che abbia veramente senso è concedere a se stessi il diritto di essere felici. Solo su questa base e con questa premessa e con questa istanza avremo qualche chance contro la nostra tendenza a renderci infelici.

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Leggere Istruzioni per rendersi infelici, di Paul Watzlawick 

e poi ancora:     e poi   

 

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La vera attesa

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Giovedì 6 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (407): La vera attesa

E’ sorprendente ritrovarsi a pensare, pur sapendo bene che è così, quanto sia facile credere di credere. Illudersi di essere innamorati. Cercare di esserlo e per un po’ credere che sia così. Quante storie sono finite, per questa via, nel numero di ciò che non è mai nato! In parte, questo genere di esperienza è riconducibile a un’attitudine tutta maschile, la tendenza a vedere in ogni donna una possibile compagna di vita. Le fantasie sessuali, le fantasticherie, i ‘film’, come dicono i tossicomani, si sprecano, a tutte le età! Ma non è patetico abbandonarsi a questa attività della mente, perché partecipa anche il cuore, che quasi si abbandona al gioco, mobilitando i suoi eserciti migliori: malinconie, affanni, angustie, gelosie, attese, sospiri, promesse…
L’attività più interessante, tuttavia, andrà ricercata nell’anticipazione di dialoghi, che è stata già riguardata autorevolmente come anticipazione di incontri. Tralasciando il corteo che segue, e che è fatto di lunghi corteggiamenti segreti, di relazioni immaginarie, di amori mai dichiarati, più significativo è l’epilogo di ogni ‘storia’. Scoprire che si tratta di storie senza storia rende sempre più faticoso procedere, fino alla necessaria accettazione dell’errore. Si trattava solo di storie senza futuro. Ciò che interviene ad interrompere la catena delle illusioni ad occhi aperti non è il lavoro della mente, ma è proprio il cuore, che alla fine non se la sente di continuare in un gioco senza riscontri. L’illanguidirsi della ‘passione’, dello slancio verso la persona reale, che non è più oggetto ambito, meta ideale di sogni d’amore, occasione di felicità… La ricerca della persona reale diventa faticosa, a suo modo rivelatrice. All’improvviso, affiora un’indifferenza che ci stupisce, perché non credevamo che potesse attecchire in noi, che amiamo pensarci come persone dotate di sensibilità sempre viva.
Com’è possibile che una figura femminile a cui eravamo intensamente interessati perda le sue attrattive per noi, come se avessimo sperimentato l’insussistenza dell’attrazione per la persona? Dov’è finita la tensione accumulata, l’intenzione di aprirsi alla realtà, che stava quasi per manifestarsi prepotente? Dobbiamo concludere, allora, che di inattendibilità dei sentimenti si tratta? Non sarà dipeso anche dai segnali che attendevamo dall’altra parte, che non sono mai arrivati? Non sarà intervenuto un motivo di delusione a convincerci del fatto che ci eravamo sbagliati sulla persona a cui eravamo sul punto di aprire il nostro cuore? Non è forse proprio la conoscenza morale, da noi spesso invocata, che ha fornito a noi le giuste informazioni che aspettavamo, per decidere cosa fare di noi, se lanciarci nell’avventura amorosa oppure no?

Tra mente e cuore, allora, non potremo fare a meno di ascoltare l’una e l’altro, ora l’uno, ora l’altra. Senza commettere l’errore di lasciare al cuore il compito di decidere da solo. Che sia un cuore pensante il nostro. Un vivo sentire ci guidi sempre, ma sotto lo sguardo vigile della nostra mente, che conosce le strade che abbiamo già percorso e saprà indicare sempre quanto di vero ci sia nel nostro sentire, se su un autentico valore riposa il credito concesso a un altro cuore, se una vera storia crediamo che sia possibile intrecciare con il destinatario dei nostri palpiti. E’ importante scoprire per tempo se i transiti immaginati in una direzione e nell’altra siano possibili, se saranno realtà dal primo giorno. Le vere attese sono quelle che durano poco.

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Ciò che muore

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Mercoledì 5 settembre 2012

CAMMINARSI DENTRO (406): Ciò che muore non meritava di essere ricordato.

Tutto ciò che muore non merita di essere ricordato.
Un’impietosa sepoltura sia riservata a ciò che abbiamo lasciato precipitare nella dimenticanza.
Più dignitoso trattamento merita ciò che è finito sotto il peso della malinconia del così fu: contiene in sé i germi del riscatto, la possibilità della ‘redenzione’.
Solo noi decidiamo che qualcosa è irredimibile. Imprescrittibile. Imperdonabile.

Non esiste un’ars oblivionalis, un’arte del dimenticare. Non possiamo attivamente agire sulla materia dei nostri ricordi per sbarazzarcene. Quello che possiamo fare è ben più efficace, se poniamo mente alla damnatio memoriae a cui destiniamo persone e cose che abbiano deluso tutte le nostre aspettative. Prestiamo attenzione più alle grossolane esperienze di cui più facilmente ci liberiamo, se abbiano turbato la nostra sensibilità o se abbiano lasciato un segno doloroso nell’anima.

L’effigie di un uomo è curata e trasmessa ai sopravvissuti da coloro che siano destinatari di un’eredità di affetti. La dimensione personale del ricordo è intrisa di moti del cuore che la sostengono. Senza di questi, l’effigie finisce per essere trascurata. Il prolungamento della ‘vita’ delle cose dipende per intero dalla nostra capacità di narrare: non si muore una sola volta!
Noi ci adoperiamo a mantenere in vita lungamente la presenza di coloro che abbiamo amato. La durata delle cose subisce la stessa sorte: durano presso di noi, se abbiamo assegnato loro un valore particolare.
Non è forse lo stesso destino che riserviamo ai nostri amori? La loro durata dipende forse dalla loro natura? non siamo noi a farli durare, assegnando loro le caratteristiche indispensabili perché sopravvivano alle tempeste della vita?

Ma se è così, non è giusto dire che ciò che muore non merita di essere ricordato?

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