Contributi a una cultura dell’ascolto CAMMINARSI DENTRO (389): Per rinascere bisogna morire
Con una mossa sconvolgente Arturo Paoli rovescia le prospettive scontate e ci porge una teologia dell’assenza – LUIGI ZOJA
ARTURO PAOLI, La pazienza del nulla, ChiareLettere Sommario Prefazione di Luigi Zoja, Sia fatta la volontà del deserto, pp.VII-X Silvia Pettiti, Arturo Paoli, una vita da raccontare, pp.XI-XXVIII La pazienza del nulla
Rinascere dal deserto, pag.3 (L’incontro con i Piccoli fratelli; Il grande silenzio, Seicento chilometri nel deserto)
I miei maestri, pag.11 (René Voillaume; Frère Milad, il maestro dei novizi)
L’esperienza del deserto e del nulla, pag.17 (Aspettando Godot; Nel deserto solo il tempo avviene, La vera solitudine; Sospeso dalla funzione di uomo, Guardare in faccia l’oscurità; Nelly, i segni del nulla; Le necessità radicali; Estetismo e contemplazione; Le radici dell’uguaglianza; Introduzione alla vita vera; Perché non chiamarlo Dio?; L’abisso che ha inghiottito Nelly; L’ultima frontiera della barbarie)
Cercatore di infinito, pag.59 (La parabola della rinascita; Il nulla abitato ha il colore della libertà; La schiavitù della sicurezza; Per rinascere bisogna morire; Il calembour dell’amore; Scuole di preghiera; L’apprendistato dell’insicurezza; La fede come fiducia; Amico di Dio; Gesù trasformatore politico e la Chiesa; La sintesi contemplativa; La verità non si possiede)
Un uomo, il nulla e Dio. Tredici mesi nel deserto del Sahara, i silenzi, il vuoto, la contemplazione, la grazia in un diario intimo che riverbera la profondità dell’anima.
Arturo Paoli compirà 100 anni il prossimo novembre. Sacerdote, Giusto tra le Nazioni per aver contribuito a salvare centinaia di Ebrei durante la Seconda guerra mondiale, dirigente della Gioventù di Azione Cattolica, cappellano sulle navi dei migranti italiani in Argentina, Piccolo fratello di Charles de Foucauld. Dopo il noviziato nel deserto algerino, viene inviato in Sudamerica, dove vivrà per quarantacinque anni. Un testimone di Dio, un maestro di vita. (Presentazione dell’Editore)
L’umano sentire, tutto il nostro sentire, che è fatto di emozioni e sentimenti, stati d’animo transitori e vive passioni, è radice e fondamento. Non un mondo parallelo, un ‘privato’ da contrapporre a ‘pubblico’, ci viene incontro per farci assaporare la vita in tutte le sue pieghe e dare colore ai giorni, come se l’umano fosse altro, cose diverse da sangue e rossori, tripudi e spaventi improvvisi… Ogni nostro istante è palpito e turbamento, eccitazione o rasserenamento, abisso di disperazione o gioiosa letizia. Essere vivi non significa ‘semplicemente’ pensare, presumere di poter governare un mondo che immaginiamo ‘sottostante’ ma che è, invece, superficie e salda apparenza. L’esposizione ai colori del mondo – il mondo non è in bianco e nero! – dovrebbe metterci perennemente in condizione di restituire un variegato e multiforme mondo interiore, fatto di arabeschi colorati e di paesaggi intricati e sorprendenti. Alle forze che ci trascinano in basso, sottraendo la gioia ai nostri giorni, dovremmo sempre opporre le ragioni dei sensi, la dignità solenne dello stupore, l’inchino riconoscente al passaggio delle fanciulle in fiore, che ci dicono tutta la vita, l’apertura alla speranza e il passo di danza proteso in avanti. Radice e fondamento è il nostro sentire. Al fondo dei nostri più alti pensieri c’è sempre un appassionato sentire, i nostri occhi spalancati sul mondo, affetti dalla viva meraviglia delle cose. Un nuovo ci appare e si mostra annuncio di altri mondi e altre certezze. Veniamo da un altrove che non ci appartiene completamente, avanziamo verso la terra incognita delle esistenze altre. Lo stupore è accompagnato a timore, attesa, speranza. E’ tempo di fiorire di nuovo. Le timide gemme che fanno capolino intorno a noi e dentro di noi non chiedono altro, soltanto fiducioso abbandono e rispetto per il barlume di letizia che si affaccia nell’anima. E’ tempo di uscire dall’uggia invernale. Non importa se chi doveva ha trascurato di innaffiare il nostro giardino. Provvederà il nuovo tempo che è nell’aria a darci piogge e sereno. E’ tempo di uscire.
CAMMINARSI DENTRO (386): Prima di ogni astratto furore
L’incanto di una donna è tutto nel respiro, nel soffio vitale che promana dalla bocca socchiusa, atteggiata a sospeso stupore o a contenuto piacere. È quell’impercettibile suono, a volte assenza di suono, che pure giunge fino a noi e che ci dice l’intensità del desiderio o l’emozione trattenuta, perché altro non è concesso nei momenti di perplesso abbandono. È un ansito breve che nasconde ben altro tumulto. È l’aurora del chiaro sentire, dell’abbandono fiducioso al sorriso o all’esplicito consentire alle nostre richieste insistenti o al tacito interrogare sul luogo della luce. La risposta al chiedere più grande, da dove provenga la luce, perché vogliamo trasferirci lì, proprio lì consistere nell’ek-stasis mondana. È un trasumanare del cuore, un incontro con l’oltranza della bellezza, nello spazio breve dell’apertura che ci viene in dono. Istante eterno è lo spazio di quel nunc. Non ancora sospiro, per i mancati giorni, né augurio per un evento lungamente atteso. Soltanto la voce del desiderio, affidata allo spirito dell’aria, parla del suo stupefatto esistere. Non ancora canto, quella voce accompagna il trascolorare del volto e racconta un altro tempo, dove non siamo stati mai, dove aspiriamo a tornare, all’origine di un’esistenza che vorremmo fosse stata fatta solo per noi. Da quelle oscure lontananze vogliamo che ci parli ancora di sé, che si leghi alla nostra mancanza per far tacere la muta preghiera che sola può dire il nostro astratto desiderio.
CAMMINARSI DENTRO (385): Nell’ascolto stupefatto dell’essere che si risolve nel suo svanire
Tra le cose difficili a cui dare un significato la più insidiosa per noi, perché capace da sola di generare le più dure illusioni, è l’esperienza degli sguardi e delle attenzioni di cui possiamo divenire oggetto da parte di una persona che voglia esprimere ammirazione, calda simpatia e rispetto. L’impazienza che ci prende all’improvviso finisce per colorare di significati ulteriori un aurorale interesse, che non dovrebbe essere destinato a proseguire e a tradursi nella costruzione di una relazione duratura. La persona che ci sorride ci sorride e basta. L’apertura che mostra nei nostri confronti farà parte di un personale stile umano, che si manifesta ogni volta di nuovo con lo stesso sorriso e la stessa apertura. Ogni persona che incontrerà sarà oggetto delle stesse attenzioni, della stessa cortesia. Il riguardo che ci viene riservato ci sembra troppo esclusivo, quasi fosse un’affezione suscitata da noi, solo da noi. Finiamo per credere che stia nascendo qualcosa di speciale, magari un’amicizia nuova. Se poi si tratta di donna che appunta lo sguardo su di noi, come rinunciare alla tentazione di sprofondare nella più dolce delle illusioni, immaginando altri mondi e altre vite, cieli nuovi e terra nuova? E’ già Paradiso! Il destino a cui rischia di essere votato ogni maschio è esattamente questo: non riuscire a mantenersi sulla soglia, attenendosi a ciò che appare, senza andare oltre ciò che appartiene allo spazio dei puri dati di fatto.
Non dovremmo mai sentirci autorizzati ad andare oltre ciò che ci viene dispensato: una donna dovrebbe sentirsi libera di manifestare un istintivo moto di simpatia; dovrebbe essere libera di sorriderci e di intrattenersi a discutere amabilmente con noi, se la compagnia sarà amabile… Ma tutto questo e altro ancora finisce lì. Ci sono donne dotate di una innata freschezza, che non possono fare a meno di esprimere le loro emozioni, senza che questo poi voglia dire che ne nascerà un ‘impegno’, che i moti dell’anima e i gesti debbono condurre di necessità alla concessione di un incontro ancora e farsi preludio a file di continuità per noi.
Ci scioglieremo dall’abbraccio che non c’è stato con la stessa leggerezza con cui avremo conversato. Il sorriso elargito si spegnerà sulle labbra della persona incontrata senza rimedio. La malinconia che ci prende subito, perché avvertiamo distintamente che tra poco tutto finirà e finirà per sempre, invoca un rimedio. Bisogna trattenere la fonte della felicità subitanea che abbiamo provato. Allora, sciuperemo con la stessa rapidità con cui siamo stati proiettati in Paradiso il bene appena ricevuto. La caducità di quella bellezza è cosa a cui non vogliamo rassegnarci. Vogliamo l’amore che dura. Non ci accontentiamo di quello che non dura. Non esitiamo, infatti, a chiamare già amore un moto dell’anima trattenuto e sospeso. Magari ci convinciamo del fatto che non è amore, che non è detto che debba essere chiamato sempre amore questo dolce che si distilla per noi nelle subitanee epifanie mondane della bellezza. Faremo tutte le necessarie distinzioni, per non irritare il giudice severo che ci richiama alla realtà, ma i demoni che ci accompagnano possono essere messi facilmente a tacere, presi dal miele che pregustiamo ad ogni istante che procediamo verso l’eternità.
Questo soltanto sappiamo fare. Stropicciare gli angeli senza rimorsi. Ignorare l’istante eterno che solo ci è concesso, incuranti del rischio di perdere il poco che pure ci è concesso. Tra i tanti Paradisi che amiamo edificare per noi, quando appare un nuovo che ci sconvolge l’anima per un po’, ce n’è uno che merita maggiore prudenza. Dovremmo imparare l’arte dei congedi, la difficile arte degli addii, che pure si impone ad ogni piè sospinto, tutte le volte almeno che uno stupefatto avanzare della vita verso di noi si risolve in un altrettanto rapido svanire. Non vorremmo essere in quell’intervallo che precede la felicità, perché non riconosciamo i segni del tempo. Non si annuncia nessun Paradiso ancora. Perché l’anima si proietta allora verso un premio che non corrisponde a nessuna promessa dichiarata? La creatura è in ascolto. Tendere a sentire le giuste voci è compito solenne. Solo così la vita non ci prenderà in giro.
Contributi a una cultura dell’ascolto CAMMINARSI DENTRO (384): Togliere ai poveri e dare ai ricchi
MARIO PIANTA, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, LATERZA
Mario Pianta, docente di Politica economica all’Università di Urbino, fa parte del Centro Linceo Interdisciplinare “Beniamino Segre” dell’Accademia Nazionale dei Lincei. È stato fellow all’European University Institute, alla London School of Economics, all’Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne e alla Columbia University ed è tra i fondatori della campagna “Sbilanciamoci!” sulle alternative di politica economica.
IN BREVE Ogni ricco ha il reddito di cento poveri. Non è l’Inghilterra di Dickens, è l’Italia di oggi. Redditi e ricchezza si sono concentrati nelle mani di una persona su dieci. Le altre nove – quasi tutti noi – stanno peggio di dieci anni fa, sono i ‘perdenti’, divisi in mille modi – tra uomini e donne, tra vecchi e giovani, tra Nord e Sud – ma uniti dal declino. Com’è potuto succedere? Togliere ai poveri per dare ai ricchi, rendere il lavoro più debole e il capitale più forte è da trent’anni l’orizzonte del liberismo. Da qui ha origine la crisi attuale, in Europa e in Italia. Ma un’alternativa c’è, ci meritiamo un altro futuro.
Contributi a una cultura dell’ascolto CAMMINARSI DENTRO (383): Esercizi di resistenza al dolore
La potenza del male è grande, ma la potenza del dolore è maggiore. Solo il dolore è più forte del male: l’unica speranza di debellare il male è affidata al dolore, che per travagliosa e dilaniante che sia la sua opera è l’energia nascosta del mondo, la sola capace di fronteggiare ogni tendenza distruttiva e di vincere gli effetti letali del male. – LUIGI PAREYSON, Filosofia e libertà
Abituati a pensare i processi di miglioramento personale in termini di esercizi spirituali, non ci saremmo aspettati di incontrare in un libro sulle donne e sulla violenza che si abbatte su di loro l’idea che possa trattarsi di un esercizio il loro resistere al dolore. Eppure, è così che Concita De Gregorio mette a fuoco il vasto repertorio delle risposte al dolore da parte delle donne.
C’è un tipo di bellezza di cui non parlano artisti e filosofi e che non si può fermare in alcun modo in un’opera. Essa giunge inaspettata come un temporale di primavera, per arricchire i giorni e confermare la realtà di un legame. Parla solo a noi e torna a mostrarsi anche in forme inedite e nuove. Non si tratta di contemplare un oggetto dotato di caratteristiche seduttive, perché colpisce al cuore. Non produce sommovimenti e sobbalzi né irrigidimenti repentini, quasi fosse spavento l’immensurabile epifania che si avanza. E’ il suo volto, è la voce, il passo nervoso e incerto a proporre un’apertura improvvisa del cuore.
Siamo abituati a fissare in un’immagine e basta le armonie e le simmetrie, le linee che parlano alla fantasia e la eccitano, facendole sognare storie che nessuno narrerà mai. Non chiamiamo bellezza la figura che salva, perché contiene la promessa dell’istante che seguirà. Ci basta l’eterna e immutabile pulchritudo di sempre, quella che ci vince e ci riempie il cuore di nostalgia, come se avessimo perduto ciò che non abbiamo posseduto mai! E’ stato dato il nome di desiderium a questa follia della mente, a questo accarezzare la mancanza e l’assenza di ciò che non ci appartiene. La sua origine è forse proprio in quell’astratto contemplare un’immagine e basta. Come se da un calco potesse sollevarsi il profumo della vita e raggiungere i nostri sensi e stordirci con la sua dolcezza!
Io preferisco per me lo sguardo incerto e compunto, e una voce sempre ferma e insinuante, a volte roca e stridente, che stanno lì a ricordarmi il dolce che si nasconde dietro l’aspro rimprovero e il rimpianto dolente di chi non accetta il distratto discorrere di cose che non si incontrano mai con la bellezza nascosta, che sta lì, davanti ai nostri occhi, racchiusa tutta in quella superficie di sguardi e di suoni e di gesti trattenuti e scomposti.
Al piacere statico della contemplazione e basta preferisco la danza della vita, che è fatta delle cose a noi note, che si fanno miele che si distilla per approssimazioni e contrasti. La promessa di un abbraccio. L’incedere solenne e misurato, quasi ci fosse da occupare in ogni istante una posizione nell’aria, alla maniera di una danza. L’intonazione calda della voce. Ma soprattutto, lo sguardo rivolto verso di me. Proprio verso di me. Non come sono soliti guardare nelle ore stanche della sera i vicini e i lontani. Ma nelle prime ore del mattino, quando la vita è una promessa, e quella promessa sorride a me, solo a me. Questo tipo di bellezza è tutta nell’incanto delle cose, nell’incontaminato stupore del mattino della vita.
Contributi a una cultura dell’ascolto CAMMINARSI DENTRO (381): ANTONELLO CORREALE, Ogni relazione è terapeutica?
La relazione tenuta dal Professor Antonello Correale, psichiatra e psicoanalista, durante il Congresso XII GIORNATE PSICHIATRICHE ASCOLANE (11-13 maggio 2011).
Contributi a una cultura dell’ascolto CAMMINARSI DENTRO (380): MASSIMO RECALCATI, Lacan e le aporie del desiderio
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Abbiamo incontrato Massimo Recalcati: prima parte di una lunga intervista.
Su Psychiatry on line Italia pubblica le sue “Lezioni su Lacan“. Massimo Recalcati vive e lavora a Milano. È tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia. Si è formato alla psicoanalisi a Parigi con Jacques-Alain Miller. Ha partecipato, ricoprendo diversi incarichi istituzionali nazionali e internazionali, alla vita della comunità lacaniana raccolta nell’AMP (Associazione Mondiale di Psicoanalisi). Ha avuto la responsabilità della direzione clinica e scientifica dell’ABA (Associazione per lo studio e la ricerca dell’anoressia e della bulimia) dal 1994 al 2002. Ha svolto la pratica della supervisione clinica in istituzione presso le sedi ABA di Milano, Torino e Roma, le ASL di Pavia e di Riccione, la Comunità La Vela di Moncrivello (Vc), la Clinica Palazzolo di Bergamo. Negli ultimi tre anni è supervisore del SERT e presso il reparto di neuropsichiatria infantile dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Ha insegnato nelle Università di Milano (in collaborazione con la cattedra di Filosofia Morale, dal 1991 al 1994), di Padova (in collaborazione con la cattedra di Teorie e tecniche della psicologia dei gruppi) e di Urbino con la cattedra di Teore e tecniche del colloquio dal 1998 al 2001. Dall’anno accademico 2006-07 insegna Psicopatologia del comportamento alimentare presso l’Università di Pavia e dall’anno accademico 2003-2004 Psicologia dell’arte presso l’Università di Bergamo. Dall’anno 2007-08 insegna Clinica psicoanalitica dell’anoressia all’interno de CEPUSPP (Centre Einseignement postgradue en psychiatrie et psychotherapie) di Losanna. Nel 2003 ha fondato Jonas: Centro di ricerca psicoanalitica per i nuovi sintomi e nel 2007 ha ideato Palea: Seminario permanente di psicoanalisi e scienze sociali. Ha diretto diverse collane di psicoanalisi occupandosi della trasmissione dell’insegnamento di Jacques Lacan. Ha tenuto conferenze e seminari in diverse città d’Italia e d’Europa (Dublino, Ginevra, Valencia, Madrid, Parigi, Siviglia, Losanna, Granada). Le sue numerose pubblicazioni si sono occupate prevalentemente delle forme contemporanee della psicopatologia, della teoria psicoanalitica di Lacan e di estetica psicoanalitica. I suoi lavori sull’anoressia e sui disturbi alimentari sono stati tradotti in diverse lingue. Collabora con diverse riviste nazionali e internazioni e con il quotidiano Il Manifesto. È direttore dell’IRPA (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata).
Sembra che i dati nazionali delle ultime ricerche statistiche denotino un calo nell’uso di sostanze stupefacenti fra i ragazzi tra i 15 e i 19 anni, la fascia d’età che sembra reagire meglio agli interventi di prevenzione. Ne siamo felici e anziché abbassare la guardia insistiamo con gli interventi di riduzione della domanda che ci impegniamo da anni a promuovere sul territorio in collaborazione con le maggiori istituzioni a partire dall’Università di Cassino e dalla Asl per arrivare ai Comuni del comprensorio. Proprio nelle scorse settimane abbiamo presentato una Guida per genitori affinché abbiano a disposizione gli strumenti necessari per comprendere l’insorgere di disagi o di comportamenti che possono essere collegati ad un primo uso sperimentale di sostanze stupefacenti. Siamo alla ricerca di fondi per stamparne un numero significativo di copie al fine di darne ampia diffusione. Oggi è indispensabile superare una cultura che nel nostro Paese per molti anni ha rallentato enormemente la consapevolezza degli adulti di fronte al disagio degli adolescenti. Penso alle politiche di riduzione del danno e a quella cultura della “tolleranza” che, nascondendo una arrendevolezza ed una incapacità di affrontare la questione sul piano delle responsabilità educative, ha contribuito a diffondere l’idea che certe cose non fanno male e, comunque, le fanno tutti. I ragazzi devono capire, sin dalla più tenera età, che tutte le sostanze stupefacenti sono gravemente dannose per la salute psico-fisica e sociale della persona e ne impediscono una presenza positiva ed armonica nella società. Oggi non ha più senso riferirsi ad una piuttosto che ad un’altra sostanza: il policonsumo è ormai il comportamento prevalente sostanzialmente fra tutti gli assuntori. Piuttosto che gridare allarmi bisogna interrogarsi seriamente sulla qualità degli ambienti che frequentano i nostri figli. Alcuni di essi sono particolarmente vulnerabili, per mille ragioni, ed hanno bisogno di azioni di prevenzione sostenute e mantenute nel tempo. Basta dunque con decine di interventi spot della durata di poche ore, figli magari di un finanziamento politico dell’ultima ora. Siamo d’accordo a considerare l’uso di droghe come un disvalore, senza se e senza ma? Se si, smettiamola di essere superficiali e cominciamo a dire in maniera chiara ed inequivocabile, oggettiva e comprensibile che bisogna evitare assolutamente l’assunzione di droghe. Per questo è indispensabile supportare e rinforzare il ruolo e la responsabilità della famiglia e della scuola. Sono le agenzie educative più importanti dove la maggior parte dei ragazzi può vivere una proposta educativa densa di significati e fortemente formativa per la propria vita. Per questo è necessario che ci sia condivisione del progetto educativo, coerenza di messaggi e sintonia di azione. Non è impossibile. Ma bisogna crederci e mettersi in gioco per lavorare a questo obiettivo. Il terzo pilastro è quello del tempo libero. E qui, chi ha responsabilità amministrative, dovrebbe perdere il sonno per pensare a come realizzare centri di aggregazione giovanile, magari anche utilizzando risorse e strutture a cui prima non si poteva pensare. Torno ad un vecchio cavallo di battaglia che ha sempre trovato orecchie sorde: apriamo le scuole di pomeriggio e trasformiamole per l’altra metà del tempo in luoghi in cui i ragazzi possano suonare, cantare, recitare, scrivere, discutere, incontrarsi, confrontarsi e magari anche studiare. Noi, come tutti sanno, siamo a disposizione.
La Fondazione Exodus Onlus promuove, dal 14 al 29 aprile, una campagna di raccolta fondi tramite SMS solidale al 45504 per sostenere il progetto di ristrutturazione iniziato lo scorso anno de “La casa dei ragazzi”, Comunità Educativa con sede a Cassino (FR). L’intervento prevede l’ampliamento della struttura esistente e la costruzione di nuovi spazi per accogliere adolescenti e pre-adolescenti con problemi di dipendenza o disagio psichico provenienti da tutta Italia. La nuova sfida di Exodus, da oltre 25 anni impegnata nel campodell’educazione e del recupero dei giovani con problemi di dipendenza, è quella di sostenere i giovani più fragili e “arrivare prima” che la loro vita si spezzi. Da qualche anno infatti la soglia d’età in cui i ragazzi iniziano ad assumere “sostanze” si è notevolmente abbassata, mentre il sistema dei servizi che nel nostro Paese si occupa di adolescenti in difficoltà è insufficiente e inadeguato. L’obiettivo – spiega Don Mazzi, fondatore di Exodus – “è quello di favorire l’attivazione di adeguate “reti sinergiche” che siano in grado di consentire il ripristino del benessere e dell’autonomia del ragazzo all’interno del proprio nucleo famigliare di origine”. Dal 14 al 29 aprile 2012 sarà possibile inviare un SMS del valore di 2 euro al 45504 da tutti i cellulari personali TIM, Vodafone, WIND, 3, PosteMobile, CoopVoce, Tiscali e Noverca. Chiamando lo stesso numero si possono donare 2 euro da rete fissa TeleTu, oppure 2 o 5 euro per ciascuna chiamata da rete fissa Telecom Italia, Infostrada, Fastweb e Tiscali.
Se l’espressione ‘toccare l’anima’ dell’altro non risultasse immediatamente tattile, riferimento diretto a una manipolazione che plasma, che dà una (diversa) forma alla cosa, potrebbe anche andar bene per noi. Ma se la depuriamo di questo suo senso fisico, dell’idea di una pressione, di un abbraccio quasi, e dell’effetto plastico su ciò che sta oltre la superficie, direi che è perfetta, perché il tocco appena accennato, quasi uno sfiorare la superficie e basta, a cui alludo, si risolve in una vibrazione intensa che assomiglia ad una voce. Accostarsi a un’anima e avvicinarsi soltanto, avvicinandosi indefinitamente, come se lo spazio da percorrere fosse una spaziatura sonora interminabile, al pari di un’onda che si propaga da noi verso l’altro per ritornare contemporaneamente verso di noi, (ri)sospinta dall’altro, è atto più che gesto. Non un semplice passo – un passo semplice in direzione di – ma il frastuono di un’onda, il fragore di acque sommosse che si propagano con il rumore che le accompagna e che aspira a farsi onda, riverbero dei moti del cuore. Con la voce soltanto, al di qua del comprendere di un abbraccio, arrivare lì, dove si incontra un’esultanza trattenuta e si coglie il respiro, il sospiro, l’affanno, l’impercettibile ansito breve che sale dalle vertiginose profondità del cuore, nel buio tremante palpito di un’emozione. Ai confini dello sguardo incontriamo esattamente questo ondeggiare, che assomiglia al mal di mare in terraferma. Non è un malessere compiuto, dispiegato. Piuttosto, è l’esitazione che precede e accompagna l’accenno a un moto lento e misurato, che distilla e trattiene l’impulso a raggiungere la meta desiderata. Il ritrarsi del corpo, che quasi si torce, per mimare la volontà di un indugio perplesso, attende risposta, l’assenso ulteriore ad un moto che aspira a farsi passo di danza, voluta di fumo al cospetto di chi non può essere (ancora) toccato veramente. Nella misura di un’onda trattenuta è chiuso il senso di un procedere che non è vero avanzare nello spazio fisico che separa (ancora). Continuare a separare lo spazio fisico in infinite particelle da attraversare è un centellinare il gusto dell’onda dell’altro che allo stesso modo procede verso di noi, riconoscendo un’onda familiare, non più perturbante per noi. Il puro contatto delle voci e il corrispondersi affannato del respiro e il moto agitato e casuale delle braccia e delle gambe, quasi a voler cercare posizioni più sensibili a quanto sta per accadere, si placa in un sorriso, breve assenso soddisfatto, quasi un placato porre termine a una lunga contesa per la verità. Il consenso che giunge fino a noi non è il termine della beatitudine e nemmeno il rasserenato stupore di chi sia stato raggiunto contro la propria volontà senza opporre resistenza. Non ci fu contrastato diniego né altero disdegno in un inespressivo restare. Piuttosto, una bocca appena spalancata che non riusciva a dire ancora l’effetto di quel tocco che era stato uno sfiorare appena. Il moto accennato della superficie dell’anima imprime il suo ritmo al sorriso e al respiro che accompagna il rapido affanno, il trattenuto sospiro. Come onda che corrisponda all’onda dei ricordi, l’altro avverte l’onda che sale, l’onda del ricordo evocato dalla nostra voce accorata. Riconosce l’effetto del nostro tocco prudente e si abbandona a fiducioso e confidente sorriso.
CAMMINARSI DENTRO (376): Tra un’apparenza e l’altra: un’altra solitudine
Il potere grande dell’illusione è tutto qui, nella sua capacità di far durare nel tempo, anche per anni, addirittura per decenni, il sentimento di qualcosa che accadrà, che accadrà a breve, che senz’altro accadrà. Almeno, così ci è stato detto e promesso. Magari con vaghe allusioni, sicuramente con rinvii e pretesti credibili, per impegni verosimili, impedimenti reali, ma crescenti. Il difetto grande della fonte dell’illusione risiede nel fatto che deve essere quasi totale, avvolgere e riempire tutto il tempo, mantenerci in uno stato di sospensione che non si traduce mai in una parola chiara, una sentenza definitiva. Noi vorremmo anche un giudizio di condanna senza appello, i sensi di una decisione irrevocabile che aiutasse a mettere il cuore in pace, distogliendo magari lo sguardo altrove, per concentrarsi meglio sulle proprie umidità gastriche, da sempre aborrite, quasi fossero trasgressione morale o tradimento. Dovevamo essere interamente proiettati sulla chimera, presi dal sogno ad occhi aperti, dalla favola di ciò che sarebbe accaduto. Ma che puntualmente non si è verificato.
La distruttività di questa emozione sta esattamente nel fatto che ci accade di chiedere, di ostinarci nella ricostruzione di momenti e di cose dette, per carpire un segreto, per far rilevare la crepa che dovrebbe immettere in una nuova verità, concedendoci finalmente lo squarcio di luce sulla nostra condizione, che è poi tutto ciò che chiediamo. La pericolosità dell’insistenza è nella povertà da cui parla. E’ la mancanza il peccato di origine. Ci era stato promesso ciò che immancabilmente è presente in ogni relazione sentimentale che si rispetti. La promessa non risiede in un giuramento o in un patto sottoscritto con un rito non scritto. E’ sufficiente imboccare la strada del sentire condiviso perché poi si finisca giustamente per accampare diritti che non sono riconosciuti.
Ci scaraventa nel paese senza tempo delle chimere la convinzione di stare in un patto, di averlo sottoscritto con qualcuno che ha detto sì assieme a noi, che avrebbe nel tempo rispettato l’accordo, come noi abbiamo fatto fedelmente ogni giorno per mesi e per anni, ingenuamente convinti del fatto che passare dal riconoscimento quotidiano e dalle corrispondenze amorose ai silenzi studiati e ai dinieghi faccia ancora parte del patto.
Siamo ciechi. Diventiamo ciechi. L’evidenza dell’amore che sola conta non c’è più. Ora altre evidenze si impongono alla vista che non vede, perché presa da altre evidenze, dai vuoti riempiti da noi, che prestiamo le parole e ci diciamo quello che nessuno ci sta dicendo, che continuiamo a credere a ciò che non c’è lì davanti a noi, luminosa presenza di sempre.
Siamo nella mancanza, eppure riscaldiamo il nostro cuore di una fede che proviene senz’altro dal bene ricevuto, che ci acconciamo a credere che sia ancora lì, a due passi da noi, dunque ancora per noi. Questa nostra fede non merita la smentita crudele che non verrà, che non viene. Noi crediamo di non meritare una smentita, per aver lungamente prestato fede all’amore. Questo ci sembra di poter dire a noi stessi, per affrontare i giorni sempre uguali, trafitti solo dal dolore della mente, che si affanna a cercare un varco che non si apre più.
Il nuovo in cui ci ritroviamo quando arriviamo a decidere di non credere più – e questo è ciò che prevalentemente non facciamo – è dato dal puro vuoto della mancanza, dalla perdita di senso di qualcosa di cui non ci siamo ‘sbarazzati’ ancora. Siamo lucidamente infelici, perché comprendiamo bene che la felicità è a portata di mano, ma non riusciamo ad afferrarla. Questa è l’infelicità più grande. L’indugio e l’ostinazione nascono da qui, da questa sensazione di possibile che sconfina in una libertà infinita. E’ tutto nelle nostre mani. Sembra quasi che il nostro destino sia nelle nostre mani. Ma si tratta solo del fatto che siamo a due passi dalla decisione di riprenderci la nostra vita, per ritrarci al di qua dell’amore in cui avevamo creduto.
Noi possiamo oscillare indefinitamente tra apparenza e realtà, tra la falsa apparenza dell’amore che non c’è più e la bella apparenza di un tempo, che rinviava alla evidenza prorompente dell’amore. Il destino dell’infelicità è tutto qui, in questo credere inutile nell’evidente apparenza che non è (più) tale, perché il nostro cuore, impegnato a far esistere e a far durare nel tempo l’oggetto d’amore, continua a generare la luce e il calore che riscalda l’altro furtivamente, che non si lascia più toccare dalle piccole mani che aprono e chiudono delicatamente, come fa accortamente la primavera con i suoi primi boccioli.