18 novembre 2022

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Venerdì 18 novembre 2022

TROVARE LE PAROLE. Per dire, ad esempio, le ragioni di una bellezza.
A differenza di chi crede che la realtà sia solo ciò che si vede, assieme a tutto ciò che non si vede, oltre a tutto ciò di cui abbiamo fatto esperienza – la somma di tutte le esperienze -, c’è chi è quotidianamente impegnato a descrivere i frammenti, i barlumi, le schegge, le tessere che non trovano posto in una mappa credibile di ciò che sfugge alla vista, di cui si ha un chiaro sentore, ma che non si riesce a nominare, dunque è come se non esistesse.
Accade spesso, però, di riuscire a trovare le parole, a metterle insieme, creando le schegge vibranti di cui parlava Virginia Woolf, e arrivare a vedere, finalmente.
Chi professa la sfiducia più totale nei confronti delle parole trascura la parola, il potere che la nostra mente esprime bene quando riesce a dare voce al magma sottostante. Da quel non luogo proviene la Scrittura, come la Voce, come il Volto, come tutto ciò che ci sembra chiaramente che non possa essere prodotto dall’azione conscia della mente. Non si tratta semplicemente dell’inconscio. È implicato anch’esso, ma non solo esso. Se fosse solo opera sua, sapremmo dire bene ogni volta che ne è di noi, o riusciremmo a spiegarci l’origine se non la causa del nostro dire e del nostro fare, soprattutto delle nostre visioni, del vedere esemplare che ci permette di dare corpo al semplice percepire che non è mai un vedere e basta. Paradossalmente, è più facile vedere l’invisibile: una carezza, uno sguardo, una premura… È tutto il visibile che si para davanti ai nostri occhi che ci sfugge, che non afferriamo e non riusciamo a tradurre nell’esperienza vissuta che sola dà corpo ai fantasmi della mente.
Le nostre conversazioni, i tentativi d’accesso alla terra incognita dell’esperienza dell’altro, che non vogliamo venga ridotta al già noto, al passato, intransitabile e pregiudicato, i nostri colloqui che vorremmo d’amore, che ci permettessero di stare sulla soglia, sì, ma come chi ha il permesso di visitare la casa, anche se non ha mai varcato la soglia stessa. Noi vorremmo consistere nello spazio in cui si dà ancora ricerca inesausta di corrispondenze, di intese tacite, di volontà di non bruciare nessun istante eterno, scontando il risultato. Noi vorremmo che la scoperta dell’esistenza che esiste fosse ancora sempre territorio da esplorare, che fosse riservato alla parola il privilegio di chi sa dire in ogni momento il dove e il come e le ragioni di un interesse e di una cura che non siano ridotti a nessuna delle ragioni note.

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Giovedì 17 novembre 2022
OLTRE IL REALE C’E’ VITA
Della realtà sappiamo tutto. Essa ci avvolge, è ‘comune’ a tutti noi. Ne facciamo esperienza ininterrottamente. Facciamo i conti con il suo aspro sapore, a volte. Altra cosa è il Reale, il nostro Reale, tutto l’invisibile della nostra esperienza personale, che pure è incarnata. Paesaggio affettivo, sfondo su cui si stagliano le figure a cui diamo vita, proiettando in esse le mappe del nostro cervello e le immagini della nostra mente. Costruiamo la nostra mente, arredando la provincia che abitiamo, fatta delle cose che appartengono solo a noi: tutto il passato personale, i suoi residui a volte grandi e insopprimibili, difficili da elaborare pienamente, da sublimare, perfino da rimuovere, il nostro Irredimibile; i rimpianti, le malinconie, la nostalgia, le vane attese, le feroci illusioni; gli amori mai nati, i malnati, gli amori impossibili, quelli sbagliati; i tempi e le epoche della nostra vita, i fatti memorabili, le viltà e le miserie, l’Inconfessabile; i nostri avi, i maestri, quelli di cui ci siamo fatti eredi, la Phronesis, la saggezza personale; il vero amore, i dolci figli, la Speranza; la casa, il lavoro, le relazioni formali, gli impegni di ogni genere, di cui è piena la nostra vita.
Immaginate poi che accada qualcosa, di udire altre voci, di essere chiamati altrove, di essere improvvisamente immersi in una sorta di idillio, nel piacevole conforto di un incontro inatteso, insperato. Che si affacci a salutarci un volto, una voce, le attrattive di un’esistenza che esiste, all’apparenza leggera e accessibile allo sguardo, promettente. Senza illudersi mai, scoprire che un dialogo è possibile, consistere insieme in una regione mediana, che non trascura, non ignora, non finge di non ricordare il proprio Reale e quello di chi ci sta di fronte.
Non costituisce forse l’inciampo maggiore il suo ‘peso’, lo sfondo d’impossibile che piace tanto al desiderio, con le sue aporie irrisolte? Quante volte abbiamo creduto di poter credere e ci siamo incamminati sulla strada che non portò mai da nessuna parte, se non alla scoperta infinite volte ripetuta della consistenza del nostro Reale? Non decidemmo mai di congedarci del tutto da esso, per approdare a nuovi lidi, per realizzare un’altra vita solo sognata, magari vagheggiata lungamente, fatta di cose pure iniziate, di nuovi tempi pure vissuti, di intere epoche che non segnarono mai il distacco impossibile da esso.
Eppure, oltre il Reale c’è vita. Ci accade di oscurare, mettere in secondo piano, quasi ‘dimenticare’, fingere di non avere infanzia e storia, una vita e un amore, una casa e un lavoro, uno spazio vitale ampio e ben ‘arredato’. Ci accade di sentire che non di infedeltà si tratta né di velleitario conato verso il nuovo e l’attraente mondo precario ed effimero di ciò che non dovrebbe avere diritto di cittadinanza, ma che pure si dà, gioiosamente ma non irresponsabilmente né superficialmente dimentico di tutto l’Irreversibile che sta lì a ricordarci che abbiamo lungamente vissuto già, che abbiamo avuto tanto di cui ringraziare, che non è saggio aggiungere di che farsi perdonare.
Non al di là del Reale, dunque, ma oltre il Reale. Non presumendo di poter ‘scavalcare’, elidere, mettere a tacere tutto ciò che conta e che pesa e che parla e che chiama a sé, ad ogni piè sospinto.
Oltre a tutto il Reale, che sembra non esaurire le possibilità dell’esistenza che esiste nel tempo mondano, si dà altro che è possibile esperire, per cui non ci sarebbe ‘spazio’, ma che pure trova ‘posto’, paradossalmente dentro e accanto e lungo i confini del nostro Reale. Ora prudentemente sulla soglia, ora distante, ora dentro i confini, accanto a tutto il pieno che sembra non concedere spazio per altro.
Fare spazio, trovare tempo, contemperare, concedere credito, dare voce, dare il nome che non ferisce e non offende, arredare e ospitare e chiamare e amare di un altro amore, al di sopra dell’amiciza e dell’amore, al di qua dei sentimenti noti, nella regione abitabile del tempo che pure abitiamo con le infinite relazioni che non costituiscono pericolo per il Reale che pure abitiamo.
Un critico vivente scriveva anni fa su un “amore astratto”, concepito come possibile al di sopra di tutto il già noto, chiara comunanza di intenti tra spiriti consapevoli di tutto il peso delle cose, oltre il quale consistere senza nominarle. Come il personaggio protagonista di “Ultimo tango a Parigi”, che non vuole sapere, baroccamente convinto di poter mettere tra parentesi il dolore che pure si porta dentro e condiziona quello che fa.
Le obiezioni morali al nostro sentire sono destinate ad infrangersi tutte contro il sentimento della Gioia e contro il sentimento del Dolore che segnano il nostro consistere ‘ai bordi del Reale’, nel territorio che sempre concorre a definire l’imponderabile, l’impercettibile, l’inscalfibile tratto dei margini della nostra esperienza, là dove ci accade di scoprire l’esistenza dell’altro, nella sua consistenza che saremmo tentati di definire ‘eterna’, per l’impossibilità di sottometterla alle leggi della precarietà, della provvisorietà, dell’inattendibilità che contraddistinguono spesso i sentimenti umani.
La destinazione mondana a cui ci consegna la Gioia proviene dal sentirla come originata da quella esistenza che spontaneamente si situa nelle regioni abitate da noi, che ci viene incontro e che ci parla e che si allontana da noi senza generare alcun sentimento di privazione, di assenza, di mancanza. Non sarebbe Gioia, se non fosse contraddistinta da pienezza e dall’assenza del desiderio di chiedere altro. Siamo paghi del fatto che lei esista, che una persona esista per noi, interessata a parlare con noi e a riguardarci a sua volta come esistenza che esiste, che non genera il senso doloroso della mancanza, dell’assenza, della privazione.
C’è da dire che un tale sentire si addice agli spiriti magni, alla grandezza morale di chi è consapevole di sé e riesce a fondare interamente sulla propria coscienza le scelte consce di cui è capace.
Se l’esperienza del dolore è la sola voce che garantisca il governo del sentimenti, accanto alla Gioia sarà il Dolore a sostenerci nel cammino esistenziale. Percorrendo insieme i sentieri del reciproco riconoscimento, arrederemo la provincia dell’impero, senza trascurare mai le altre voci, quelle che abitano da sempre il nostro Reale. Consistere in questo territorio, nella terra incognita dell’esperienza dell’Altro è divino, perché fonte di Gioia sempre rinnovata. Questo è il vero mistero, il dono insperato che si rinnova facendoci sentire creature privilegiate, che non hanno più bisogno di doversi sentire degne di essere amate.

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Il gruppo come moltiplicatore di apprendimento

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L’essenza dell’errore consiste nel fatto che non lo conosciamo (Blaise Pascal).

L’essenza dell’illusione risiede nel difettoso lavoro di interpretazione delle percezioni interne (Max Scheler).

Per imparare a pensare una buona via d’accesso alla conoscenza potrebbe essere questa: siamo disposti ad accettare una moltiplicazione degli sguardi – che altri ci aiutino a vedere l’errore e a interpretare correttamente l’esperienza, per non cadere preda dell’illusione? Le condizioni che rendono il gruppo un moltiplicatore di apprendimento sono due: l’interdipendenza positiva, cioè la percezione e la piena consapevolezza che il risultato, positivo o negativo, non possa essere che un esito collettivo; la responsabilità personale, cioè ognuno si deve sentire responsabile non solo del proprio lavoro ma anche di quello di tutti gli altri.

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Pesantezza

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ENTRANO IN SCENA I SENTIMENTI
PESANTEZZA (1) Quando la pesantezza non abbia ancora perso la propria consistenza.
20 agosto 2018

Non basta lasciare che affiori dal magma indistinto un’immagine o una catena di parole. Occorre energia. Ma quando essa preme, assieme all’immagine o alla catena di parole, pesa. Ne sentiamo il peso. Sarebbe più corretto dire che si impone la pesantezza di un dire che fuoriesce impetuoso, senza ordine né misura. Spesso ci sorprendono enfasi e sovrabbondanza di parole. Vorremmo essere scabri ed essenziali, come acque di lago che si perdano nella pianura circostante, non torrente né fiume. Non l’energia del discorso è richiesta ma proprio la forza fisica che ci spinge ad agire, ad affrontare tutti gli inciampi, senza lasciarci spossati, come quando, dopo l’amplesso, il desiderio sembra smarrire la sua meta.

«Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio».

Fin qui Calvino, che nella prima delle sue Lezioni americane (1988), dedicata alla Leggerezza, conferisce alla pesantezza pari dignità rispetto al suo opposto. Nel testo, tuttavia, non ritorna più su di essa, lasciando quasi a noi il compito di esplorarne il ‘territorio’.

Abbiamo vissuto tutti la condizione di chi si sia sentito eccessivo, per aver parlato troppo e male; fuori posto, per aver indugiato a lungo in una casa in cui non si sia sentito accolto; residuale, per aver continuato a vivere un’esperienza ormai esaurita… E’ facile, a cose fatte, concludere che bisognava misurare le parole, che bisognava andar via, che occorreva congedarsi da una relazione ormai ‘intransitabile’. La misura del linguaggio non è sempre già data. La capacità di riconoscere le situazioni e prenderne atto dipende dagli stati della nostra mente, che sono registrati bene dalle emozioni: al culmine dell’elaborazione del tempo vissuto ci allontaniamo dai luoghi del disagio e del dolore. L’eutanasia di un amore, come di ogni altro sentimento positivo, non è un gesto, una decisione: solo in fondo all’elaborazione delle ragioni di un errore e dopo aver consumato tutti i termini dell’illusione che ci teneva ancora dentro relazioni sbagliate, arriviamo a congedarci senza voltarci a riconsiderare il naufragio da cui siamo fuggiti. Quante volte abbiamo sentito esaltare la raffinatezza, la signorilità, il garbo, le maniere, il modo di porgere di chi solo questo si aspettava da noi, per non sentire il peso della nostra esistenza, l’ingombro dei nostri lunghi racconti, la domanda muta d’amore! Non abbiamo forse riconsiderato infinite volte i nostri inemendabili errori, per aver alzato la voce, per aver accusato senza prove, per aver fatto torti che hanno ferito e arrecato un dolore che si è protratto per anni? Non siamo tutti pronti a riconoscere che è da preferire una persona che inceda con leggerezza, che sappia evitare le secche del discorso, che conosca i modi per evitare i conflitti, anche se con il ricorso all’ipocrisia e alla simulazione? Non abbiamo sempre anteposto le ragioni dell’astuto Odisseo alla pietas di Enea come alla parresia di Socrate? Entrano in scena i sentimenti: qui, entra in scena la pesantezza. Di essa soltanto parleremo, e lo faremo a lungo, perché le cose di cui siamo stati spinti sempre a dolerci appaiano sotto una nuova luce. Nella società del risentimento, occorre fare posto a un modo di consistere che non può essere riguardato a lungo come un ‘negativo’ soltanto. Che si parli di etica del risentimento, ad esempio, è cosa che merita lunghe riflessioni e parecchi approfondimenti.

ENTRANO IN SCENA I SENTIMENTI
PESANTEZZA (2) Si tratta sempre di scegliere se “togliere peso” alle cose oppure no.
21 agosto 2018

L’attitudine all’ascolto – nelle relazioni d’aiuto – richiede capacità di accettazione: che si contempli sempre la possibilità che la parola dell’altro sia vera, anche solo per un po’. Nel cuore di un colloquio si ripropone sempre una chiara asimmetria tra chi vive nel disagio e chi possiede ‘risposte’ al disagio: naturalmente, non si tratta mai di verità calate dall’alto, dall’alto di un sapere che non è mai dato. L’unico sapere possibile è quello che non possediamo: il senso generale dell’esistenza dell’altro. Per questo, non dovremo cadere mai nella trappola dell’esperto, comportandoci come se le nostre conoscenze e le nostre esperienze fossero utili nella comunicazione emotiva avviata. Addirittura, ci svuotiamo completamente, per farci ‘vaso di scelta’, cioè per rendere possibile l’ingresso dell’altro nella nostra anima. Tutte le sue ragioni ci appariranno subito pesanti, talvolta assurde, incomprensibili. Segretamente, siamo anche smarriti. Ci comportiamo, tuttavia, come se quello che l’altro mette in comune con noi fosse ammissibile, plausibile, interessante. Non potremo ‘recitare’ in nessun momento, pena la sfiducia che genereremo nel nostro interlocutore. Se immaginate settimane e mesi e anni – anche decenni – di ascolto attivo, di lavoro di motivazione orientato alla presa di coscienza nell’altro della possibilità di un’altra vita, vi apparirà chiaro quanto possa essere ‘pesante’ sostenere colloqui sempre uguali, per interi anni in cui non accade nulla, senza nessun progresso. Anche questo è pesantezza.

Ora immaginate grandi porzioni della nostra vita, intere epoche in cui non si dia mai niente di ‘nuovo’, che la vita scorra sempre uguale a se stessa, che il nostro partner non abbia mai bisogno se non di quello che ha già, essendo comodamente adagiato nelle sue rigide abitudini; che ci rimproveri ad ogni più innocente tentativo di uscita serale, al bisogno di nuovi amici, di passeggiate; che contempli solo le proprie esigenze e preferenze, perfino nella scelta del cibo; che pretenda, finalmente, da noi un impegno a cambiare, come se scegliere l’immobilità e la ‘conservazione’ fossero un ideale di vita, il cemento di una relazione sentimentale… Se avrete osservato simili condizioni nella vita di un parente o di un amico, comprenderete come pesantezza significhi talvolta mentalità ristretta e autoritarismo, scarsa propensione alla cura, alle premure, alla comprensione dei bisogni dell’altro. I processi di individuazione, che non appartengono solo all’età evolutiva, possono interessare l’età adulta e il tempo che resta. Se dalla parte nostra si darà una spinta forte al cambiamento, perché le occasioni favorevoli della vita ci chiamano; se nuove evidenze si imporranno in noi, suscitando un nuovo sentire, occorrerà avere di fronte un partner pronto a sua volta al cambiamento, che non tema la nostra crescita spirituale e l’apertura al nuovo che ci viene incontro. Ogni perplessità e malinconia e timore potranno rendere vischiosa la nostra coscienza, consegnandoci alla zona grigia in cui dissimulazione onesta e menzogna si confondono. Non intendiamo, con questo, esaltare la leggerezza come stile di vita e attitudine morale, come se valessero solo le ragioni di chi è chiamato altrove dalle circostanze… E’ indubbio, tuttavia, che una relazione umana sia fortemente sollecitata in direzione centrifuga, qualora prevalgano le ragioni di un solo partner. La sfida del senso vissuto, qui, si gioca sul terreno dell’accettazione reciproca. Fin dove è possibile il ‘sacrificio’ di sé, riusciremo a ‘salvare’ la relazione, senza patire troppo. Se il peso delle richieste è eccessivo, e sordo ad ogni richiamo, le sollecitazioni negative sottoporranno il ‘sistema’ al rischio della crisi irreversibile. Ci ritroviamo tutti, prima o poi, di fronte all’esperienza della pesantezza. Si tratta sempre di scegliere se ‘togliere peso’ alle cose oppure no. Ci interroghiamo su come sia possibile essere ‘leggeri’, senza scadere nell’ipocrisia e nella menzogna. D’altra parte, la schiettezza a tutti i costi aiuterà le nostre relazioni? Dobbiamo dirci sempre tutto? Evidentemente, no. Resta il compito della ricerca paziente della comprensione reciproca, che acquista senso nel momento in cui impariamo a lasciar andare l’altro, perché ascolti il suo desiderio e si lasci guidare dove i ‘capricci’ del desiderio stesso vorranno portarlo. Portare il peso dell’esistenza altrui è possibile a condizione che si accetti la scissione tragica che contraddistingue tutte le relazioni significative.

 

ENTRANO IN SCENA I SENTIMENTI
PESANTEZZA (3) Il peso dei ricordi
22 agosto 2018

«L’angelo è metafora della capacità della mente di uscire dal cerchio chiuso del nostro orizzonte tridimensionale. L’angelo è rappresentazione. La sua funzione non è tanto quella di rivelare all’uomo ciò che è nascosto, di manifestare l’inattingibile, ma piuttosto di indicare l’inattingibile, di custodirlo. In Rilke gli angeli appaiono inizialmente sotto una luce di trionfo, ma solo per mettere in risalto la distanza dalla creatura umana. Ma è proprio questa distanza a costringere l’angelo a entrare in rapporto con l’uomo. E’ così che l’angelo si fa sempre più triste. La sua tristezza deriva dal peso che schiaccia l’uomo: il ricordo (die Erinnerung). L’angelo di Rilke è memore della caduta e perciò è oppresso da una tristezza inesorabile. Ed è questa stessa tristezza che lo avvicina all’uomo…. Se si vogliono tenere insieme polarità distinte come parola e silenzio, manifestazione e invisibile, l’angelo è la figura “necessaria” di questa rappresentazione». MASSIMO CACCIARI, Intervista a Panorama, 9 febbraio 1986

È negli interstizi del tempo (ri)vissuto che andiamo a frugare, in cerca dei nostri frammenti, mossi dalla speranza di veder comparire ben articolati ‘discorsi’ e ‘storie’, segretamente convinti della possibilità di intervenire su di essi, per correggere qua e là, integrare, chiarire… I Padri della Chiesa dell’XI secolo sapevano bene che nemmeno Dio può modificare il passato. Per questo, ci prende la malinconia del così fu di niciana memoria: ci troviamo di fronte ad un irrevocabile, un irredimibile, un imprescrittibile, un imperdonabile. Chiamiamo errore inemendabile tutti gli episodi che riemergono dolorosamente nelle età ulteriori della vita, quasi a compensare con angoscia e terrore quel che non abbiamo voluto considerare errore. Siamo stati bravi a ‘superare’ e ‘oltrepassare’, con coraggio e spirito resiliente. Il peso del passato che ritorna è da portare e basta. Non possiamo andare a cercare uno per uno tutti coloro ai quali facemmo torto, infliggendo un dolore che sarà durato anche anni! Spesso non riusciamo a comprendere le ragioni delle nostre bestialità: contraddicono la nostra natura. Di qui, il loro peso sulla coscienza. E’ questa una specie tutta particolare di pesantezza: non un modo d’essere o un tratto del carattere o una deformazione della personalità degli altri intervengono a costituire per noi motivo di afflizione. Il male è in noi. Il 26 maggio 1976 René Char annotò sul suo Diario: Lieve da portare Martin Heidegger è morto questa mattina. Il sole che lo ha fatto tramontare gli ha lasciato i suoi attrezzi, trattenendo soltanto l’opera. Questa soglia è costante. La notte che si è aperta predilige. E’ stato detto autorevolmente che la morte dell’amico non procura dolore, quasi a voler significare che si tratta di un sentimento che va oltre la morte: non perdiamo veramente il nostro amico. E’ la natura disinteressata dell’amicizia che rende ‘facile’ il distacco. Sentiamo pure il cordoglio ma non come quando siamo toccati dalla perdita o dall’abbandono di persona amata. Dunque, anche se nel caso dell’amicizia il lutto è lieve da portare sempre di peso si tratta: un peso che grava sull’anima e che torna a svegliarsi tutte le volte che il pensiero va all’amico perduto. La sfida del senso vissuto è il compito ricorrente che ci vede impegnati addirittura sul ‘quotidiano’, per togliere peso ai frammenti di senso che non riusciamo a tenere insieme, per comporli in un discorso e in un racconto. Insomma, abbiamo a che fare con la pesantezza delle cose, ad ogni piè sospinto. L’elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta procede ininterrotta. Non sempre essa avanza sicura: sulla sua strada incontra il passato inemendabile. Con il suo peso dovremo fare i conti fino a quando il tempo non avrà provveduto a ‘fare giustizia’ dei nostri frammenti, magari facendoli inabissare nella dimenticanza.

 

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PESANTEZZA (4) Aprèslude
23 agosto 2018

Il tempo che resta è forse la stagione più lunga della nostra vita, se siamo fortunati, dopo l’esperienza del lavoro e tutto il resto che se ne va. E’ stato detto autorevolmente che la vita non è breve, ma siamo noi che la rendiamo tale; gli indaffarati si affannano a riempire e ad ‘ammazzare’ il tempo, sono spaventati quando al giorno manca la sua luce. Essi pensano di dover fare ancora: non possono morire, non sono pronti, c’è ancora qualcosa che debbono fare. E’ incredibile il fatto che dicano alla vita che non può abbandonarli ancora. Come se di questo si trattasse! Come se ci fosse concesso, nell’ora che non ha sorelle, il privilegio di giocare l’ultima partita a scacchi, con la speranza di vincerla, cioè di ottenere un rinvio…

Aprèslude
Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, andartene non puoi
quando è mancata all’ora la sua luce.
Durare, aspettare, ora giú a fondo,
ora sommerso ed ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:
la natura vuoi fare le sue ciliegie
anche con pochi bocci in aprile
le sue merci di frutta le conserva
tacitamente fino agli anni buoni.
Nessuno sa dove si nutron le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèslude.

Benn ci invita ad invecchiare, perché è aprèslude, il meriggio della nostra vita. Anche in questo caso, ci ritroviamo a che fare con la pesantezza dei giorni perduti. Possiamo chiamarli mancati giorni; rimpiangere le occasioni perdute; recalcitrare contro il Destino. Aver vissuto tanto può significare sentirsi addosso tutti gli anni trascorsi, come se incombessero su di noi: il cuore è preso dalla pena, quasi dal pianto, e non si sa bene perché. Le scienze dell’anima parlano di malinconia. I poeti parlano di nostalgia. E’ lo sguardo rivolto all’indietro che prevale. Non c’è quasi presente. Il futuro ci spaventa. Ci fa presagire solo l’appuntamento con il nostro Irrappresentabile: la più vuota delle immagini. Dopo aver imparato a morire, il nostro sentimento del tempo cambia. L’esercizio spirituale più lungo è proprio quello che ci insegna ad abbandonare la vita, vivendola intensamente, giorno per giorno. Solo a questa condizione, arriveremo preparati a vivere l’ora che non ha sorelle. L’elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta, che dovrebbe impegnarci non solo in seguito a perdite e abbandoni, favorisce il lavoro del togliere peso, sottrarre peso alle cose: la bonifica del territorio della mente e del cuore ci aiuta a congedarci da illusioni ed errori, portandoci a percepire la vita tutta come santa e buona. Una dolce dimenticanza interviene dopo che avremo perdonato noi stessi per tutti gli errori commessi. Ogni giorno sia ‘santificato’, chiedendo perdono tutte le volte che ci accade di fare torti, anche piccoli. Ci inchineremo anche di fronte ai piccoli, ai nostri nipotini, per riuscire a sollevarci fino a loro. Guadagneremo così la possibilità di essere perdonati e avremo ottenuto giustizia, ché non sarà stato trascurato nemmeno il più piccolo grumo di dolore.

 

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PESANTEZZA (5) Si configura per noi come un peso da ‘gestire’ l’immane produzione di scarti: essa richiede una manutenzione che può diventare maniacale.
25 agosto 2018

Editoriale della rivista di architettura GRAN BAZAAR, n.12 – gennaio 1985: Scarto e manutenzione
Il nostro secolo sembra essere ossessionato dall’idea dello scarto: come qualcosa che viene perduto e che non può essere sostituito, o come il mutamento improvviso, la mossa del cavallo, che muta il corso del tempo e delle cose, producendo quella che i greci chiamavano katastrophé e Nietzsche “il rovesciamento di tutti i valori”. Forse per questo il nostro tempo ha conosciuto un amore sconfinato per il frammento, quasi fosse possibile con questo amore accompagnare le cose alla loro fine, senza che esse debbano ribellarsi e rivolgersi contro di noi. E forse per questo il pensiero ha prodotto una serie di ideologie del progresso e della crescita, che sembrano mettere tra parentesi ogni possibile scarto subitaneo. In realtà, queste due strategie, l’amore per lo scarto-perdita, la difesa contro lo scarto-mutamento, sono entrambe perdenti. Le macerie salgono fino al cielo, e, come ha detto Montale, “l’escatologia / non è una scienza, è un fatto / senza essere sostituite”. E le teorie della scienza biologica ci hanno reso meno sicuri sull’evoluzione naturale. Oltre alla possibilità, ormai calata nel quotidiano di ognuno, del “minuto violento” che può mutare il corso della vita. Anche la manutenzione, di fronte all’immane produzione di scarti, può diventare maniacale. Vera e propria costruzione di una muraglia cinese, che viene rabberciata via via che la costruzione procede. E maniacale può essere anche la scelta dell’effimero: progettare ciò che non può durare, il soggetto e le sue cose “deboli”, e dunque senza alcuna resistenza rispetto al corso del tempo. Il problema è quello centrale del nostro tempo: il rapporto fra ciò che già esiste e il nuovo, che si presenta oggi con un ritmo sconosciuto a qualsiasi altra epoca della storia. Questo “nuovo” necessario è stato letto, positivamente o negativamente, come la condanna a morte dell’esistente, del passato e della memoria. Ciò che viene prende il posto di qualcosa che deve morire per lasciare lo spazio al nuovo. L’arte della manutenzione (e non la sua maniacale coazione) può rovesciare questa convinzione. Nel concetto di manutenzione non c’è solo la nozione di aggiustamento, ma anche quella di tenere attraverso un’operazione della mano: di trattenere trasformando, operando quella che potremmo definire una trasfigurazione. L’operazione di manutenzione dovrebbe essere dunque quella che interviene nel processo di metamorfosi implicito nel corso delle cose, portando ciò che è in ciò che sta per accadere. Non si tratta di un’operazione che si abbandona alla potenza del tempo, di un’operazione “debole”. Si tratta infatti di progettare una trasformazione che deve portare le cose, i luoghi, le immagini, che si estraniano da noi precipitando nella morte o proiettandosi nell’inatteso, presso di noi, ridisegnando i modi di un nuovo possibile “abitare su questa terra”. Aprire un problema non significa chiuderlo o risolverlo, ma indicare una possibilità, l’avvio di una esplorazione. BARBARA NEROZZI

 

ENTRANO IN SCENA I SENTIMENTI
PESANTEZZA (6) Il peso dell’esistenza
26 agosto 2018

Nella vita di relazione dei singoli, esercita un peso grande il compito dell’accettazione della presenza degli altri, per limiti della persona, soprattutto. Se costituisce un aspetto significativo della realtà umana di chi sappia farsi mente ospitale, si rivela altrettanto significativo l’atteggiamento prevalente di chi non accetti mai consigli di prudenza, l’invito a condividere scelte che vedono anche altri protagonisti: familiari, colleghi di lavoro e colleghi nelle associazioni di ogni genere. Ciò che ci colpisce di più è la chiusura, l’ostinazione, la tendenza ad accentrare su di sé l’attenzione degli altri, l‘angustia della mente. Freud aveva parlato di Versagung, termine che è sempre stato tradotto male, cioè con frustrazione, mentre esso significa Rifiuto (di rinunciare). La misura dell’umanità di una persona – e se sia persona, cioè se il singolo sia riuscito a costituirsi come soggetto morale, se abbia acquistato consapevolezza piena di sé, della propria natura, dei demoni che lo guidano, e se sia capace di fare la scoperta dell’esistenza degli altri – può essere trovata soprattutto nella capacità di accettazione: questa può essere una caratteristica di personalità, cioè rimandare a sicurezza interiore, ad elevata capacità di tolleranza, a stima di sé, al fatto che i sentimenti provati verso se stessi sono relativamente indipendenti da fattori esterni e da altre variabili di personalità. Accettare una persona è segno di umanità, in quanto l’accettazione implica la capacità di distinguere tra fatti e valori, normalità e norma, forza e diritto: l’accettazione richiede la capacità di distinguere tra azioni e atti, tra fatti contingenti e scelte che contraddistinguono la realtà umana di una persona. I sentimenti che proviamo per l’altro non sono palpiti del cuore: essi si fondano su giudizi di valore, presuppongono l’attivazione degli strati profondi della nostra sensibilità, si sostanziano del nostro consentire – dire Sì – alla sensibilità dell’altro, non importa quanto diversa sia dalla nostra: diciamo Sì a un ‘sistema di vita’ che potrebbe non coincidere mai con il nostro; riconosciamo i diritti di una persona indipendentemente dal grado di libertà di cui gode, dalle scelte che compie, dalla trasparenza della sua coscienza, che può essere più o meno grande. Riusciamo ad accettare una persona, se siamo in grado di ‘parlare’ il linguaggio del cambiamento, se cioè riusciamo a mantenere aperta la comunicazione senza chiuderci alla comprensione delle ragioni dell’altro tutte le volte che ci si presentano ragioni sufficienti per chiuderci, per evitare, per respingere, per negare il perdono… Possiamo condannare un comportamento e fare fatica a perdonare, ma resta il compito di continuare ad accettare la persona dell’altro. L’amore rischia di apparirci come una grande sofferenza, se non chiudiamo gli occhi di fronte agli errori dell’altro e continuiamo a consentire alla sua esistenza presso di noi, alla presenza di quella esistenza. Se di vera presenza si tratta, accettarne l’esistenza è continuare a custodirne il significato nel proprio cuore, al di là di ogni commiserazione. Questo è il Bene. Ognuno di noi oscilla tra invidia e gratitudine, tra accettazione e rifiuto. Se l’invidia della vita contraddistingue la povertà, il riconoscimento del bene ricevuto è ricchezza. Da una parte il risentimento, il rancore, il livore, la tetraggine o, più semplicemente, l’angustia della mente, la chiusura al dialogo, la recriminazione, la scontentezza, la svalutazione degli altri. Dall’altra, la riconoscenza, la benevolenza, la venerazione, la gioia, l’apertura alle evidenze sempre nuove che la vita si riserva di farci fare esperienza. Sembra che la scissione paranoide tra un polo e l’altro si strutturi nella primissima infanzia, dentro il rapporto con la madre. Essa si fa madre onnipotente, che è capace di soddisfare tutti i nostri bisogni, per scoprire presto che deve consegnarci al nostro desiderio, riconoscendosi essa stessa nella mancanza: si farà segno d’amore, rinnovando nei modi possibili la sua presenza, ma ci accompagnerà sempre più altrove, in altre case, ad altri compiti, fino a lasciarci andare. Dalla nostra capacità di elaborare la ‘presenza’ dell’altro dipenderà il nostro destino, se sapremo dire ancora Sì alla vita oppure no.

 

ENTRANO IN SCENA I SENTIMENTI
PESANTEZZA (7) Decisioni e scelte
1° febbraio 2020

In una conferenza sulla libertà di molti anni fa, Massimo Cacciari distingueva la scelta dalla decisione. Se della prima sappiamo a cosa debba essere riferita, della decisione disse che propriamente si trattava di decidersi, staccarsi da. Quando ci separiamo da qualcuno o da qualcosa, perché abbiamo trovato il coraggio di farlo, non si può mai dire che sia di fronte a noi già pronta una via d’uscita chiara, un nuovo territorio in cui consistere, ma soprattutto non è privo di dolore staccarsi da ciò che magari abbiamo lungamente voluto, coltivato, portando dentro il nuovo spazio linguistico comune persone dalle quali allontanarsi è fonte di turbamento: gli altri non accettano di buon grado che un evento traumatico possa essere assunto come causa del distacco. Il gioco delle interpretazioni ci fa scoprire quanto grande fosse la distanza tra le persone, che riferiscono l’accaduto nei modi più strampalati e difformi tra loro. La manutenzione degli affetti si rivela subito inadeguata: avremmo dovuto soffermarci di più a verificare che ogni membro del gruppo riuscisse a tenere il passo e che si sentisse appieno parte del gruppo stesso? Quello che sembrava nebuloso soltanto all’improvviso si rivela vischioso e per niente trasparente: le ragioni personali svelano l’eterogenesi dei fini. Le regole pure assegnate alla vita comunitaria in realtà non erano mai diventate patrimonio personale: invocarle a difesa dei propri comportamenti e delle scelte fatte non produce grandi risultati, perché gli interlocutori si sono sottratti al carattere obbligante delle regole stesse. Se il gruppo sembra non avere più il proprio cemento, allora c’è da dubitare che l’abbia avuto veramente. Ripercorrere la strada fatta, riaffermare il valore delle regole, riassumere e sintetizzare le questioni affrontate è la fatica a cui non riusciamo a sottoporci. L’infranto è lì davanti a noi, fonte di inutile malinconia. Preferiremmo essere già chiamati altrove, non importa se nel mezzo di una radura raggiunta dalla luce meridiana o nel nostro deserto di sempre. Ci sembra che la vita ci prenda in giro, perché proprio quello che volevamo fosse motivo di promozione della libertà altrui si è ritorto contro di noi. Al respiro della vita è subentrato il silenzio della morte della piccola speranza che avevamo coltivato.

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Ai confini dello sguardo, oggi

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L’espressione ai confini dello sguardo, oggi, coincide con una svolta, con un’ulteriore individuazione. Mi lascio alle spalle, perché ‘psicologistica’, un’epoca che coincide quasi per intero con la vita trascorsa, giacché in essa prevalse l’interesse quasi esclusivo per l’amore, che fu studiato, vissuto, patito al di fuori delle ragioni morali che sempre dovrebbero accompagnare le vicissitudini della nostra coscienza; ma, al di là dell’educazione sentimentale cattolica, che era sostanzialmente ‘asessuata’, cosa abbiamo disegnato poi se non un quadro fatto di palpiti, passioni travolgenti, incantamenti, seduzioni, ma senza visione, come si direbbe oggi, cioè senza responsabilità né capacità di dire No dopo aver detto infiniti Sì! Ogni relazione avviata era un lungo viaggio di sola andata: non si riusciva ad interrompere la corsa di un treno che viaggiava senza freni! Le relazioni sentimentali erano destinate a durare per sempre, più per inerzia che per intima convinzione: i miti d’amore, da una parte e dall’altra, pesavano più di tutto. Di qui l’impossibilità di uscire da relazioni nelle quali entravamo per ragioni spesso poco chiare. Scoprire, strada facendo, di aver imboccato la strada sbagliata non era mai sufficiente per condurre poi le cose sul giusto binario che avrebbe portato alla loro pietosa sepoltura.

La percezione di qualità di valore, infatti, che accompagna il sentimento statu nascenti, dovrebbe renderci avvertiti sulla natura dell’oggetto delle nostre attenzioni, prima che diventi consuetudine e legame affettivo, magari senza essere mai passati attraverso un giudizio di valore, che sarebbe richiesto per poter dire se le prime impressioni e tutto ciò che ne derivò abbiano consistenza morale.

Si potrebbe dire che so tutto dell’amore, fin dalla sua ‘declinazione’ filosofica. L’ultimo guadagno è dato, senz’altro, dall’idea presa in prestito dal fenomenologo Guido Cusinato dell’amore come esercizio che dovrebbe educarci ad amare senza invidia, e dall’idea presa in prestito dall’ultimo Lacan dell’amore come rinnovata domanda che il desiderio dell’altro esprime ogni giorno, ripetendo ancora di volere ciò che dice di volere.

Ai confini dello sguardo, dunque, per dire sempre di nuovo: nel momento dell’incontro e dello scambio di risorse, sì, nella comunicazione emozionale, nella comunicazione aperta, che riusciamo a tenere sempre aperta, per esprimere il linguaggio dell’accettazione. 

Ai confini dello sguardo, tuttavia, nel contatto con la realtà umana dell’altro incontriamo un’esistenza che esiste, un’esistenza che, con l’esercizio, dobbiamo imparare a percepire come quello che è, situandoci all’altezza dei modi di consistere dell’altro, rispettando i suoi gradi di individuazione, di consapevolezza di sé, di capacità di nascere del tutto.

Diremo, senz’altro, che dialogo è possibile con chi sappia sollevarsi al di sopra dei propri stati mentali, per emergere alla consapevolezza come persona. Soltanto la presenza in noi e nell’altro dei sentimenti morali consente, ad esempio, di affrontare le asprezze del dialogo, quando la situazione dialogica ci metta di fronte all’errore e al compito di riconoscerlo, di accettarlo, di provarne vergogna, di pentirsi, di chiudersi nel necessario pudore, per riconsiderare le nostre conoscenze sbagliate e da lì ripartire per procedere verso nuova conoscenza.

3 gennaio 2021


 

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Aσκήσεις – Esercizi

Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta peresercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica. 

Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta. 

Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.

L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo. 

C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Salvare lo sguardo

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Giovedì 14 febbraio 2019

Il nostro tragediare quotidiano è fatto di inconfessabili riti solitari che si ripetono con le stesse esitazioni e l’indugio perplesso di chi non sa se prestar fede alle nuove chimere oppure no. Eppure, non ci siamo sbagliati quando è apparsa davanti a noi, a due passi da noi, bella come un anno fa, un’amica discreta della quale poco riuscimmo a sapere, se non che avrebbe voluto ancora che frequentassimo il suo salotto per la tisana delle cinque, senza chiedere di più, per il suo contesto familiare, fin troppo affollato! Eppure, non ci siamo sbagliati quando, poche ore fa, abbiamo indugiato a guardare i suoi occhi chiari, mentre lei non sembrava volesse distogliere lo sguardo da noi. Era visibilmente contenta di vederci e non ha esitato a dire che vedeva in noi un bell’aspetto di cui sembrava volesse godere a lungo. Delle infinite possibilità che abbiamo di esprimere cordialmente il piacere di rivedere qualcuno non può sfuggire il calore della voce e dello sguardo, la lunga stretta di mano, il sorriso spontaneo e il compiacimento quasi scherzoso di una donna che avrebbe motivi a non finire per nascondere le proprie emozioni, senza indugiare su di noi con lo sguardo. Ci siamo incontrati di nuovo, dopo un po’, entrando in un negozio, e si è ripetuto l’incanto di lei che ha detto: “Ci incontriamo di nuovo…” a cui ho aggiunto: “… piacevolmente …”. Un lungo sorriso ancora ha suggellato il rapido distacco.
Perché, poi, ci sembra già di essere sul punto di perdere un bene che non abbiamo posseduto mai? I latini chiamavano desiderium il sentimento di quella perdita. Dovremo prestar fede, allora, a un moto dell’anima che è ben fondato: quella persona deve avere per noi un chiaro significato, se siamo stati colpiti dalla sua bellezza e da essa non vogliamo separarci più. L’inciampo è dato da quegli sguardi incrociati che ci hanno incatenato quasi a lei.  

C’è da decidere ogni volta quale posto assegnare nella galleria dei ricordi preziosi a momenti che non presero mai forma e che non si fecero storia. Lo strascico dei pensieri e delle dolci emozioni suscitate dal gioco dell’illusione ci porta sempre lontano dal piccolo avvenimento che abbiamo ricevuto in dono, ma si tratta di fantasticherie che non si concludono quasi mai con un racconto ben fatto. Resta con noi il sentimento di una presenza che non può dirsi vera presenza, perché non si dettero quelle file di continuità che sole giustificano il giudizio su una persona che è entrata nella nostra vita, anche se per poco. Un breve segmento di tempo non riesce ad essere tempo, articolazione felice di momenti che si succedono per la nostra volontà di dare seguito a un incontro fortuito.

Fu solo sguardo che si aggiunse a sguardo. Ci portiamo a casa un dono da custodire nel nostro cuore, difendendone il valore di rarità nel tempo: espressione caduca della vita quotidiana, che è fatta di fortuite occasioni, un’epifania mondana reca con sé un corteo di emozioni che aspirano a farsi sentimento del tempo, niente più.

Siamo tentati di approntare per noi una poetica dello sguardo che valga a dire il peso e il valore di annunci e vaghe promesse, accenni e sospiri sorretti tutti da quel lungo indugio che chiamiamo sguardo e che significa già contatto emotivo, volontà di scambio emotivo e scambio di risorse, quasi a volere gettare ponti e stringere legami. Uno sguardo per noi non è mero sguardo, emozione buttata lì per caso, senza altra volontà di sapere. Sappiamo leggere nella brevità di uno sguardo il pudore e la volontà di stabilire una distanza anche grande. Distogliere lo sguardo o abbassare gli occhi sono moti altrettanto chiari, quando siano accompagnati da impazienza, voglia di andar via… Altrettanto chiaro risulta l’atteggiamento di chi si abbandoni a un intenso raccoglimento di sé, quasi a voler trattenere una piccola gioia nata dentro un’anima che era già ben disposta verso di noi. Ci portiamo a casa questa vaga promessa che non avrà seguito, se non interverremo noi a gettare ponti e a chiedere altro ancora.

Leggere Lo sguardo, da L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre

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Piccoli inizi

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Piccoli inizi

Mercoledì 14 marzo 2018

Il miglior rimedio contro il tedio è sempre un nuovo inizio. Per questo, andiamo in cerca, quando il tempo si arresta, non sempre fortunati, ché non sempre troviamo quel che serve per tornare a vedere scorrere il flusso della vita senza dolore.

Entrare in un gruppo di lettura, scoprire un grande scrittore, inaugurare un nuovo sito nel web, acquistare un Mac da 27″ e un tablet e uno smartphone performanti sono gesti inaugurali che procurano il benessere emotivo che accompagna ogni nuovo inizio. Stiamo bene per un po’, perché ci sembra che da quell’inizio possano derivare file di continuità che ci faranno stare bene ancora, durevolmente.

In realtà, si tratta sempre di piccoli inizi, destinati a non durare, a non produrre continuità.  Torna la noia, se non nella forma dolorosa che conosciamo, sicuramente con il venir meno dell’interesse per tutto ciò che ha accompagnato il gesto iniziale.

Sempre torniamo a mettere ordine nelle cose intorno a noi, a dare una nuova sistemazione ai libri della biblioteca personale, a catalogare un libro che non trovava il suo posto; a classificare, gerarchizzare le idee, articolarle in modo nuovo, a dare vita a nuove costellazioni di senso; a dare profondità al nostro sentire, dando un nome alle cose; a lasciare dappertutto tracce di noi, con la speranza che qualcuno intercetti una traccia e prenda a seguirci e prenda a parlarci, mostrando finalmente di avere qualcosa da dirci…

L’atteggiamento più produttivo, ora, è quello di chi si interroga sulle cose seguenti: a che punto è il personale processo di individuazione, dopo le perdite degli ultimi anni? è operante il lavoro di costruzione delle catene significanti che dovrebbero portare a una nuova articolazione dei ‘vissuti’ personali, in direzione di una più chiara percezione di sé e delle relazioni personali?

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Il discorso continua qui, nel nuovo sito a cui ho dato il nome aisthesis aesthetica ποιείν: al centro, ora, la nostra sensibilità, la sensibilità estetica e morale, le cose dell’arte e della letteratura e dell’etica, il fare artistico… Il discorso continua, oltre la restituzione dell’esperienza vissuta, in un nuovo approdo alla socialità aperta, alla vita politica…

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Leggere Alice Munro

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L’enigma Alice Munro è il titolo dato dalla curatrice Marisa Caramella al saggio che apre il volume de I Meridiani Mondadori Alice Munro Racconti.
Sulla copertina de Il sogno di mia madre compare la citazione da Citati: “Da Henry James, Alice Munro ha imparato che la prima qualità di un racconto è l’enigma”.
Non andremo a cercare, allora, un segreto da svelare, se non sia la stessa scrittrice a farlo per noi. Lasceremo che sia la scrittura a guidarci nel mondo poetico costruito intorno a personaggi spesso secondari, minori, che si portano dietro, tuttavia, una scia luminosa che continua a brillare dopo che avremo terminato la lettura del racconto.

Un elemento della sua poetica è contenuto in un’intervista del 1994: “Tutta la letteratura del Sud degli Stati Uniti che davvero amavo era scritta da donne. Faulkner non mi piaceva poi tanto. Amavo Eudora Welty, Flannery O’Connor, Katherine Ann Porter, Carson McCullers. Avevo la sensazione che solo le donne riuscissero a scrivere di cose marginali, strane, anomale… Sono arrivata alla conclusione che era quello il nostro territorio, mentre il grande romanzo sulla vita reale era territorio degli autori di sesso maschile. Non so come sia nata dentro di me la sensazione di essere ai margini, dato che non vi ero certo stata spinta. Forse perché ero nata in una situazione marginale. Sapevo che c’era qualcosa, qualche modo di vedere il mondo, proprio dei grandi autori, da cui ero tagliata fuori, ma non capivo bene cosa fosse. Per esempio, quando cominciai a leggere D.H. Lawrence, trovai inquietante la sua visione della sessualità femminile” (pag.13 de L’enigma Munro, di Marisa Caramella)

Nella narrativa di Alice Munro sono le vicende dei personaggi a primeggiare. Ed è il paesaggio geografico e culturale, più di quello politico o sociale, a fare da sfondo a tali vicende, che proprio per questo assumono quelle caratteristiche di normale straordinarietà che fa spesso gridare al miracolo critici e recensori. (pag. XIV de L’enigma Munro)

Dice Alice Munro nell’introduzione a un’edizione del 1997 di Selected Stories: “La ragione per cui scrivo così spesso del paese a est del lago Huron è che amo quel luogo. Significa per me qualcosa che nessun altro paese, non importa quanto storicamente importante, o “bello”, o vivace, o interessante, potrà mai significare. Sono innamorata di quel particolare paesaggio, dei campi quasi piatti, delle paludi, del bush, dei boschi, del clima continentale con I suoi inverni bizzarri, eccessivi. Mi sento a casa tra le costruzioni di mattoni, i granai cadenti, le rare fattorie dotate di piscina e campo di atterraggio, gli agglomerati di roulotte, le vecchie chiese ingombranti, I Wal-Mart e i Canadian Tire. Io parlo la loro lingua.” (pag. XIX de L’enigma Munro)

Ma c’è un’altra ragione per la ben nota ritrosia della scrittrice a dichiararsi tale, e ad apparire in pubblico, una ragione più complessa e difficile da identificare con precisione. Per capire questi e altri atteggiamenti caratteristici della Munro, bisogna risalire a tempi lontani. A quando i suoi antenati paterni presbiteriani scozzesi, e materni, anglicani irlandesi, emigrarono dalla Scozia e dall’Irlanda per stabilirsi nel Canada settentrionale, precisamente nell’Ontario, e portarono con sé nella nuova terra costumi e abitudini di quella d’origine restando fedeli ai dettami morali, molto rigorosi, delle rispettive religioni. Abbiamo già visto come la madre Anne si attenesse a un codice morale puritano, ed esigesse dalla figlia lo stesso comportamento. La confessione presbiteriana, quella paterna, la più diffusa nelle piccole comunità dell’Ontario abitate dai discendenti degli immigrati scozzesi, non vede invece di buon occhio ogni forma di ostentazione di sé, ogni tentativo di emergere grazie a un particolare talento mondano, e predica la modestia, la riservatezza, il controllo dell’immaginazione, mentre approva incondizionatamente le opere, il duro lavoro, il sacrificio, la fedeltà e la solidarietà familiari. […]
Da questa complessa mescolanza di forti condizionamenti religiosi e culturali derivano da una parte la famosa “doppia vita” di Alice Munro, ma anche, soprattutto, l’insicurezza riguardo al proprio talento, il perfezionismo che la spinge a continue revisioni dei testi, e la riluttanza a esporsi in qualunque modo: da quello, peraltro necessario, per insegnare scrittura creativa, alla promozione dei propri libri agli interventi di critica letteraria, alla sponsorizzazione di altri scrittori: alla presenza sulla scena letteraria. È solo in età avanzata e quando la sua fama si è consolidata universalmente che la scrittrice comincia ad accettare inviti e a “esporsi”. (pp. XXXIII-XXXVI de L’enigma Munro)

È solo a partire dal 1998 che ogni nuova raccolta pubblicata dall’autrice viene salutata dalla critica con parole che sottolineano un cambiamento decisivo nella sua voce, soprattutto per quanto riguarda lo stile, sempre più sicuro, coinvolgente, e sempre più caratterizzato da sottrazioni, silenzi, squarci nel tempo e nel luogo, e contemporaneamente da un’estrema precisione nella descrizione di dettagli apparentemente insignificanti ma indispensabili invece proprio ad ancorare il racconto nel tempo e nel luogo in modo da coinvolgere il lettore e impedirgli di perdersi tra una sospensione e l’altra; la Munro sceglie una tecnica opposta a quella dei romanzieri, e anche di tanti scrittori di racconti: invece di ricorrere a descrizioni storiche o sociali o ambientali per inquadrare le vicende dei suoi personaggi, mette a fuoco particolari significativi; e anziché cimentarsi in lunghe e pericolose immersioni nella psicologia dei medesimi personaggi, preferisce sottolinearne i comportamenti rivelatori. Ne risultano un’ingannevole semplicità, una trasparenza profonda, paragonabili soltanto a quelle che J.M. Coetzee riesce a raggiungere in alcuni suoi romanzi. Il paragone non è azzardato: anche Coetzee è uno scrittore del Commonwealth, molto legato al suo territorio natale, il Sudafrica, e a quello di adozione, l’Australia, entrambi marginali; anche Coetzee scrive romanzi che sono in realtà memoir trasfigurati, per di più scanditi dalle tre “classiche” fasi della vita: Infanzia, Gioventù, Tempo d’estate, tutti sottotitolati Scene di vita di provincia; oltre a una raccolta di racconti, Elizabeth Costello, eccezionale per l’abilità con cui l’autore riesce a trarre conclusioni filosofiche e concettuali senza filosofeggiare o concettualizzare, servendosi solo di grandi metafore, sottrazioni, silenzi. (pag. XL de L’enigma Munro)

[Nota in costruzione, che arricchiremo nel corso della lettura dei racconti]

Il segreto di Alice Munro, di Paolo Cognetti
Riempire gli spazi del tempo, dal sito Il mondo urla dietro la porta
Liliana Rampello intervista Marisa Caramella
Alice Munro, In Her Own Words: 2013 Nobel Prize in Literature
Intervista a Marisa Caramella Su Alice Munro, alfabeta 2 del 14 ottobre 2013

OPERE di ALICE MUNRO
Danza delle ombre felici (1968)
Lives of Girls and Women (1971)
Una cosa che volevo dirti (1974)
Chi ti credi di essere? (1978)
Le lune di Giove (1982)
Il percorso dell’amore (1986)
Stringimi forte, non lasciarmi andare (1990)
Amica della mia gioventù (1990)
Segreti trasparenti (1994)
Il sogno di mia madre (1998)
Nemico, amico, amante… (2001)
No Love Lost (2003)
Vintage Munro (2004) – Mobili di famiglia [24 racconti dal 1995 al 2014], Super ET Einaudi 2016
In fuga (2004)
Lasciarsi andare [17 racconti scelti dall’Autrice] Einaudi 2014
La vista da Castle Rock (2006)
Troppa felicità (2009)
Uscirne vivi (2012)
I titoli delle raccolte sottolineati sono quelli che compaiono nel Meridiano Mondadori
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Una lettura ‘metodica’ dell’opera di Alice Munro dovrà partire dalla motivazione del Premio Nobel, dalla definizione della sua poetica, dalla descrizione della natura dei suoi racconti, per facilitare il godimento del testo attraverso la lettura.
Se poi vorremo realizzare un rapporto stretto tra ogni racconto e il titolo del volume, dovremo chiederci ogni volta come i personaggi si abbandonino alla danza, di che cosa sia metafora la danza, come partecipino della condizione di ‘ombre’, in che cosa consista la loro ‘felicità’.
Il brano dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, suonato dalla fanciulla disabile nel racconto finale che dà il titolo al volume, ha come protagonisti due personaggi mitologici che hanno sempre incarnato la tragicità a cui spesso l’amore è consegnato: una separazione irrimediabile prevale su ogni altra considerazione sulla natura dei personaggi, sulle loro propensioni e sulle loro scelte.
Si potrebbe dire che tutti i personaggi del volume sono ‘ombre felici’, ancorché tutto sembri testimoniare il contrario. Vuol dire che la loro felicità andrà ricercata nella capacità di abbandonarsi all’onda della vita, pur in mezzo alle tempeste che la agitano.
Alice Munro è stata premiata – come si legge nella motivazione – per essere “master of the contemporary short story”.
Al centro delle sue opere, in gran parte ambientate nel Southwestern Ontario, vi sono sempre le relazioni umane lette attraverso la “normalità” della vita quotidiana. Il suo stile narrativo – caratterizzato da una voce narrante che spiega il senso degli avvenimenti – spinse l’autrice statunitense di origine russa Cynthia Ozick a definirla “la nostra Cechov”.
“Alice Munro è nota soprattutto come autrice di racconti ma sa portare in ciascuna storia altrettanta profondità, intelligenza e precisione come la maggior parte dei romanzieri in tutta la loro opera: leggere Alice Munro è imparare ogni volta qualcosa cui non si era mai pensato prima”, si legge nelle motivazioni della giuria del Nobel.

Segue online il riassunto dei quindici racconti. Alcuni sono accompagnati da una breve notazione critica in neretto. Un utile esercizio potrebbe essere quello di
a) aggiungere un brano del racconto che aiuti a fissarne il punto nevralgico, quando le cose sembrano giungere a chiarezza,
b) esprimere per tutti gli altri un giudizio che restituisca il punto di vista della voce narrante o un senso nascosto che ci sembra illumini il racconto stesso, come ho fatto solo per i primi tre,
c) cercare ciò che i personaggi hanno in comune, cosa tenga insieme la raccolta, ma anche cosa distingua ogni racconto da tutti gli altri: dopo tutto, non è detto che una raccolta debba necessariamente rispondere ad un criterio ‘unificatore’ posto alla sua base; il titolo sembra indicarci questa strada critica, ma si tratta di cosa da verificare e da illustrare. E’ quello che mi ripropongo di fare, tornando a rimaneggiare questo messaggio.
Conservare i sunti dei racconti aiuta a non dimenticare quello che si è letto.

Alcune recensioni di Danza delle ombre felici

E’ stata richiamata la suggestione esercitata dal danzare – assieme al correre – in Murakami. Che la danza abbia significati da chiarire rientra nei compiti del lettore esperto. Ci accontenteremo di dire qui soltanto che nell’opera di Alice Munro si nasconde il significato comune ai racconti che potremmo riassumere così: danzare è abbandonarsi all’onda della vita. E’ quello che fanno tutti i personaggi, che incarnano i loro ruoli senza residui, con un Sì alla vita che ci segnala i loro drammi e le loro sconfitte, ma anche la felicità dell’ascolto prudente, come ‘accade’ alla fanciulla che racconta nel primo componimento, di fronte al mistero della vita di suo padre. Per lei, quello che a noi appare chiaro è segreto da custodire e basta.
Prima ancora di Murakami, ci sembra che Paul Valéry abbia dedicato alla danza pagine memorabili. Leggere L’anima e la danza.
Ho acquistato i quindici volumi dei racconti di Alice Munro e il Meridiano Mondadori dedicato a lei, che è aperto dal saggio della curatrice, Marisa Caramella, (L’enigma Munro), come le opere di Eudora Welty, Margaret Atwood, Katherine Anne Porter, Flannery O’Connor e Carson McCullers, scrittrici amate da lei, per rendermi conto di una scrittura, quella femminile, che si schiera qui programmaticamente dalla parte di ciò che è marginale, come le vite dei loro personaggi. (Netflix propone la miniserie L’altra Grace, dedicata all’opera omonima di Margaret Atwood).
Sappiamo bene che una sola lettura non basta per una scrittura che si riveli appieno nelle raccolte successive. L’apparente semplicità della scrittura stessa, poi, potrebbe essere fuorviante, se non torniamo sui nostri passi a considerare ancora che cosa abbia contribuito a fare di un breve racconto una storia paragonabile a quella di un romanzo lungo.
Più che le ragioni tematiche e le suggestioni forti esercitate su di noi da questo o quel racconto, conta il respiro di un’opera che andrà ‘assaporata’ risalendo ogni volta alle ragioni della scrittura, al piacere del testo, che costituisce ormai la prima ragione della grande Letteratura.
Assieme alle nuove proposte mensili, continuerò a leggere Munro, come continuerò a leggere Ishiguro. Di questo sono grato a voi.
La mia lettura delle opere letterarie è sempre sostenuta dalla nozione di poetica di Walter Binni, che contiene definizioni e metodi.

Il cowboy della Walker Brothers

Il piacere del testo si materializza subito in noi, fin dalla prima lettura del racconto Il cowboy della Walker Brothers, che apre la prima raccolta di Alice Munro: non è un sentimento comune quello che prova la fanciulla che si ritrova a considerare quello che ci sia da fare, rientrando a casa, cioè tacere sulla visita fatta alla donna che vive fuori della zona commerciale in cui opera suo padre. Come voce narrante, ci informa su tutti i particolari di quella visita per niente innocente, eppure vissuta da lei alla giusta distanza, senza presumere apertamente alcunché su ciò che ‘lega’ suo padre a quella donna.
Questa reticenza del Narratore conferisce grande valore emotivo al non detto e all’implicito delle ultime pagine. È subito arte!
Il testo ‘genera’ il lettore, lo chiama in causa, gli impone di mettere in moto la ‘macchina’ narrativa, istituendo il patto narrativo, che prevede sempre, da parte del lettore, l’adesione alle ragioni dell’arte. Noi condividiamo con la ragazza quella pausa dell’anima, che si ferma perplessa, ma non smarrita, sulla soglia dell’esperienza del padre. Ammessa a farne parte, non si congeda da essa, distratta da altre ragioni. Ne condivide il mistero, tacendo sul suo senso ultimo. Di fronte all’indecidibile che la coinvolge e la chiama in causa, finisce per custodire in sé quella ‘verità’ che non può essere svelata, pena il ‘tradimento’ di suo padre.
Il sentimento del tempo che esprime la ragazza ora è segnato dal nuovo che irrompe nella sua coscienza, a cui è pronta a dare un nome: «… e io ho la sensazione che la vita di mio padre si sganci dall’auto e fluttui all’indietro nel tardo pomeriggio, sempre più scuro e strano, come un paesaggio sotto un incantesimo che lo rende dolce e rassicurante mentre lo guardi, ma per sempre sconosciuto appena gli volti le spalle, un luogo esposto a tutti i tipi di intemperie e a distanze inimmaginabili». È come perdere la memoria di ciò che una persona è sempre stata per noi: il suo significato si perde ora nell’impermanenza delle cose, fluttua nell’aria, è sganciato dalle cose di sempre. La grandezza di ciò che sta accadendo è la causa del sentimento della grazia, cioè dell’arrendevolezza della fantasia, che prevale in lei: «mio padre non mi dice di non parlare a casa di quello che è successo ma lo so da me, mi basta vedere come è pensieroso, come esita quando ci passa la liquirizia, per sapere che di certe cose è meglio non fare parola». Alla profondità di questo sentire corrisponde l’emozione estetica che proviamo noi, consapevoli del fatto che non dobbiamo fare altre inferenze, non dobbiamo chiedere altro al personaggio che racconta, preso com’è, ora, dall’incanto del cielo che «si rannuvola gentilmente come fa sempre, quasi sempre, nelle sere d’estate in riva al lago»: perfino il cielo sa bene che quello che c’è da fare va fatto delicatamente.

Le case bianchissime

Allo stesso modo, nel racconto Le case bianchissime, Mary è costretta a custodire in cuore il suo malcontento, di fronte alla volontà dei vicini di sbarazzarsi della vecchia casa della signora Fullerton, che tanto contrasta con le loro case ‘bianche’. Lei sa che «non c’è niente che tu possa fare, lì per lì». La riunione è finita. «Le voci della stanza sono volate via, pensava Mary. Se solo fossero volate via davvero portandosi appresso il ricordo dei loro piani, se almeno una cosa al mondo potesse essere lasciata in pace».
Anche qui sembra essere la natura a fare giustizia delle impazienze umane: «Ormai era buio, le case bianche si andavano offuscando, le nuvole continuavano ad aprirsi e il fumo a salire dal comignolo di Mrs Fullerton. Lo schema di Garden Place, tanto nitido e ardito alla luce del giorno, sembrava ritirarsi, di notte, nel fianco nero e inospitale della montagna». Tutto questo Mary lo sapeva bene.

Immagini

Anche in Immagini è una giovane donna che parla. Esce di casa con il padre, a vedere le trappole per topi muschiati lungo il fiume. Ne trovano alcune e proseguendo nel loro cammino incontrano Joe, che vive da solo in una baracca sotto terra. La bimba è inizialmente un po’ spaventata a causa dell’accetta che Joe fa vibrare nell’aria. Joe li invita nella sua “cantina” che si trova in un campo poco distante; unico suo compagno un gatto, al quale ogni tanto offre del whisky. Quando Ben e la figlia tornano a casa è ormai buio e la donna che assiste sua moglie è furente, ma subito si prodiga per togliere stivali e calze bagnati alla bimba e servire la cena. Ben, che aveva chiesto alla bambina di non nominare l’accetta, racconta altro di Joe. La cena si svolge in una complice atmosfera tra padre e figlia. La donna chiede se Joe aveva fatto bere anche la bambina. «- Nemmeno una goccia – disse mio padre guardandomi fisso, dall’altra parte del tavolo. Come certi bambini delle fiabe che hanno visto i genitori stringere patti con strane creature terrificanti, scoprendo così che le nostre paure affondano le proprie radici in nient’altro che la verità, ma poi in modo rocambolesco tornano sani e salvi e sono pronti a impugnare coltello e forchetta e, sottomessi e beneducati, a vivere per sempre felici e contenti, come loro, turbata e rinvigorita da quei segreti, non dissi mai una sola parola». L’essenziale era avvenuto: di fronte alla donna che sbrigativamente le diceva di mangiare, «per un momento non mi resi conto che non avevo più paura di lei».

Grazie del passaggio

– Grazie del passaggio! – sono le parole (danno il titolo al racconto) che provengono dalla “voce femminile che ci urlava dietro, una voce forte, cruda, oltraggiosa e sconsolata”. Si tratta di Lois che, assieme all’amica Adelaide, è stata accompagnata a casa, al termine di una notte trascorsa fuori di casa con due ragazzi. Dopo le ore passate nel fienile con Lois, vissute come “un viaggio a precipizio” nell’amore, la nostra voce narrante ci confessa che era la prima volta. Per questo, in macchina non seppe dire nulla a Lois. Di lei ci dice ora che “ci sono persone che non sanno andare molto in là nell’atto d’amore, e altre che vanno lontanissimo invece, che sanno ingigantire l’abbandono, come i mistici. E Lois, mistica dell’amore, sedeva ormai all’estremità del sedile, infreddolita, pesta e completamente chiusa in se stessa”. E’ la tristezza del dopo che la fa gridare con voce forte, cruda, oltraggiosa e sconsolata, come chi si sciolga dalla danza, accompagnato dal silenzio intorno a sé. Tutti i gesti e le parole mancate avevano fatto il resto.

Lo studio

“Dunque è per questo che voglio uno studio (dissi a mio marito): per scrivere”.
La voce narrante femminile ci informa sul rito che accompagnò la decisione presa, le reazioni intorno a lei, la ricerca, l’arredo sobrio dei locali presi in affitto, il padrone di casa, che occupa la scena per tutto il tempo del racconto, nei panni del seccatore che in un crescendo grottesco mette la scrittrice in condizione di doversene andare.
Sembra che il narratore voglia dirci come andò la prima volta, quello che dovette fare per liberarsi dall’invadenza del signor Malley. E fu indubbiamente danza. Evitando accuratamente ogni scontro possibile, cercò di navigare nelle acque mosse di una relazione che non le lasciava scampo. Dopo tutto, non si trattò di muovere passi difficili né di abbandonarsi confidente all’aria di una casa che non riuscì a sentire sua.
“Non ho ancora trovato un altro studio. Credo che un giorno o l’altro ci proverò, ma non adesso. Dovrò almeno aspettare che svanisca l’immagine che ho tanto chiara in testa, benché non l’abbia mai vista in realtà”: il signor Malley intento a ripulire le pareti del bagno situato nel corridoio, imbrattate non si sa bene da chi.
“Io intanto organizzo le parole, e ritengo sia mio diritto liberarmi di lui”.
Friedrich Nietzsche avrebbe detto di lei che aveva saputo risolvere a passo di danza il problema che la vita le aveva messo davanti.

Il rimedio

Di tutt’altro tenore è la lezione che è costretta a trarre dagli eventi la studentessa protagonista del racconto intitolato Il rimedio. Impegnata a fare la baby sitter in una serata sfortunata per lei, si ubriaca per non pensare alle sue delusioni sentimentali, chiede aiuto ai suoi amici, i quali invadono la casa, facendosi sorprendere dai padroni che rientrano in anticipo. In seguito, racconta tutto a sua madre, che a sua volta racconta tutto, compreso il nome del ragazzo di cui sua figlia si era invaghita. L’effetto delle chiacchiere fu lo stato di isolamento in cui lei si ritrovò a vivere a lungo, almeno fino a quando la scuola non fu distratta dalle disavventure di una ragazza che era fuggita di casa con un uomo sposato. Allora, tutti si dimenticarono di lei.
Un risvolto positivo ed inatteso fu la scoperta che la cotta le era passata. Più di tutto, però, contribuì a riportarla con i piedi per terra “la tangibilità atroce e ammaliante del mio disastro; fu vedere “come andavano le cose”. Non che mi fosse piaciuto; ero timida e tutta quella risonanza mi fece soffrire molto. Ma il concatenarsi dei fatti di quel sabato sera mi affascinò; ebbi la sensazione di aver gettato un’occhiata sulla prodigiosa, devastante e spudorata assurdità con cui si improvvisano le trame della vita, a differenza di quelle dei romanzi. Non riuscivo a distogliere lo sguardo”.
A cose fatte, è motivo di conforto, talvolta, scoprire come il concatenarsi fortuito degli eventi abbia influito sul corso della nostra vita. Accettarne la lezione è l’estrema forma di saggezza di chi comprende come sia indispensabile abbandonarsi all’onda della vita stessa.

L’ora della morte

L’ora della morte è il titolo del racconto. Siamo indotti a cercare il senso di quel titolo nella trama del racconto stesso, che ci appare in tutta la sua evidenza quando ci viene detto che la madre è convinta di essersi trattenuta poco a casa della vicina, mentre in casa il figlio di diciotto mesi moriva, a causa dell’acqua calda posta sulla stufa da Patricia, bambina prodigio che indossa abiti di scena confezionati per lei dalla madre, orgogliosa delle sue doti canore. Sua madre ora non vuole vederla. Patricia reagisce in modo scomposto al passaggio dell’arrotino, che le ricorda i momenti drammatici della morte del fratellino.
Qui la vita è incarnata crudelmente dalle vicine di casa che, finalmente, possono ridere delle virtù canore della ragazza, sulla quale possono infierire senza sensi di colpa. A volte, bisogna danzare sull’orlo del baratro e bisogna continuare a farlo, insistendo nel credere che le cose siano andate in un certo modo non per colpa nostra, ma per l’insipienza di qualcun altro. Edgar Lee Masters direbbe, però, che non dobbiamo lamentarci, se la vita ci prende in giro.

Il giorno della farfalla

A causa dell’incontinenza del fratellino Jimmy, Myra deve stare spesso accanto a lui per accudirlo, soprattutto durante l’intervallo tra le lezioni. I bambini intorno a loro sono crudeli nei giochi che si traducono sempre in scherno e offesa. Inutilmente le maestre invitano i compagni di Myra ad essere buoni con lei. Un giorno, la protagonista si ritrova a fare la stessa strada di Myra. Parla con lei delle materie scolastiche, le offre dei popcorn e una farfalla di latta che è nascosta nella busta. Da quel giorno le due bambine si parlano. Ritrovandosi in ospedale per una grave malattia, Myra riceve doni da tutti i suoi compagni. Mentre tutti vanno via, allo scadere del tempo per le visite, Myra chiamò Helen, la protagonista, e volle darle alcuni dei suoi doni. Helen resistette a lungo. Immaginò anche che suo fratello li avrebbe distrutti. Si sentì liberata da quella prigione, quando l’infermiera le ricordò l’ora di uscita dall’ospedale. Nel salutarsi le due bambine si sfiorarono le mani, come era accaduto il giorno della farfalla. Myra invitò Helen a casa sua.
Il racconto della protagonista non contiene nessuna concessione facile al sentimento. Anzi, sembra voler registrare le remore e le esitazioni provate di fronte a una compagna alla quale si avvicina, vincendo le resistenze che le venivano dalla mentalità ostile che condivideva con gli altri bambini. Fino alla fine, è Myra che occupa la scena fungendo da richiamo per lei. Myra la aiuta, senza volerlo, a compiere gesti che sembrano preludere a qualcosa di diverso dall’indifferenza e dalla distrazione colpevole di chi sembra non conoscere il moto degli affetti. Nelle parole della voce narrante, alla fine, non possiamo dire che siano presenti indifferenza né distrazione.
“Disse ciao anche Myra? Poco probabile. Seduta sul suo letto alto con il colle esile e bruno che usciva dalla camicia dell’ospedale troppo grande per lei, e il bel viso bruno immune da ogni slealtà, forse aveva già dimenticato il suo dono, ed era pronta ad avviarsi da sola nel destino leggendario che già abitava anche quando stava nel portico dietro la scuola” E’ facile avvertire in questo breve vissuto personale l’affacciarsi nitido di un sentimento nuovo in lei.
Quest’ombra felice avanza per esitazioni successive, compiendo da sola i passi del cuore che la avvicinano ad una compagna che riconosce e ricambia gli incerti passi della sua danza.

Maschi e femmine

Questa volta, la voce narrante femminile si ritrova a sperimentare direttamente cosa significhi nella testa del padre e nelle convinzioni della famiglia essere maschi e femmine. Il fratello Laird condivide con lei il contatto ravvicinato con il padre, che alleva volpi argentate, di cui vende la pelle pregiata. Le volpi si nutrono di carne di cavallo. Tutti i contadini ne hanno. Quando i cavalli diventano vecchi o si azzoppano o cadono, il proprietario chiama il padre, che si mette il cavallo sul furgone o provvede ad ucciderlo subito, con un colpo di pistola. Quando la protagonista aveva undici anni, nella stalla c’erano due cavalli. Furono uccisi, prima l’uno e dopo l’altro. Quando toccò alla femmina, la ragazza si ritrovò vicino a un cancello, che avrebbe dovuto chiudere per impedire all’animale di fuggire. Invece, lo spalancò. Si chiese subito perché lo stesse facendo, ma non seppe rispondere.
A tavola, il fratellino disse la verità a tutti. Il padre non reagì in modo scomposto. Si limitò a dire: – E’ soltanto una femmina. –
La voce narrante conclude: “Non protestai, nemmeno in cuor mio. Forse era vero”.
Il ‘contenuto’ di questo racconto potrebbe deludere, per i riferimenti che contiene alla mentalità della famiglia, che riserva attenzioni al piccolo maschio, limitandosi ad immaginare che la figlia aiuterà la madre nelle faccende di casa. Potremmo dire che ci restituisce un’educazione sentimentale. Le battute finali suonano come accettazione di una condizione che non dispiace alla ragazza, memore dell’impresa in cui si era distinta, lasciando la cavalla libera di fuggire, per regalarle forse poche ore di vita ancora.

Cartolina

Il sentimento chiaro di sé e della natura della sua relazione con Clare viene espresso da Helen così: “In principio mi faceva pena, perché ce la metteva proprio tutta. Mi ricordo che gli guardavo la testa un po’ pelata, lo ascoltavo gemere e ansimare e mi dicevo, e adesso che cosa posso fare se non essere gentile? Lui non si aspettava altro da me, non si è mai aspettato altro; solo che mi sdraiassi e lo lasciassi fare, e a poco a poco mi ci sono abituata. Mi guardavo indietro e pensavo, sarò senza cuore a starmene lì immobile lasciando che mi tocchi e mi ami e mi gema sul collo e mi dica tutte quelle cose, senza mai dirgli una parola d’amore anch’io? Essere senza cuore non mi è mai piaciuto, perciò l’ho sempre trattato bene, Clare, e l’ho lasciato fare, nove volte su dieci, o no?”
La sfida del senso vissuto – la ricostruzione che facciamo della nostra esperienza e l’attribuzione di senso che ne consegue – è esemplarmente raccontata in Una cartolina. La voce narrante femminile ci restituisce per intero il breve cammino di una relazione amorosa che la porta a scoprire che il suo ‘fidanzato’ si è sposato con un’altra donna.
La sua danza si interrompe quando scopre, al termine di un litigio sotto alle finestre della casa di lui, che ora vorrebbe allungare una mano e toccarlo.

Il vestito rosso – 1946

La protagonista de Il vestito rosso – 1946 deve fare i conti con una madre che si improvvisa sarta e con una festa nella quale scopre ancora che nessuno la inviterà a ballare, almeno fino a quando questo accadrà, senza che lei stessa si renda conto che sta accadendo. Il giovane ballerino, un suo compagno di scuola, la accompagnerà poi a casa e prima di salutarla la bacerà su un angolo della bocca, ignaro di averla traghettata nel mondo normale.
“Feci il giro della casa per passare dalla porta sul retro e intanto pensavo, sono stata a ballare e un ragazzo mi ha riaccompagnata e mi ha dato un bacio. Era tutto vero. La mia vita era possibile. Passai davanti alla finestra della cucina e vidi mia madre. Stava seduta coi piedi sullo sportello aperto del forno e beveva un tè da una tazza senza piattino. Era lì solo in attesa che io tornassi a casa a raccontarle tutto quello che era successo. E io non intendevo farlo, mai e poi mai. Ma vedendo la cucina che mi aspettava e mia madre in vestaglia di flanella sbiadita a disegni cashmere e la faccia assonnata ma carica di tenace aspettativa, mi resi conto dell’imperativo misterioso e opprimente che mi gravava addosso, l’obbligo di essere felice che avevo rischiato di non onorare in quella occasione, come in altre a venire, probabilmente, ogni volta, e senza che lei lo sapesse”.
La voce narrante, qui, ci svela il potere della sua ritrosia, che la porta a transigere sul suo desidero, inducendola a rifiutarsi di abbandonarsi ai momenti di felicità che pure la vita concede. Sa bene che accadrà ancora e che questo sarà il segreto piacere di negarsi a sua madre.

Domenica pomeriggio

Alva fa la domestica dalla famiglia Gannet, che è proprietaria di un’isola nella Georgian Bay, dove ha fatto costruire tre ville, una per ogni figlia. La casa che occupano abitualmente è spesso invasa da molti ospiti, che Alva deve servire, e i suoi piatti sono graditi. Lei pranza nella cucina e a volte prende in prestito dei libri nello studio del Signor Gannet: nel tempo libero ha voglia di leggere; un giorno scriverà alla famiglia, descrivendo l’ambiente nel quale lavora. La figlia minore dei Gannet ha 14 anni ed Alva s’intrattiene piacevolmente con lei, che ha molti abiti e sta scegliendo quali portare sull’isola per la prossima vacanza. Al sopraggiungere della padrona di casa, Alva scende al piano di sotto e torna in cucina, dove ci sono ancora molti bicchieri da lavare. Sta pensando all’isola, alle nuotate che potrà fare; forse l’avrebbero anche portata in barca; si apre la porta ed entra il cugino della Signora Gannet che, consegnandole un altro bicchiere da lavare, le cinge le spalle ed indugia leggermente sulle sue labbra. Poi le dice di essere stato invitato a trascorrere una settimana sull’isola, ma già lo stanno reclamando ed Alva rimane immobile, appoggiata al bancone della cucina, sentendosi però rilassata da quel rapido contatto. Questo non lo aveva previsto, qualcosa ancora le sfuggiva e pensando all’isola non può escludere il desiderio di andarci.

Un viaggio sulla costa

L’undicenne May vive a Black Horse, borgata di tre case, un negozio e un cimitero, con la nonna di settantotto anni che ipotizza di fare un viaggio sulla costa, e la zia Hazel, in età da marito che lavora in un negozio del paese, un po’ più distante. Nel tempo libero frequenta feste da ballo e la domenica canta nel coro. May e la nonna gestiscono l’unico negozio della borgata, che fornisce anche la benzina ai viaggiatori di passaggio, come l’ipnotizzatore che un giorno si ferma e girando qua e là illustra le sue capacità “terapeutiche”. L’anziana donna è alquanto diffidente, May pone domande e lui decide di darle una dimostrazione, utilizzando proprio la nonna, che sostiene di poter resistere a tale condizionamento. L’esperimento inizia con l’ausilio di un apribottiglia, che la donna deve fissare. May osserva e stenta a trattenere le risa, mentre l’uomo domanda all’anziana se ci veda ancora: il viso della vecchia è alla stessa altezza del suo. L’ipnotizzatore indietreggia ed esclama: – Ehi, ma cosa succede? Signora, si svegli, si svegli! – Ma la nonna, senza perdere l’espressione di disprezzo verso l’uomo, cade riversa sul bancone con un tonfo. – Non è colpa mia! – si affretterà ad aggiungere il mago provetto, lasciando cadere l’apribottiglia – non mi era mai successo prima – dopo di che fuggirà e May, correndo fuori dal negozio, udrà il motore dell’auto che si allontana. Non c’è nessuno, i cortili sono deserti, comincia a piovere; May torna indietro e si siede sui gradini del negozio, osservando la strada. La nonna giace riversa sul bancone, morta, ma vittoriosa.

La pace di Utrecht

Le due sorelle Maddy ed Helen si ritrovano nella casa natale dopo la morte della madre per Parkinson. Nel cassetto di un vecchio tavolino Helen ritrova alcuni appunti sulla pace di Utrecht, che nel 1713 mise fine alla guerra di successione spagnola. Helen ha due figli e Maddy un amico, Fred, forse amante, sposato, la cui moglie è invalida. La sera trascorrono un po’ di tempo sulla veranda, bevendo e fumando e spesso Fred fa loro compagnia. Durante una visita alle anziane zie nubili, Annie e Lou, che conservano tutti gli abiti dell’anziana deceduta, Maddy viene a conoscenza del tentativo di fuga della madre dall’ospedale, prima di morire. A seguito di questo fatto, le infermiere la bloccano nel letto, utilizzando una tavola di legno posta di traverso. Fu Maddy ad accompagnarla in ospedale; l’anziana era convinta di uscire dopo tre settimane. Tornando a casa dalla visita alle zie, Helen trova la sorella in cucina, intenta a preparare la cena, ha invitato Fred, ma nel parlare delle due anziane, ricordando la madre e il proprio desiderio d’indipendenza, una fruttiera le scivola dalle mani e si rompe. Helen suggerisce alla sorella di andarsene dal paese; – Lo farò – afferma Maddy – ma poi aggiunge di non riuscirci.

La danza delle ombre felici

La perfezione inattesa di una sonata, eseguita da una bambina, dona un istante di bellezza a una comunità sempre più chiusa nella propria solitudine.

La Signorina Marsalles, insegnante di pianoforte, vive con la sorella, ex insegnante di francese e tedesco, che purtroppo ha perso l’uso della parola e spesso è accudita dalla vicina di casa, la signora Clegg. Ogni anno le due anziane signorine organizzano una festa, nella quale gli ex alunni della signorina Marsalles si esibiscono al pianoforte. Segue sempre un rinfresco e la consegna di un dono a ciascun partecipante; poi tutti i bambini andranno a giocare nel piccolo giardino, mentre le madri resteranno in casa a conversare. Un anno, però, ci saranno dei nuovi invitati: gli alunni della Greenhill School, lievi insufficienti mentali, ai quali la Signorina Marsalles si sta dedicando. L’esibizione di ogni bambino è annunciata con tono festoso dall’anziana insegnante; una fanciulla di nome Dolores Boyle, magra, biondissima, dall’aspetto malinconico, sonerà La danza delle ombre felici, musica gaia e serena, tanto da sembrare impossibile che sia una ragazza così triste ad eseguirla. Questo fatto impedirà ai partecipanti, al termine della festa, l’uso dei prevedibili toni di compatimento nei confronti dell’anziana insegnante, considerata ormai fuori gioco…

 

 

 

 

 

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Testualità

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Dare voce all’ineffabile – non, semplicemente, parlarne – è quell’evocare tutto ciò che di inespresso, di non detto, di sottaciuto, di denegato si agita sul fondo della nostra coscienza e arriva in superficie per vie sconosciute a noi. Attraverso le parole – non, semplicemente, i termini della nostra lingua – arriviamo a produrre una voce fatta di parole-tema, parole peregrine a volte, che finalmente dicono di noi quello che non avremmo mai sperato di riuscire a dire. È importante trovare le parole che ci regalano la felicità dell’opera, il sentimento della compiutezza della scrittura. Scrittura, non stile – non, semplicemente, lessico, sintassi, prosodia -, anche se quest’ultima riveste un ruolo importante nella realizzazione del perfettamente compiuto della forma. Articolare i propri sentimenti, dando ad essi ordine e misura, è compito del ritmo della scrittura, di una certa musicalità della prosa quotidiana. Studiate simmetrie, indovinate analogie, accorti stilemi fanno di una scrittura un personale e godibile modo espressivo. Perfino noi ci sporgiamo su parole prosodia scrittura, per cogliere, attraverso le scelte lessicali fatte e l’ordine del discorso, i sensi di un dispositivo espressivo che si fa macchina produttiva sotto ai nostri occhi. Ripercorriamo, infatti, più volte il tessuto del testo, per trovare in esso le ragioni della scrittura. Oltre lo stesso significato del particolare elemento ‘compositivo’, infatti, ci piace chiamare senso il significato generale che nel testo viene realizzato, più che da coerenza e coesione, dai rimandi ipertestuali, dal contesto che ‘precede’ il testo stesso, nonché dalle altre condizioni della testualità di cui non parliamo quasi mai. Intervengono a fare di un testo un testo, infatti, Coesione, Coerenza, Intenzionalità, Accettabilità, Informatività, Situazionalità, Intertestualità. Qualora manchi una sola di queste condizioni, un testo non è più testo.

Da ROBERT-ALAIN de BEAUGRANDE e WOLFGANG ULRICH DRESSLER, Introduzione alla linguistica testuale, Il Mulino, Bologna 1984: pp.17-29

Definiamo il TESTO come una OCCORRENZA COMUNICATIVA che soddisfa sette condizioni di TESTUALITA’. Quando una di queste condizioni non è soddisfatta, il testo non ha più valore comunicativo. Tratteremo pertanto i testi non-comunicativi come non-testo.

Chiameremo il primo criterio COESIONE. Esso concerne il modo in cui le componenti del TESTO DI SUPERFICIE, ossia le parole che effettivamente udiamo o vediamo, sono collegate fra di loro. E dal momento che le componenti di superficie vengono a dipendere l’una dall’altra in base a forme e convenzioni grammaticali, la coesione si fonda su DIPENDENZE GRAMMATICALI.

Chiameremo COERENZA il secondo criterio. Essa riguarda le funzioni in base alle quali le componenti del MONDO TESTUALE, ossia la configurazione di CONCETTI e RELAZIONI soggiacenti al testo di superficie, sono reciprocamente accessibili e rilevanti>. Si può definire un concetto come una configurazione di sapere (contenuto cognitivo) che può essere richiamato alla mente o attivato con una unità e consistenza più o meno forte. Le relazioni sono gli ANELLI DI CONGIUNZIONE fra i concetti che si presentano assieme nel mondo testuale. La coerenza non è solamente una caratteristica dei testi, ma piuttosto il risultato dei processi cognitivi degli utenti dei testi stessi. Quando si aggiunge il proprio sapere al fine di ricostruire un mondo testuale, si parla di INFERENZIAZIONE. La coerenza e la coesione sono concetti incentrati sul testo le cui operazioni concernono direttamente il materiale testuale. Ci occorrono poi anche delle nozioni incentrate sugli utenti del testo riguardanti l’attività della comunicazione testuale in relazione tanto a chi produce il testo che a chi lo riceve.

Il terzo criterio della testualità potrebbe quindi essere chiamato INTENZIONALITÀ. Questa si riferisce all’atteggiamento del producente testuale che vuole formare un testo coeso e coerente capace di soddisfare le sue intenzioni, ossia di divulgare conoscenze o di raggiungere il FINE specifico di un PROGETTO.

Il quarto criterio della testualità è l’ACCETTABILITÀ. Essa concerne l’atteggiamento del ricevente ad attendersi un testo coeso e coerente che sia utile o rilevante per acquisire conoscenze o per avviare la cooperazione a un progetto.

Con il quinto criterio della testualità, che chiamiamo INFORMATIVITÀ, intendiamo la misura in cui gli elementi testuali proposti sono attesi o inattesi oppure noti o ignoti/incerti.

Possiamo chiamare SITUAZIONALITÀ il sesto criterio della testualità. Questa condizione riguarda quei fattori che rendono un testo RILEVANTE per una SITUAZIONE comunicativa.

Il settimo criterio della testualità è l’INTERTESTUALITÀ. Essa concerne quei fattori che fanno dipendere l’utilizzazione di un testo dalla conoscenza di uno o più testi già accettati in precedenza.

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La misura e la grazia

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Martedì 20 febbraio 2018

Lasciar accadere le cose. Non intervenire. Certo, non per neghittosità né per vile prudenza. Piuttosto, per far sì che il corso naturale delle cose dia i suoi esiti, e per non lasciare sulle cose stesse i segni del proprio passaggio. Ogni indecidibile richiede una scelta. Spesso, il miglior modo di agire è non agire.

Lasciar morire una relazione che non porti da nessuna parte, facendola languire, condannandola all’inedia. Osservare da vicino l’ostinazione e la ripetizione sempre uguale delle ragioni personali di chi non sia minimamente disposto ad aprirsi, per non soffrire il dolore dell’incontro. Concedere la vittoria alla stupidità e all’improntitudine di chi non sia minimamente avvertito della nostra presenza e non comprenda le nostre miti ragioni. Questo e altro ancora è Ascesi, esercizio che dà i suoi frutti nella pazienza, nel silenzio, nella solitudine.

L’epifania della grazia è dono insperato che tocca in sorte a chi abbia trovato la misura del suo fare. Sorte, non destino. Risultato dei processi di liberazione e di emancipazione della coscienza dai ceppi dell’illusione e dai capricci del desiderio. La grazia come arrendevolezza della fantasia è carattere degli imperdonabili, che aspirano all’esattezza del sentire e alla perfezione dei gesti. Le pause dell’anima conducono alle soglie dell’invisibile, ché sono il distillato del pensiero del cuore. Solo i cuori pensanti, infatti, sono disposti a fare dono della loro anima perfino a chi, poi, non sia pronto a fare altrettanto!

Più che il crepuscolo della sera, si addice a questi viandanti la luce del mattino. Custodi del passaggio, essi prediligono la soglia, come i poeti, i più arrischianti. Allo stesso modo, danno il nome alla ferita. Si inoltrano nei territori della follia, abitati dall’amore, per tornare più saggi di prima, meno disposti a dare credito a tutte le sirene. Sempre pronti a gettare ponti verso l’altro, scrutano guardinghi l’altra sponda, per spiare le mosse di chi, a sua volta, dovrà mostrare l’intenzione di percorrere il ponte che porta fino a noi.

La scepsi sulle umane cose è metodo, attesa paziente della risposta, silenziosa attitudine alla conoscenza personale, esercizio solitario dell’ascolto delle ragioni dell’altro. La misura è raggiunta grazie alla giusta attesa, alla qualità dell’accordo raggiunto, alla capacità di accettare e di dire Sì all’esistenza dell’altro.

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“La voce è il vettore dell’esperienza più vicino all’inconscio”

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Assieme a Volto, Sguardo, Parola, la Voce va a costituire quei modi dell’apparire della persona di cui non diremo che si risolvano in mera apparenza: «Nulla appare invano» (De Monticelli); le apparenze non ingannano, se sapremo, ogni volta di nuovo, tenere insieme apparenza e realtà della persona, con uno sguardo fenomenologico che ci condurrà a ciò che c’è di più proprio di una persona, attenendoci al principio di fedeltà, che prevede che si segua il modo di apparire della cosa, della persona fino alla sua essenza.

La voce: un potente strumento per raccontare il mondo. Ma proprio la voce in sé, come materia sonora, non i significati delle parole a cui la voce rimanda. Troppo spesso l’idea di voce è limitata al campo dell’oralità come contrapposto a quello della scrittura, o al rivestimento fonico di un concetto, o alla forma di un contenuto. Dove quello che importa alla fine è il contenuto. Invece, prima di ogni senso c’è un suono: anzi, il suono ha già, in se stesso, un senso.

Carlo Serra, filosofo della musica, ha esplorato in un recente saggio – La voce e lo spazio. Per un’estetica della voce, Edizioni Il Saggiatore 2013: – i vari modi in cui ogni cultura, attraverso la voce, immagina il mondo. Carlo Serra ci parla di cosa può fare la voce. Evocare una soggettività, invocare una relazione, esprimere la propria storia, raccontare la natura. O anche, come sentiremo direttamente da alcuni documenti sonori, accompagnare la caccia dei pigmei dal qui del villaggio al là ignoto e oscuro della foresta, oppure diventare un paesaggio sonoro di acque attraverso un canto mongolo. Ma prima ancora di emettere un suono la voce è semplicemente respiro: ascoltando il respiro rituale di un sciamano ci renderemo conto di quante valenze simboliche può assumere anche un semplice “prendere fiato”.

[Tutte le note di Estetica subiranno nel tempo rimaneggiamenti e integrazioni.]

La grana della voce – le mie letture

Leggere anche la Nota che precede: Estetica

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Estetica

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Dopo il Diario delle posizioni e gli Esercizi spirituali, ritengo di dover assegnare oggi la riflessione sull’esperienza personale al Discorso estetico. Se la prima espressione serviva a fissare le prese di posizione teoriche, la seconda alludeva meglio alla cura di sé, al lavoro educativo che mirava a rimuovere gli ostacoli sul cammino di liberazione personale.

La parola, finalmente, si accampa sulla scena (quasi) libera da timori e angosce. [La ‘fonte’ è il Lacan del Seminario XVII, con la produzione dei quattro discorsi]. La parola – ben distinta dalla lingua – è l’effetto di senso, l’effetto-soggetto che io sono, come risultato della causalità metonimica che istituisce la catena dei significanti lungo la quale si dislocano le identificazioni nel tempo, sotto la spinta del simbolico e del reale.

Prima ancora di parlar d’arte e della sua fruizione estetica e di ricezione e di emozione estetica, occorre chiedersi cosa significhi per noi fare esperienza.

Sicuramente, non sarà un fatto quantitativo – di esperienza appunto, che poi si riduce ad aver fatto molte esperienze!, come amavano dire i vecchi di una volta. Le esperienze possedute costituivano un tempo un sapere della vita che si traduceva con il tempo in un sapere per la vita: chi aveva più esperienza aveva da trasmetterne. Sapere equivaleva a conoscere la vita: sapere come inevitabilmente si sarebbe svolta. L’età da sola comportava sapere ed esperienza. Oggi – come direbbe Kundera – vecchi e giovani sono due continenti destinati a non incontrarsi mai. Ognuno di noi affacciandosi alla vita ha da scoprire tutta la vita. Sembra che tutto il sapere che pure abbiamo accumulato non possa servire in nessun modo alle altre esistenze che guardano nella stessa direzione. Ci affanniamo poi a far conoscere ai giovani la meta. E quando non ci riusciamo, indichiamo la direzione, con la speranza che si decidano a guardare nella stessa direzione verso la quale siamo rivolti noi. Fare esperienza è possibile a condizione che ognuno di noi si appropri della propria esperienza, e appropriarsi della propria esperienza significa categorizzare il sentire, dare un nome a tutti i moti dell’anima, per acquistarne coscienza e per vincere la sfida del senso vissuto: quello che, infatti, sembra appartenerci di più – il ‘vissuto’, l’esperienza (ri)vissuta – è costante materia di contesa, giacché la memoria opera in direzioni spesso sbagliate, perdendosi nel passato o nel futuro, senza trovare il modo di consistere nel presente, che è il ‘luogo’ dal quale soltanto è possibile vincere la battaglia del senso. Se non siamo in grado di dare un nome alle nostre emozioni e descrivere la profondità del nostro sentire, il nostro sentimento del tempo e delle cose e delle persone, riusciremo a vivere adeguatamente l’esperienza estetica, ricreando in noi i mondi possibili che l’arte crea per noi? Riusciremo a dire tutto ciò a cui l’arte allude, che presuppone, che indica, che cerca di dire?

E’ possibile andare mille volte al cinema e continuare a non comprendere la natura dell’opera, il suo carattere composito, ma soprattutto lo sguardo dello spettatore, l’importanza dello sguardo nella fruizione estetica. Noi postuliamo qui la ‘necessità’ di una educazione estetica, cioè una educazione del sentire, in assenza della quale ‘avvertiremo’ frammenti di senso, riceveremo sicuramente impressioni dall’arte, ma non approderemo tanto facilmente – consapevolmente – all’emozione estetica. Il Lettore esperto di cui parlava Umberto Eco è il ‘risultato’ della formazione, non dell’occasione offerta dal contatto occasionale, per quanto ripetuto, con l’opera d’arte.
Un incontro che segnerà tutta la nostra vita costituisce esperienza, è fare esperienza di una persona, comprenderne il significato: attribuirle un significato. Che sarà poi il significato che quella persona rivestirà solo per noi, presso di noi, a partire dall’esperienza che noi ne facciamo. Insomma, l’esperienza estetica è la semplicità dello sguardo, è il confine stesso dello sguardo, il darsi dell’oggetto all’interno di un’esperienza che si sa consapevole di sé, che esprime attraverso l’emozione estetica le costellazioni di senso entro le quali confluisce tutta l’esperienza personale.
Arte e arti, tutte le arti; la storia dell’arte; teoria generale dell’arte; sensibilità, immaginazione, fantasia, immagine, figura, simbolo… Una teoria estetica è postulata dalle estetiche filosofiche come dalle estetiche non filosofiche. Etica ed estetica si incontrano nei cieli delle teorie, fino a vedere confuso il loro oggetto: entrambe avrebbero a che fare con l’ineffabile. Invisibile, indicibile, ineffabile, inesprimibile, tuttavia, sono concetti che vanno ridefiniti, alla luce delle teorie dell’arte come del linguaggio. Ogni epoca ha una propria estetica, ma anche più di una. Al di sopra dell’opera e del genere e della poetica, possiamo sempre risalire ad un’estetica che sia presupposta da opera, genere, poetica. Autonomia ed eteronomia, avanguardia e tradizione… Bello, brutto, sublime. Genere, autore, opera, lettore, fruitore, critico, pubblico, destinazione dell’opera. Rendere conto della natura e della realtà dell’Estetica è sicuramente possibile a partire dall’esperienza estetica, dalla creazione artistico-letteraria alla presenza del fruitore, al lettore esperto.

[Questa scheda sarà rivista, corretta, rimaneggiata, completata nel tempo]

ESTETICA (1) – “La voce è il vettore dell’esperienza più vicino all’inconscio”

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Il tempo dell’elaborazione (6) – Il tempo lungo della simbolizzazione e della categorizzazione del nostro sentire

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Venerdì 20 gennaio 2017

Il tempo lungo della simbolizzazione e della categorizzazione del nostro sentire

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30 ottobre 1940
Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, naturale come l’aria. E’ impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si preferisce la crisi dell’urlo alla sua attesa. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta – sia pure per intensificarsi. Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi 1952, pag.191

L’esito della pratica dell’elaborazione, che viene esercitata sulla nostra esperienza del dolore, ci mette davanti alla potenza del simbolo. Solo se accompagnata dai necessari processi di simbolizzazione, e se quest’ultima è preceduta da un’accurata e precisa categorizzazione del nostro sentire, l’elaborazione sortisce effetti trasformativi: il dolore ci trasforma, se sappiamo condurre il lavoro su noi stessi nella maniera dovuta.
Intanto, bisogna attraversare l’esperienza del dolore fino in fondo, senza risparmiarsi nulla che ci venga riservato in sorte: essa è preceduta e accompagnata da estenuazione e dolore della mente e angoscia e tedio; è scandita nel tempo, è percezione pura del fluire del tempo-dolore, che non smette di scavare dentro di noi, lasciandoci nella confusione e nell’errore. Queste ultime condizioni dello spirito postulano il complesso lavoro di analisi dei contenuti di coscienza, per distinguere pazientemente emozione e concetto e finalmente correggere ciò che c’è da correggere, se ci troviamo di fronte a scarsa esattezza del sentire. La trasformazione avviene in noi, se sapremo riconoscere la realtà dell’altro, così come essa è.
La durata del lavoro di elaborazione conseguente ad abbandono o perdita può durare anche per decenni, fino a quando non si arrivi a trovare la cifra dell’accaduto, se la ferita non cessi di sanguinare perché il lavoro è finito, avendo il tempo trovato il suo compimento. Ogni indugiare ed insistere ed ostinarsi nel chiedere senso, infatti, è segno di un tempo che non cura, come un ritrovarsi in mezzo al guado, senza meta e senza direzione di marcia: ne va di noi, del modo di consistere nel tempo, del raccordo da istituire di nuovo tra identità e memoria, dopo che il ricordo abbia agito sulla vecchia identità per congedarsi da essa; ma decidersi, cioè staccarsi dal vecchio, non basta, perché bisogna alzarsi al mattino e andare incontro al giorno, avendo scelto se farsi guidare da un demone buono o da un demone cattivo.

L’esercizio dell’interrogazione infinita sarà fruttuoso, se non ci stancheremo di ripercorrere la strada fatta, a costo di scoprire ogni volta di nuovo che non è ora, non è l’ora del nuovo sentire: il nunc in cui ci ritroviamo a consistere, per quanto sia un tempo dilatato oltre il ritmo dell’orologio, se pure è il tempo della nostra coscienza, lungo quanto si vuole e lento e poco cadenzato, non porterà con sé buone nuove per noi, se non interverrà a dargli senso – significato e direzione – una categorizzazione più ampia, la riconsiderazione dell’incidenza delle ‘vecchie’ categorie a vantaggio di un orizzonte di senso che non le comprenda più. E’ questo uno dei passaggi più duri per noi: emanciparsi da modi di guardare alle cose su cui siamo stati fermi per ampie porzioni della nostra vita non è gesto, azione, semplice decisione. Non è difficile dire ‘no’ a ciò che scopriamo essere causa del nostro dolore; più difficile ‘staccarsi’ da quello che siamo stati, e poterlo contemplare da riva come fa il naufrago che si volga a considerare ancora il pericolo passato. Se non arriviamo a vedere il pericolo, se non ci sentiamo all’acmè di una prolungata esposizione al pericolo, non coglieremo il rischio di essere colpiti ancora e di restare prigionieri di ciò da cui pure vorremmo liberarci. Quando si tratti di un oggetto d’amore, di persona lungamente amata, non è facile modificare il suo ‘significato’, attribuendole quel tanto di negativo che pure si richiede, perché acquisti le caratteristiche di ciò che ci colpisce, che ci ferisce, ci abbatte, perché sia possibile infine perseguire il fine del ‘taglio’, del distacco, della rottura, dell’abbandono di ciò da cui siamo stati abbandonati. Esatto sentire vuol dire proprio questo: avere il coraggio di rinunciare all’idealizzazione dell’oggetto d’amore, per proseguire sulla strada dell’analisi critica dei gesti, delle parole, degli atti compiuti nei nostri confronti, avendo cura che ci si riferisca a cose precise e non a sensazioni, vaghe intuizioni, allusioni, supposizioni.

Un esempio forte del modo più corretto di procedere all’eutanasia di un amore è partire dall’idea per niente scontata che «l’amore è sempre ricambiato», come sostiene Jacques Lacan. Se non è così, se abbiamo fondati motivi per dubitare dei sentimenti del nostro partner, non ci resta che sottoporre a verifica stringente ogni manifestazione di sé che l’altro orienti verso di noi, senza trascurare mai gli effetti che producono su di noi le sue manifestazioni di sé. In assenza di benessere, se addirittura si provi disagio, sofferenza, ci sono già le condizioni per dubitare della bontà di un sentimento.

α La nostra prima ‘fonte’ in materia di Simbolo è la voce Simbolo dell’Enciclopedia Einaudi – volume dodicesimo (1981), pp.877-915 -, curata da Umberto Eco.
Con il saggio Il modo simbolico, contenuto in Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi 1984, la voce di Enciclopedia viene ripresa e ampliata

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Il tempo dell’elaborazione (5) – Tenersi il dolore dentro

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Lunedì 26 dicembre 2016

Tenersi il dolore dentro

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Mentre l’anno volge al termine, non possiamo impedire alla nostra mente di riandare al tempo trascorso, per trovarvi un senso – significato e direzione di marcia, valore simbolico e inquadramento in unità temporali più grandi -: perché non sia solo un anno solare, una somma di mesi e stagioni, con qualche grande evento sparso qua e là, bisogna fare in modo che una categoria più grande, capace di comprendere sotto di sé più tempo, ci venga in aiuto, e per questo invochiamo da parte nostra conoscenze e capacità di sintesi.
Mentre seguo il film “The giver” su Netflix mi vengono in mente le parole “Tenersi il dolore dentro”, che in verità vengono pronunciate all’inizio del film. Siamo in una società futura di sopravvissuti a qualche catastrofe generale. Sono state cancellate tutte le ragioni di divisione e le disuguaglianze ma anche emozioni e sentimenti. In un’organizzazione impersonale i destini vengono decisi da un Consiglio di anziani che sceglie tutto. Nella festa annuale in cui gli adolescenti avanzano alla vita adulta, Jonas scopre di essere il prescelto, giacché possiede tutte le qualità richieste per esserlo. Sarà il Raccoglitore delle memorie. C’è già un vecchio che svolge il compito, che ora passerà a lui la memoria di tutto ciò che è stato e che nessun altro deve conoscere. Mentre inizia a scoprire il negativo della storia precedente dell’umanità, la persona che sta al vertice del Consiglio ci rivela che il compito più grande di Jonas è «tenersi il dolore dentro»: egli non dovrà rivelare ai suoi compagni d’età né ad altri la natura del suo addestramento. Tutti dicono sempre la verità. A Jonas ora è consentito mentire! Dalla frequentazione del vecchio Giver Jonas arriva a scoprire la guerra, la ferocia, l’amore…
La riflessione che propongo all’attenzione di tutti, allora, è “tenersi il dolore dentro”: penso subito alle paure senza nome dei bambini e al dolore muto della perdita e della malattia. Accade a tutti noi di non riuscire a dire la forza che si abbatte su di noi e che ci supera, facendoci ammutolire. “Tenersi il dolore dentro”, allora, non è solo una prescrizione morale, un compito, una virtù, il segno quasi di un dono della persona: tacere, rimandare ad altro, dissimulare il colpo subito con un piccola bugia, sublimare il dolore patito con uno sguardo che tiene insieme e giustifica atteggiamenti e studiati silenzi richiede una forza morale che è diventata manifestazione rara di sé. In questa società, infatti, si esalta ad ogni piè sospinto la pubblica confessione di sé, la trasparenza assoluta, la verità al di sopra di tutto, anche dell’amore.
Più che l’autenticità della persona, che vedrebbe premiata la dissimulazione onesta, si pretende la veridicità (della parola) e la sincerità (dei gesti e dei comportamenti). L’insistenza, l’ostinazione, il tribunale, la testimonianza anonima sono autorizzati, nell’esercizio della ricerca e della ‘sanzione’ della verità. Si cade facilmente nella trappola ‘analitica’ dell’assolutizzazione della singola azione, eretta a emblema e simbolo della persona: una menzogna, un tradimento equivalgono a una condanna senza appello, giacché ci dicono una natura menzognera e ci portano all’esito di una relazione messa davanti all’Irreparabile.
La via del perdono non è praticata a cuor leggero né suggerita come la più doverosa, per salvare una relazione. Riuscire a farlo è la riprova della capacità della mente di saper incorporare e integrare esperienze ed eventi significativi, rinunciando alle condotte espulsive ed evacuative. Coraggio e magnanimità, compassione e gratitudine sostengono bene solo chi si sia esercitato a lungo nell’atteggiamento dell’accettazione della persona dell’altro: tanta parte dell’attività educativa poggia su questo principio.
Ai padri e ai maschi, soprattutto, si richiede questa capacità, il dovere di esprimerla, per dare modo alla vita di dispiegarsi anche nei suoi modi capricciosi e imprevedibili. Il padre, poi, deve essere il lungimirante, colui che va oltre il quotidiano e l’accidentale, perché sa guardare le cose dall’alto, senza perdersi nei fatti e nelle prese di posizione degli altri. Il padre tace, apparentemente senza prendere posizione, in realtà ha di mira un bene più grande o la preoccupazione di preservare i beni presenti, in qualche modo minacciati. È noto l’aneddoto ricavato dalla biografia di Sigmund Freud: il padre passeggiava per le strade di Vienna, tenendosi vicino al muro di un lungo caseggiato. Un grasso commerciante si avvicinò e giunto vicino a lui, gli gridò: «Scansati, ebreo!», dando un colpo secco al suo cappello che cadde nel fango. Il giovane Sigmund, che ascoltava il racconto, aspettava il seguito della storia, proteso verso l’eroe che era suo padre, ma lui raccolse il cappello e andò via. I biografi riferiscono una delusione del piccolo Sigmund, di cui non abbiamo prove. È più giusto pensare che su quella delusione egli abbia saputo costruire dentro di sé l’immagine del Padre, che pensa non solo a sé ma alle conseguenze delle sue azioni. Pensando ad esse, a quello che poteva accadere, se avesse reagito all’offesa, quel padre si tenne il dolore dentro…
Il cuore della mia riflessione, tuttavia, è altrove, nella considerazione dello spettacolo del dolore del mondo a cui siamo quotidianamente sottoposti dai media. Essi non possono fare a meno di informarci. Dobbiamo decidere che ne è di noi, se dare voce al dolore degli altri oppure no, dando così un senso ad esso. Possiamo distogliere lo sguardo, ma, se siamo rimasti umani, ci porteremo dentro, comunque, la traccia di quel forte sentire.
Le agenzie di verità del nostro tempo – scuola, Chiesa, giurisdizione – talvolta si schierano contro l’ostentazione dello spettacolo del dolore da parte dei media: invocano il silenzio, il pudore, la prudenza, la compassione… Bisognerà dire, tuttavia, che ci lasciano soli di fronte a uno ‘spettacolo’ che comunque è già stato sottoposto al nostro sguardo. Restiamo quasi sempre soli di fronte ad esso e finiamo per tenercelo dentro, anche perché è difficile dare voce ogni giorno a tutto il dolore del mondo.
Non lo ammettiamo volentieri, ma nel corso della nostra giornata il nostro umore porta i segni di quella ferita. Tra i fatti di cronaca, poi, in cui qualcuno perda la vita o subisca grave offesa, ci portiamo nel cuore qualcuno più degli altri.
Mentre l’anno volge al termine, la stampa ripropone mese per mese i fatti di rilievo, come la morte dei personaggi famosi, le catastrofi naturali, i passaggi politici, il volto della povertà, la compassione. Sono rari i momenti di festa, dunque non rimproveratemi per questa mia riflessione, che non consegno al 31 dicembre: è partita già. Tutti sentiamo che qualcosa sta morendo e desideriamo ardentemente per noi e per gli altri che i primi giorni del nuovo anno siano nuovi, cioè portino cose buone. Sappiamo, allo stesso modo, che non è mai stato così, che i destini umani non sono scanditi dal calendario: i momenti di gioia e di felicità restano consegnati alla convivialità, al dono, alla gratitudine, spesso alla nostra capacità di tenerci il dolore dentro, magari per non togliere a chi è stato disattento o cattivo con noi la possibilità di durare ancora, non importa se inconsapevolmente.
Un piccolo sgarbo, una disattenzione, una mancanza anche grave, un silenzio studiato ci feriranno ancora. Ciò che conta è la capacità di dire sempre Sì ancora, se ricordiamo il bene ricevuto.
Possediamo tutti il coraggio e la forza, l’indulgenza e la magnanimità. Se sapremo tenere a bada i nostri demoni, non prevarrà il risentimento, né con esso lo spirito di rivalsa e la neghittosità e la tetraggine. Contro la malinconia del così fu, contro l’irredimibile, prevalga la speranza, lo spazio per accogliere in noi l’insanabile diversità, e la capacità di andare oltre l’errore, correggendo l’errore, senza respingere la persona che sbaglia.
Restare umani è continuare a volere il Bene, al di là di ogni commiserazione.
La terra senza il male non è mai esistita. Dovremo combatterlo in noi e fuori di noi, mirando a ritrovarci sempre dalla stessa parte, cioè dalla parte di chi cerca sempre nuove ragioni per dire Sì.

Scrivimi: posta@gabrielederitis.it

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