Il tempo dell’elaborazione (4) – Il tempo dell’amore

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Lunedì 17 ottobre 2016

Il tempo dell’amore

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Il potere della memoria non risiede nella sua capacità di far risorgere una situazione o un sentimento effettivamente esistiti, ma in un atto costitutivo della mente legato al proprio presente e orientato verso il futuro della propria elaborazione – Jacques Dérrida

Angelo smemorato

Continuare a scrivere sull’elaborazione è segno del carattere residuale dei discorsi attuali: ciò che resta è un resto, il sopravvivere di ciò che vorremmo inerte, non più vivo, né operante in noi. Il riconoscimento di un peso che avrebbero ancora le cose significa, poi, che il desiderio deve essere interpretato ancora, nonostante i ripetuti addii e le rotture e la distanza e il tempo trascorso. Catalogare e ‘archiviare’ il passato è possibile a condizione che sia tutto chiaro. Il lavoro della memoria, tuttavia, comprende il presente, per il quale si procede nell’elaborazione dell’esperienza vissuta, e il futuro che viene preparato dal modo di consistere oggi qui. Il carattere simbolico dell’elaborazione implica una ricomposizione di sé su altri piani di realtà che non sono dati, non sono già dati.

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Siamo abituati a concepire l’elaborazione – la riflessione sull’esperienza vissuta – come strumento da mettere al servizio dell’abbandono, della perdita, del lutto. Se prevale questo richiamo al lavoro da fare su di sé quando siamo nel ‘lutto’, cioè in tutte le forme di perdita di cui è dato fare esperienza, sarà necessario estendere il ‘lavoro’ a mancanza, lontananza, assenza, che non comportano di necessità una perdita. La malinconia d’amore, che è consustanziale alla mancanza, andrà combattuta con le opportune strategie di apparizione, a cui faremo ricorso nella vita quotidiana per esorcizzare la mancanza.
Il desiderio di conoscenza (dell’altro che è in noi, come dell’altro che è fuori di noi) che accompagna la domanda d’amore chiede di sapere ma non sempre è orientato nella direzione giusta: lo sguardo si rivolge al passato, come se in quel tempo immemoriale fosse depositato il germe della verità che salva. Vogliamo sentirci dire che le cose sono andate come vorremmo che fossero andate (solo chi sia dotato di maturità affettiva saprà accogliere la verità dell’altro che si dischiuderà davanti a noi attraverso i suoi racconti, che andranno ascoltati e basta: è vera maturità saper custodire nel proprio cuore la realtà dell’altro, oltre le paure e le insicurezze personali…). Ci rendiamo prigionieri del passato, quando la vera conoscenza è del presente: la persona con la quale siamo impegnati a stabilire una relazione è una presenza, si farà per noi vera presenza, se noi sapremo costruire un legame che non sia condizionato dalla paura né dal risentimento.
L’altro è impegnato a consistere nel presente, essendo preso, come noi, dal compito di elaborare il proprio  passato, per farne un’occasione da mettere al servizio del presente. Il presente-ora – luogo dell’esperienza che non si esaurisce nello spazio breve di un giorno, di un avvenimento, di un gesto datato – è tempo-ora, è il nunc che siamo impegnati a dilatare nel dominio del tempo vissuto, per farne possibilità di consistere e certezza del sentire. L’ordine del cuore, infatti, non è estraneo alla dimensione personale del tempo: assegnare all’altro il posto che gli compete nella percezione che ne realizzeremo è operazione ripetuta nel tempo, che ci consente di verificare la bontà del nostro interesse, la forza del sentire, il valore assegnato alla persona.
Chi si staglia davanti a noi non è mera presenza, vuota parvenza: l’apparizione dell’altro è ingresso nella nostra esistenza, se contribuiremo a dare senso a quella apparenza, legandola saldamente alla realtà dell’altro. Si darà incontro, se sapremo, da una parte e dall’altra, tenere insieme apparenza e realtà della persona, istituendo le file di continuità che costituiscono la vera garanzia della bontà della quotidiana contrattazione del significato delle cose; è nell’ancora che torniamo a ripetere e nell’ancora della volontà di sapere che sarà reso possibile dare vita a quella continuità che farà poi storia. E sarà storia da costruire, non rievocazione del passato personale, da spendersi in un improbabile commercio dei significati delle cose. E’ il futuro della propria elaborazione di cui parla Jacques Derrida.
Vivere nel passato, avendo assegnato ad esso il potere di fare giustizia nell’amore, perché luogo in cui sarebbe depositata la verità personale, è consegnarsi alla malinconia del così fu, vissuto come imperdonabile, imprescrittibile, irredimibile: è rinunciare alla possibilità della redenzione del tempo, al riscatto delle azioni compiute, al lavoro di elaborazione del passato, in vista di un significato ulteriore da dare alle cose. E’ il presente il tempo dell’amore, ché è il tempo della presenza, della trascendenza personale, dell’ulteriorità di senso, che contribuiamo ad assegnare giorno per giorno alla vita della coscienza con i nostri atti.
La valorizzazione della trascendenza della persona dell’altro passa attraverso il riconoscimento della trascendenza come realtà della persona che attingiamo facendoci guidare dal suo modo di apparire: solo tenendo insieme apparenza e realtà riusciremo a cogliere la profondità del sentire personale, cioè la sfera del sentimento, che ci conduce al cuore della realtà della persona.
Il visibile ci conduce sempre all’invisibile dell’esperienza dell’altro. Il volto, lo sguardo, la voce, la parola, gli atti dell’altro sono i suoi invisibilia, la realtà più vera della persona. Ad essi daremo voce, nella contrattazione dei significati: indicheremo ciò che ‘vediamo’, ciò che l’amore ci fa vedere. L’intelletto d’amore saprà dare un volto alla persona, saprà risalire dallo sguardo al soggetto inconscio del desiderio, si farà guidare dalla voce verso le oscurità dell’Ombra, accostandosi sempre più alla realtà della persona. Il presente è lo spazio ampio della temporalità della coscienza, il luogo del suo consistere, la dimora del suo essere. L’ek-stasis mondana è la propensione oltre i meri fatti, nell’atmosfera rarefatta ma concreta delle parole, dei gesti, delle azioni, che materializzano la spinta del desiderio: la tensione verso l’altro, che si afferma nel desiderio di conoscenza dell’altro, rivela i modi di darsi e di sottrarsi dell’anima, nella sua apertura alla dimensione estatica dell’altro: la nostra trascendenza è protesa verso la trascendenza dell’altro; i nostri invisibilia cercano gli invisibilia dell’altro. Il commercio delle anime, quando si dia incontro, costituisce il luogo della verità: per noi, «la verità è il tono di un incontro» (Hofmannsthal); solo imparando ad «abitare la distanza» (Rovatti) poi riusciremo a dare voce adeguata al desiderio, trascorrendo coraggiosamente da un ‘luogo’ all’altro, secondo i suoi spostamenti metonimici.

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α Cadiamo sempre in un errore prospettico di cui non ci rendiamo conto quando ci attardiamo su posizioni sterilmente preoccupate del mero recupero del passato, mentre dovremmo considerare il vero compito di consistere nel presente, il nostro presente, e da lì muovere i nostri passi verso un futuro da costruire come spazio dell’elaborazione dell’esperienza vissuta, luogo di tutti i ‘vissuti’ che affiorano alla coscienza e che reclamano una ulteriorità di senso e spazio nella stessa coscienza, l’istituzione di file di continuità nella trama di sempre nuovi racconti, perché ciò che è stato non precipiti nella malinconia del ‘così fu’: solo ciò che è raccontato prende vita; dare forma alle cose è questo nominare e dare voce a ciò che preme dolorosamente in noi e che ci chiama a sempre nuovi compiti, all’esercizio rinnovato della parola che incanta e commuove il viandante che è in noi. Rimettersi in cammino gioiosamente è la scienza della vita che è vita davvero.

α È coraggio di vivere questo congedarsi dalle secche del passato che non passa, per dare nuova voce ad ogni richiamo delle cose che chiedono senso, che si dia senso a tutte le voci che si accampano sulla scena della vita intorno a noi: ad esse corrispondere non è tradire il senso della nostra presenza – quasi un venir meno alla fedeltà alla terra che ci sostiene e che ci nutre -, se il posto che andranno ad occupare in noi quelle voci contribuirà a dare senso alla nostra vita, facendo diventare biografia l’infranto, se chi ci guarda è interessato a raccontarci la favola della nostra vita. È questo corrispondere alle nostre attese che dà senso all’attesa e alla speranza. Avviene, talvolta, che un ascoltante riesca ad essere angelo per noi. Massimo Cacciari ha scritto che «la creatura è in ascolto»: quell’«è» va scritto in corsivo, per significare che non di pochi ascoltanti di professione è il compito di costituire occasione di salvezza per qualcuno. Ad ognuno di noi sia angelo chi gli sta accanto, che sia capace di raccontare a noi quello che siamo stati, perché sia possibile consistere in questo presente e sperare di essere amati ancora.

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Il tempo dell’elaborazione (3) – Oltre il silenzio

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Mercoledì 12 ottobre 2016

Il tempo dell’elaborazione (3) – Oltre il silenzio

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Angelo smemoratoLa terra di nessuno in cui ci ritroviamo a consistere precariamente oggi ci è nota. Più che di vuoto, si tratta del nulla che precede ogni scelta, la condizione di chi si ritrovi di fronte a un nuovo non ben definito ancora. E’ la nostra libertà che assume i contorni della sospensione e della dilatazione a dismisura del tempo della coscienza, considerato che lo stesso spazio era occupato in precedenza da relazioni umane che sono venute meno e da compiti da cui siamo stati abilmente esclusi. Quello che ci ritroviamo a ‘chiedere’ senza esitazione, direi perentoriamente, oggi, è il pieno rispetto della nostra identità e del nostro valore. A questa sola condizione siamo disposti ad uscire di casa per andare incontro al mondo. Non siamo chiusi orgogliosamente nella nostra beata solitudine, che non siamo interessati a considerare la sola beatitudine possibile. Siamo in buona compagnia con noi stessi, ma preferiamo essere contaminati ancora dal contatto con l’umanità altrui, soprattutto con l’impegno politico e sociale. 

α  Il vuoto è propriamente la mancanza di senso in cui precipitano le cose prima di noi, cioè prima che interveniamo a dargliene uno con il lavoro quotidiano della coscienza che si impegna nella contrattazione dei significati con gli altri, perché un mondo sostanzialmente estraneo a noi si trasformi in una realtà durevolmente condivisa. Se la semiosi illimitata costituisce l’attività prevalente della mente, segnata com’è dalla preoccupazione etica di accettare quanto pure viene dagli altri e che deve trovare posto nella nostra coscienza, perché si dia vera comprensione delle ragioni degli altri, la condizione tossicomanica è contraddistinta dal lavoro ‘contrario’, di tipo evacuativo: le condotte d’abuso, infatti, come ogni altra forma di dipendenza, mirano ad espellere dall’area della coscienza tutto ciò che è fonte di dolore, la fatica del concetto – per sconfiggere equivoci e malintesi, ambiguità e fraintendimenti -, il lavoro di traduzione e di interpretazione dei propri e dei vissuti altrui, la stessa fatica di esistere, cioè di realizzare l’istanza di fondo del proprio desiderio.

α  Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo.
Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tentare di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.
(da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

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Il tempo dell’elaborazione (2) – Il silenzio

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Mercoledì 12 ottobre 2016

Il tempo dell’elaborazione (2) – Il silenzio

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Non si può mai dire quanto sia destinata a durare l’esperienza del dolore che accompagna i processi di elaborazione simbolica dell’esperienza vissuta, se l’elaborazione interessa la rottura dei legami affettivi e l’abbandono sia da elaborare in absentia.

Il silenzio, che viene scelto come risposta alla domanda di senso che accompagna il lavoro di riflessione sull’esperienza trascorsa, assume talvolta i caratteri del rifiuto: da parte nostra, non si tratta di vedere a tutti i costi corrisposto un sentimento che non costituisce più la ragione di un legame; piuttosto, ci aspettiamo che l’altro non si eclissi, rifiutandosi di situarsi all’altezza del passaggio, della transizione a un nuovo ordine per noi. Abbiamo bisogno di comprendere in che modo l’altro si sia sottratto al faticoso lavoro quotidiano di contrattazione dei significati delle cose: dobbiamo dare un nome al soggetto che abbiamo amato e che precipita sempre più nell’insensato, dal momento che non riusciamo più a far corrispondere alle nostre parole le cose. La comunicazione, infatti, si ammala per questa ragione, perché viene meno il senso: come nel caso del lutto, dobbiamo dare un senso a un ‘nuovo’ che non ne ha ancora uno. Il senso che aveva per noi è venuto meno. Dobbiamo ridefinire intere porzioni della nostra esistenza, alla luce del senso nuovo da dare a ciò che ne aveva già uno, ma che lo ha perduto per noi.

«Winston, come fa un uomo a esercitare il potere su un altro uomo?». Winston riflettè. «Facendolo soffrire» rispose – GEORGE ORWELL

Il silenzio che viene opposto dall’altro può essere riguardato poi come espressione di una volontà che ha posto alla base del rapporto di coppia il potere, l’affermazione volubile e unilaterale di sé su di noi: ad esempio, una concezione dell’amore tutta basata sull’idea che debba essere sempre il maschio a ‘servire’ la donna e che solo debba dimostrare interesse e attaccamento per lei produrrà indefinitamente un silenzio produttivo, ché c’è da aspettare solo il cadavere del nemico portato dalla corrente; la prevalenza dei modi autoritari è spia di una mentalità ristretta, a sua volta figlia dell’educazione autoritaria ricevuta; l’aridità di cuore, infine, ma non per ordine di importanza, è alla base di tanti fallimenti a cui vanno incontro relazioni sentimentali in cui sia presente l’incapacità di amare, che si manifesta soprattutto con il silenzio del cuore. 

Se di elaborazione simbolica si deve parlare, c’è da chiedersi a quale ‘simbolo’ si debba far corrispondere la figura del silenzio che ci viene restituita, perché possa partire il lavoro di ricomposizione dell’infranto a un livello più avanzato: il tempo dell’elaborazione sarà lungo per questa ragione, per la difficoltà che incontreremo a dare un nome al silenzio dell’altro. Trovare le parole non basta. Le parole debbono curare la ferita della perdita, riempiendo un vuoto, cioè dando (nuovo) senso alle cose. Non si tratta semplicemente di tornare a vivere, riprendendo il cammino interrotto. 

Quando una relazione sentimentale abbia occupato una parte grande della nostra vita, e quando, in aggiunta, sia stato condiviso uno spazio politico o sociale, se interviene il silenzio di coloro che dovrebbero proteggere lo spazio comune, si aggiunge per noi silenzio a silenzio. Dobbiamo destreggiarci fra due piani di realtà intrecciati, che fanno pensare all’errore iniziale commesso, quando si assunse lo spazio sociale come luogo di incontro e ‘prolungamento’ della relazione privata. Degli errori che si commettono nelle cose d’amore, questo è il più difficile da ‘correggere’: assegnare al lavoro vissuto insieme il compito di alimentare e di sostenere la vita dei sentimenti è rischioso, per il fatto che le divergenze che facilmente insorgono nel tempo sul lavoro contribuiranno a minare le fondamenta della relazione sentimentale. La ‘confusione’ dei piani di realtà è facile in chi, nella coppia, non abbia grandi risorse private da mettere in campo per proteggere l’intimità dalla vocazione a ‘comandare’: lo spettro dell’Ombra femminile, che si aggira ad ogni piè sospinto intorno a noi, continuerà ad invadere il campo, senza lasciare spazio al confidente abbandono di un tempo. 

Se lo spazio pubblico finisce per esaurire quasi le occasioni di vita comune, tutto subisce una torsione ‘ideale’: l’immagine che ci eravamo fatta del partner e della relazione viene ‘coperta’ dalla funzione pubblica, nella quale verranno trasferite e proiettate le tensioni che erano rimaste irrisolte nel ‘privato’. Di qui, la necessità di combattere la battaglia per la chiarezza e per il riconoscimento nella sfera pubblica. L’oscillazione tra i tentativi fatti in una sfera e poi nell’altra dovranno trovare un approdo, uno sbocco nel pubblico, se esso sarà diventato il luogo dell’amore. L’errore iniziale potrà essere corretto solo così, cercando di distinguere e poi di separare i due piani di realtà. Lo sforzo iniziale teso a distinguere, con l’indicazione forte al partner dei compiti, dei metodi, delle funzioni e dei ruoli delle persone impegnate nell’impresa pubblica potrebbe non sortire alcun effetto. Si renderà necessario, allora, porre il problema formale del rispetto dei compiti, dei metodi, delle funzioni e dei ruoli delle persone: sarà la verifica dei poteri, da cui dipende tutto ciò che sarà. Se la risposta del partner sarà la manipolazione dello spazio politico a suo favore, per conservare il potere acquisito a nostro sfavore, e se tenderà a ricondurre sempre tutto alla sfera privata, come se solo lì le questioni potessero essere affrontate e risolte, riproponendo nella sfera privata la stessa pretesa di prevalere, senza scendere mai a patti, senza cooperare, senza concedere mai a noi il rispetto dei nostri diritti, non resterà che combattere la battaglia politica nella sfera pubblica, dichiarando al partner che sarà assunto come piano di realtà esclusivo quello pubblico, con tutto quello che seguirà. Se i tratti di personalità dell’altro non gli consentiranno di cambiare, di introdurre modifiche sostanziali al comportamento, riportando nella sfera pubblica le cose a posto e operando, di conseguenza, le necessarie distinzioni, per salvare l’impresa comune dal conflitto permanente e la relazione sentimentale dalla dissoluzione, non resterà che rendere pubblico il dissenso, formalizzando le critiche e cercando il sostegno all’interno della realtà lavorativa e presso i ‘superiori’, se si tratti di realtà associata. In assenza di risposte adeguate, se gli associati si schiacceranno sulle posizioni del nostro partner, misconoscendo le nostre ragioni, non ci resterà altro da fare se non abbandonare il campo: ci dimetteremo nella sfera pubblica e metteremo fine alla relazione sentimentale, dopo aver verificato che la strumentalizzazione e la manipolazione delle persone e la negazione dei ruoli avrà reso impraticabile la scena. 

Il punto di maggiore chiarezza, per noi, è stato il silenzio del cuore nel nostro partner, che non ha saputo dire Sì per tutto il tempo del dissenso politico e delle verifiche formali alla nostra domanda di democrazia interna, che era accompagnato dall’incapacità di esprimere chiari sentimenti nei nostri confronti: nessuna distinzione è intervenuta, nessuna separazione dei piani di realtà è stata operata, per correggere e salvare il salvabile. Il nostro abbandono è stato accompagnato dal silenzio politico del nostro partner, degli associati tutti, dei ‘superiori’. 

Il lavoro di elaborazione del ‘lutto’ prosegue ora su altre questioni aperte per noi, in parte già affrontate e parzialmente chiarite. Il silenzio del cuore del partner è da ascrivere sicuramente ad angustia della mente e a inerzia dei sensi, per ‘curare’ i quali abbiamo lavorato vanamente per anni: la terapia delle idee suggerita dalla Consulenza filosofica e dalla pratica degli Esercizi spirituali non ha sortito nessun effetto. Probabilmente, una psicoterapia si renderebbe necessaria per porre rimedio ai guasti che provoca una personalità inquieta e irrisolta: il rapporto con il passato personale e familiare e l’insicurezza di fondo che segnano i comportamenti e la sfera del sentire della persona sono lo scoglio contro il quale hanno fatto naufragio tutti i nostri tentativi di ‘cura’: se è sempre vero che l’amore non è cieco ma, anzi, ci insegna a vedere, è altrettanto vero che l’amore non cura e non guarisce, se non ci sia la volontà di migliorare la propria vita, a fronte del disagio e del dolore inflitti a chi circonda la persona che resiste. 

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Il tempo dell’elaborazione (1)

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Lunedì 10 ottobre 2016

Il tempo dell’elaborazione (1)

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Considerando le età della vita, ad ogni nuova svolta accade di chiedersi quanto abbia influito sul senso di sé che ci accompagna l’educazione ricevuta in famiglia, l’aria che si respirava in casa, il sentimento del tempo, con le paure di ogni genere che segnavano i giorni.
Tutti noi proviamo paura, magari diciamo timore, incertezza, perplessità, dubbio, esitazione, per non dire paura. Preferiamo tacere il sentimento che accompagna l’incertezza, che verte su «ciò che vi è» là fuori, magari prima di uscire di casa. Ogni nuovo incontro, ogni appuntamento importante ci mette agitazione, eccita la nostra fantasia: anticipiamo gran parte di ciò che vorremmo accadesse, ma che puntualmente non avviene. E lo sappiamo bene ogni volta, quando ci disponiamo nell’attesa di un incontro.
I teorici della politica hanno parlato della «piccola paura» che proviamo e che fa bene alla democrazia: è il sentimento del limite, che ci fa temere sanzioni e punizioni.
I rimproveri di mio padre mi hanno accompagnato fino alla sua morte, e su di essi ho scritto dolorosamente contro: posso dire oggi che non sopporto il più piccolo rimprovero.
Le parole che ci venivano riservate erano accompagnate dalla mortificazione: gli adulti ci dicevano che dovevamo abbassare lo sguardo, e non dovevamo ridere durante la cerimonia dei rimproveri. Solo tardi ho compreso che mortificare è dare la morte, volere la morte della parte negativa di una persona, e le intenzioni erano buone, ma forse il bersaglio che veniva colpito non era sempre quello giusto: ne usciva ferita l’anima, mortificato non solo l’orgoglio ma tutto il sentimento di sé. I nostri educatori, i genitori e le maestre, non distinguevano tra la persona e il comportamento. Noi capivamo che dovevamo essere sbagliati noi, se persistevamo negli stessi comportamenti. Non sempre a un rimprovero seguiva un abbraccio. O forse, sì. Rischiamo oggi di pensare che avremmo avuto bisogno di più amore, ma non è vero. Abbiamo avuto tanto amore, solo che era forte la paura di essere picchiati, cosa che accadeva ogni giorno. Forse, abbiamo ricevuto troppi schiaffi, perciò oggi non sopportiamo lo schiaffo del silenzio che uccide. Se ci chiediamo cosa leghi questo nostro presente al più lontano passato della nostra vita, francamente non sappiamo più rispondere. La tentazione di credere che le rinunce e gli abbandoni e le dimissioni di oggi siano il frutto e il riflesso di più antiche ‘offese’ è da respingere. Una piccola parte di noi patisce l’offesa dell’amor proprio ferito. Altre ragioni prevalgono in chi mostra di non conoscere la strada che porta al nostro cuore. Elencarle tutte o dare ragione di quelle che più verosimilmente influiscono sulle scelte altrui è vano esercizio, ché conta solo nell’elaborazione simbolica del ‘lutto’, che andrà condotta fino in fondo, magari ingannando il cuore con qualche bella menzogna che lo aiuti a riprendere il cammino interrotto. La tendenza a ‘sublimare’ è meccanismo di difesa efficace ancora e per qualche aspetto ‘nobile’, giacché riscatta il ‘nemico’, con l’offerta unilaterale dell’onore delle armi. Se poi riesce a prevalere il gioco preferito del riconoscimento realistico della vittoria conseguita dall’altro, abbandonare il campo è operazione poco dolorosa, che non è segnata da alcun rimpianto: alla malinconia del «così fu» segue il sentimento delle cose belle che pure prevalsero in un’avventura comune lunga e feconda.
La dissimulazione onesta prevarrà. Diremo una bugia. Assegneremo all’età raggiunta e alla stanchezza la decisione di andar via, anche se non ci sentiamo né stanchi né vecchi. Chi vuole raccattare gli ultimi pettegolezzi, per vederci chiaro, non avrà soddisfazione. Non abbiamo nulla da imputare alla nostra infanzia, che è stata felice, anche se accompagnata dalla paura; né al comportamento altrui, oggi, che era segnato da tante buone ragioni, se siamo qui a fare i conti con un ultimo distacco. Le parole pronunciate da Kant morente – Es ist gut, Sta bene – ci piacciono, perché indicano accettazione di un compimento; come ci piacciono le parole di Goethe morente – Mehr Licht, Più luce -, perché indicano domanda ulteriore di senso. Non di morte si tratta, certo!, ma che qualcosa si sia esaurito è certo. Krisis vuol dire soprattutto passaggio a un nuovo ordine. Fine di un ordine e transizione verso un nuovo ordine. È tempo di pulizie in casa. Le vecchie carte vengono buttate via, per fare posto a ciò che verrà. Il timore del nuovo è sentimento antico, forte come i rimproveri di un tempo e i silenzi studiati di oggi.

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α  Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tentare di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.
Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo. (da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

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Elaborare l’esperienza


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Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tenta­re di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.

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Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo. (da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

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Ho sempre sperato che esistesse qualcuno come Lei

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Martedì 10 dicembre 2013

CAMMINARSI DENTRO (477): Ci dev’essere qualcuno come Lei

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Hannah_Arendt1
 Accade qualcosa:

Non ho mai dubitato
che ci dovesse essere
qualcuno come Lei,
ma ora Lei c’è realmente,
e la mia gioia straordinaria
per questo durerà sempre.

Lettera di Ingeborg Bachmann
a Hannah Arendt
16 agosto 1962


Questo breve testo compare in esergo nell’opera di Laura Boella Le imperdonabili. Etty Hillesum, Cristina campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva, Tre Lune Edizioni 2000.

Potrebbe far pensare ad un’emozione e basta. Un trasalimento. In realtà, dice un sentimento, la scoperta dell’esistenza dell’altro, una gioia quasi incontenibile, come siamo soliti dire quando ci accade qualcosa di grande, che ci supera.

E’ apparsa Lei, figura grande di qualcosa che era sepolto nel nostro cuore. Lei ha dato voce a un bisogno inespresso. La sua epifania mondana crea uno spazio inedito. Venerazione, Amicizia, Devozione, Amore.

Abbiamo bisogno di credere che esista qualcuno che sia più grande di noi. Qualcuno che non dobbiamo sforzarci di amare, perché la sua esistenza ci viene incontro con il suo semplice apparire. Del genere delle cose perfette, è vera esistenza, pronta a farsi vera presenza nella nostra vita. Coltiviamo una segreta speranza, grati del privilegio ricevuto. Immaginiamo già beni preziosi nascosti nelle piccole cose che accadranno.

Proclamiamo di essere sempre disposti a riconoscere a tutte le creature lo statuto dell’esistente, assegnando nello stesso tempo ‘gradi’ di trascendenza personale, livelli di consapevolezza di sé più o meno alti a poche persone speciali.

Deve trattarsi d’altro, quando esprimiamo questa chiara gratitudine. L’oggetto del nostro sguardo è riserva inesauribile di bene, tesoro di fedeltà, sorpresa ripetuta.

Abbiamo incontrato raramente persone che potessero farci provare un sentimento dell’altro così grande. Se non siamo disposti a credere che si tratti di persone che appartengono a un genere superiore, riusciremo ad inchinarci con la stessa umiltà di fronte alle altre creature?

La gioia provata all’atto della scoperta di questa esistenza speciale per noi durerà sempre. John Donne ha scritto: Tu così viva / che pensarti basta / a fare veri i sogni / e le favole storia! Estrema forma di platonismo dello sguardo, basta pensare Lei perché quella gioia si rinnovi.

E’ quasi un amore quello che ci prende in ogni atto di empatia, ché non è riducibile a pura immedesimazione o partecipazione comprensiva. Quell’esistenza si staglia corposa nella sua misteriosa consistenza davanti a noi, promessa di quel retto conversare cittadino di cui sentiamo così spesso la mancanza.

Certo, si tratta di qualcuno con cui poter parlare! Ritrovarsi l’uno di fronte all’altro e guardarsi negli occhi e sorridere amabilmente dell’immortale volgarità umana. Tutto considerare, niente giudicare tale da non potersene distaccare senza affanno.

Quello che desideriamo per noi, oltre ogni immaginabile godimento, è stare in quel dialogo che non ‘cade’ mai, perché Lei non smetterà di essere fonte di nuove scoperte. Più dell’amore, perché esperienza delusoria, aspettiamo un incontro.

Chi ha abitato lungamente la vita senza nulla disprezzare di ciò che è umano accetterà di buon grado anche la nostra conversazione, forte della consapevolezza che ogni cosa che sia stata creata è buona e santa, se contemplata dall’alto della collina.

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Tornare a casa da sola di notte: quello che prova una donna

Tornare a casa da sola di notte:
quello che prova una donna

 

Si intitola “Au bout de la rue” (“In fondo alla strada”) il cortometraggio del regista francese Maxime Gaudet. Un piano sequenza di tre minuti, un’unica inquadratura per far vivere allo spettatore quello che le donne possono provare quando si ritrovano a camminare da sole per strada di notte. Una ragazza saluta gli amici prima di incamminarsi verso casa, l’amica le raccomanda di stare attenta. La musica nelle orecchie, la strada poco illuminata. Pochi passi più avanti e un uomo si avvicina cercando di attirare la sua attenzione: “Buonasera. Ehi buonasera. Sto parlando con te! Ma guarda non mi risponde questa… Dove stai andando? Se vai a casa ti accompagno? Ehy, ti sto parlando!”. La ragazza non si volta, continua a camminare seguita da insulti irripetibili. Si possono quasi toccare con mano l’ansia e la paura che prova a ogni angolo svoltato. E poi finalmente il portone di casa e quella sensazione di avercela fatta, che ogni donna prova almeno una volta nella vita (a cura di Marisa Labanca)

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MASSIMO RECALCATI, La perversione come cifra del nostro tempo, 8 giugno 2016

Perché si è attratti dalla perversione 2

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Demoni


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Lunedì 30 maggio 2016

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La scrittura, come elemento dell’ascesi, ha una funzione etopoietica: essa è un operatore della trasformazione della verità in ethos.
Il suo scopo non è comunicare né convincere nessuno, bensì superare il confine tra realtà e immaginario. – MICHEL FOUCAULT

Nello scrittore il pensiero non guida il linguaggio dal di fuori […]. Le mie parole sorprendono me stesso e mi consegnano al pensiero. – JACQUES DERRIDA

Il linguaggio non è della lingua, ma del cuore. La lingua è solo lo strumento con il quale parliamo. Chi è muto è muto nel cuore, non già nella lingua… Quali le tue parole, tale il tuo cuore. – PARACELSO (Citazione contenuta in James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi 2005, pag.41).

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angelo-chagall

Parliamo qui di δaίμoν, del demone personale di Hillman: del carattere, della ghianda, della nostra natura profonda, delle inclinazioni, delle vocazioni, di ciò che di più proprio si dà di una singolarità qualunque. E’ la voce che parla per noi, la presenza sempre assente che si fa sentire inducendoci a fare altro rispetto a ciò che diciamo di voler fare e che a volte ci mettiamo a fare, tradendo il nostro più profondo sentire. Il nostro demone può essere anche un demone cattivo, una voce diabolica, forza che divide, che abbatte, che distrugge: Hillman parla di seme cattivo. Le nature malvagie esistono. Esiste la cattiveria.

E’ demone per noi qui il dio della scrittura in noi, la forza e la voce che premono e che chiedono di accedere all’espressione. Lo abbiamo scoperto tardi, quando la vita aveva già provveduto ampiamente a fornirci degli strumenti che credevamo indispensabili ad agire e che credevamo fossero i soli di cui poter disporre per sentirsi anima e non solo un groviglio di energie e di facoltà scarsamente gerarchizzabili e disposte a sottomettersi a una ‘logica’ qualsiasi, nemmeno a quella dell’ineffabile, che non chiede rigore e consequenzialità. Abbiamo impiegato tempo, molto tempo per arrivare a comprendere le forze contrastanti in noi, a tutte riconoscere dignità e senso, a tutte dare ugualmente voce e direzione: la cusaniana coincidentia oppositorum< ci convince: la coesistenza del Bene e del Male nell’uomo è il primo dato dell’esperienza da riconoscere.

Siamo partiti dall’improvvisazione, dalla scoperta di una parte grande di noi che ‘parla’ quando teniamo una lezione o quando dobbiamo prendere la parola di fronte a un vasto pubblico, avendo rinunciato a leggere per intero il nostro discorso, magari affidato alla scrittura. La lezione frontale, poi, non può mai essere ‘letta’: non sarebbe ‘lezione’. Abbiamo lottato per trent’anni e più per arrivare a prevedere tutto quello che avremmo detto ai nostri alunni, lezione per lezione. Negli ultimi anni di insegnamento, abbiamo scoperto che le migliori lezioni erano quelle ‘improvvisate’, non preparate in nessun modo. Abbiamo assaporato sempre più l’emozione di quella ‘impreparazione’ a cui ci esponevamo.

Siamo stati guidati, ancora, dall’idea platonica dell’amore che ci veniva restituita da Umberto Galimberti, là dove evocava un fondo enigmatico e buio dal quale saremmo tutti impegnati a divinare, per fare i conti con la dicibilità  dell’indicibile.

Oggi siamo felici di sapere che c’è un demone in noi che ci precede e ci guida, ci salva e ci danna, perché esso è il nostro destino. Abbiamo fatto nostro, infatti, il detto di  Eraclito – Éθoς άnθropωι δaίμoν -, come è stato interpretato da Hillman per primo: A ciascuno è destino il proprio carattere.

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Quando Foucault afferma che «la scrittura, come elemento dell’ascesi, ha una funzione etopoietica: essa è un operatore della trasformazione della verità in ethos», allude a un potere grande della scrittura che dobbiamo chiarire. Intanto, farne «un elemento dell’ascesi» vuol dire che con essa realizziamo la nostra Ascesi fondamentale, cioè rispondiamo a un’istanza profonda per quanto riguarda l’esito dei conflitti nei nostri rapporti con il mondo, per cui essa diventa fattore mediativo, elemento di compromesso quasi, giacché non è risposta immediata, irriflessa, né mera spontaneità. E’ dare un’altra voce al contrasto, affermare una verità che giace al fondo: affermare una voce che ha in sé la spinta etica costruttiva. E’ in questo la ragione della «trasformazione della verità in ethos» (etopoiesi): è un fare ethos, costume, mentalità, comunità. Se è vero che le comunità non esistono, non sono mai esistite, il fare comunità si renderà possibile, forse, a questa condizione, che il soggetto del desiderio faccia sentire la sua voce, l’istanza profonda e più vera di sé, attraverso la verità che la scrittura sa restituire. Evidentemente, sarà la scrittura di sé la via che conduce ad ascesi, verità, ethos. Così, uno stile diventerà modello, termine di confronto, exemplum. I parlanti troveranno il modo di comunicare e trasmettere parresia. Dire la verità in pubblico, proporre un ‘diario in pubblico’ costituirà la garanzia di verità, consentirà la trasformazione più difficile, cioè l’assunzione della verità proclamata all’interno del discorso pubblico. Uno stile personale si farà stile collettivo, mentalità. E cos’altro può essere questo stile se non ‘dire la verità’? La natura della scrittura, tuttavia, per cui essa ci precede e ci istituisce come ‘scrittori’, è la condizione di verità. Non siamo noi a scrivere: è la scrittura, piuttosto, che ci dà la parola. Diamo voce ai nostri demoni. Ricostruiamo la genealogia del nostro sapere individuale. Andiamo alla radice del bene e del male in noi. Scendiamo ai nostri Inferi, per risalire rinnovati nello spirito. Quando ci sentiamo ‘beanti‘, cioè quando la ferita sanguina, dobbiamo lasciare che sanguini, che parli, che ci dica di noi. Solo per questa via riusciremo ad ‘incontrare’ l’altro che è in noi, come l’altro che è fuori di noi.

 

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Ampio e profondo


Venerdì 20 maggio 2016

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L’aggettivo latino latus si traduce in italiano con ‘ampio’ e ‘profondo’. Mi piace pensare che un sentimento è ‘latus’. Non semplicemente ‘profondo’, come è proprio del sentire più personale, ma ‘ampio’. Siamo abituati a sentir parlare della profondità dei sentimenti, non della loro ampiezza. Eppure, il riferimento spaziale alla profondità potrebbe essere fuorviante: cosa ci induce a pensare che un sentimento sia profondo? andremo forse a ‘misurare’ quella profondità? non sarà forse riguardato, quando ci esprimiamo così, piuttosto, come un sentimento intenso? Ecco, l’intensità di un sentire, un forte sentire ci porta a parlare di profondità del sentire, di sentimenti profondi. Io preferisco pensare che ‘ampio’ e ‘ampiezza’ si addicano di più a un chiaro sentire. Non dirò un ‘ampio sentimento’, cioè continuerò a dire con voi un ‘sentimento profondo’, ma la nota che restituisce ‘ampio’ mi aiuta a dire meglio quello che mi preme dire ora.

L’attivazione degli strati profondi della sensibilità, cioè la nascita di un sentimento, comporta uno sconvolgimento dell’ordine del cuore: le cose cambiano significato, a volte radicalmente. L’irruzione di una persona sulla scena della nostra coscienza ne ridefinisce i confini: se ci moviamo sempre lungo i sei lati del mondo – alto, basso, avanti, dietro, destra, sinistra -, è tra ‘destra’ e ‘sinistra’ che si gioca una delle partite cruciali. I due ‘lati’ che corrispondono alle nostre braccia alludono insieme a un abbracciare, a un ‘comprendere’, che è propriamente e caratteristicamente ciò che facciamo quando permettiamo a qualcuno di ‘entrare’ in noi, giacché abbracciamo con lo sguardo, comprendiamo, cioè sentiamo, entriamo in contatto emotivamente, superando la linea provvisoria di confine che ci separa lasciandoci nell’indifferenza. Quando consentiamo a una persona, quando diciamo Sì, cioè quando esprimiamo un consenso al suo significato e al suo valore, cioè quando diamo significato e valore a una persona, essa esce dall’indistinto in cui era confinata per acquistare senso per noi: non ci è più indifferente; non si confonde più con gli infiniti oggetti che popolano il Reale che quotidianamente siamo impegnati a istituire, a ordinare, ad ‘arredare‘.

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In questa luce


Giovedì 19 maggio 2016

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Se ci fosse una ragione per queste sventure
potrei dare una frontiera al mio dolore:
quando il cielo piange, la terra non straripa?
Se i venti infuriano, non impazzisce il mare
col suo grande volto rigonfio minacciando
il cielo? E tu vuoi una ragione
per questo tumulto? Io sono il mare.
William Shakespeare, Tito Andronico

E’ forse questo il tempo della sintesi, della forma compiuta, della chiarezza raggiunta. Non dell’armonia, dell’equilibrio, della misura. La traccia della strada già fatta è utile economicamente, cioè per l’economia delle energie mentali, per non dover ripercorrere sempre di nuovo quanto già è stato esplorato e ricondotto a unità. Sintesi, Forma, Libertà, Responsabilità sono Grundworte (Grundwort è ‘la parola fondamentale’, ciò che c’è di più originario: la base a cui tutto ricondurre. Tutto ciò che c’è da sapere.) Naturalmente, i traguardi raggiunti non sono perfezione, compiutezza, esito, approdo. Ogni nuova conoscenza costringe a ridefinire porzioni, a volte significative, di realtà.
Non dico di essere padrone di me, ma consapevole sì, più consapevole. So chi sono.
Non c’è maturità da raggiungere. Nessuna parola definitiva da pronunciare sulle cose. La maturità degli affetti è altra cosa, come l’esattezza del sentire, che per me oggi sono quasi tutto: le persone possono essere accessibili oppure no; se non lo sono, pazienza! C’è sempre un buon libro che aspetta. E questo è tutto. Questo è sufficiente, per poter dire di essere a buon punto.
Avverto un sentore di risarcimenti in corso, di compensi. Le cose lungamente dibattute, i reclami e le rimostranze incominciano a ricevere risposta. Sembra, così, che le cose tornino al loro posto. Ma il ‘posto’ non c’è più. Non occupo più il posto di prima. Sono tornato ad essere situazionista: credo solo nelle cose in cui credono coloro i quali stanno facendo qualcosa con me.
Il panorama è cambiato. Niente è più come prima. Ho smesso di fare domande, ma anche di credere che sia sufficiente chiedere. Non avendo ricevuto risposta per troppo tempo, ho smesso di chiedere, senza, per questo, dover credere o poter credere. Il disincanto è la fine della tensione verso l’unità che ha sempre contraddistinto la mia vita. Ho rinunciato al mio Streben.
Non sono più mancino, cioè allocentrico. Ho creduto per la gran parte della mia vita che al mio mancinismo corrispondesse una ‘natura’ che la medicina aveva scoperto e segnalato, cioè la tendenza dei mancini a mettere sempre gli altri al centro: non ho mai avuto bisogno di primeggiare; mi è bastato sempre lavorare bene, per il raggiungimento di obiettivi desiderabili, quasi sempre per l’affermazione di altre persone.
Accetto la castrazione. Accetto il dolore. Non mi scontro più con l’Ombra femminile. Raggiungere e Oltrepassare è compito rinnovato, da apprendere sempre di nuovo. Fare i conti con le emozioni altrui è impresa ineludibile, soprattutto quando la rozzezza prevale. Se i parlanti sapessero come l’emozione tradisca sempre uno stato (più o meno permanente) della mente, starebbero più attenti alle loro parole! Di fronte all’indomita volontà di affermazione di sé, oltre ogni ragionevole dubbio, tuttavia, è sempre importante concedere al mondo la sua vittoria, almeno fino a quando non sia possibile riprendere l’iniziativa, per riconquistare lo spazio perduto, o per acquistare spazio vitale.
La difesa dello spazio sociale comune – in cui consentire ad altri ancora di muoversi, perché poi lo spazio educativo si trasformi in spazio transizionale – è sostenuta oggi da una serena e convinta idea teorica: che l’educazione sia esercizio di esperienza e che si debba dare forma al lavoro educativo, per difendere l’idea stessa che ci sia una dimensione educativa dell’agire umano e uno spazio da occupare, accanto al lavoro terapeutico e al lavoro sociale.

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Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, che dà luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e biso­gni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qual­siasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tenta­re di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.

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Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione. Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio. In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona. In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’azione. Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza. Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo. (da MARIO MAPELLI, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore, pp.33-34)

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Continuerò a svolgere il mio lavoro educativo con tutti, convinto dell’unico fatto che conti per me: che c’è uno spazio educativo, che lo spazio educativo deve trasformarsi in spazio transizionale, cioè deve servire ad aiutare le persone a creare lo spazio interiore indispensabile al lavoro di elaborazione dell’esperienza vissuta, che faccia da contenitore per lontananza assenza mancanza abbandono perdita.
Se non si accetta l’esperienza del dolore, non si dà governo dei sentimenti.

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Roberta De Monticelli, La sapienza del riccio, ovvero al di qua del bene e del male

Martedì 3 maggio 2016

Salotto con Roberta De Monticelli, del 16 febbraio 2016

L’epoca della disperanza, di Fortunato Aprile

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Roberta De Monticelli, Il mondo ha radici di carta e pensieri


Martedì 3 maggio 2016

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Il gioco della vita. Il compito educativo di Gabriele De Ritis


Martedì 3 maggio 2016

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CONVEGNO SCIENTIFICO SUL TEMA Tra Gioco e Azzardo: il piacere, il caso, l’illusione – Sora, 28 aprile 2016 

Il gioco della vita. Il compito educativo, di Gabriele De Ritis

E’ quasi impossibile separare dal nostro spirito quello che non c’è. Che cosa dunque saremmo, senza l’aiuto di ciò che non esiste? Ben poca cosa, e i nostri spiriti disoccupati languirebbero, se le favole, i fraintendimenti, le astrazioni, le credenze e i mostri, le ipotesi e i sedicenti problemi della metafisica non popolassero di esseri e di immagini senza oggetti i nostri abissi e le nostre tenebre naturali. I miti sono le anime delle nostre azioni e dei nostri amori. Non possiamo agire che movendo verso un fantasma. Non possiamo amare che quello che creiamo. – Paul Valéry

Abbiamo intitolato il nostro intervento Il gioco della vita perché convinti del fatto che il quotidiano sforzo teso ad attribuire senso a ciò di cui facciamo esperienza altro non è che strategia ludica concepita intorno ad assenza e lontananza, mancanza ed abbandono, lutto e perdita, per fronteggiare le quali abbiamo bisogno dello spazio interiore indispensabile per ‘contenere’ frustrazioni e senso di inadeguatezza e per approntare difese adeguate da sentimenti di abbandono e perdita, ma soprattutto per inventare il fantasma di coloro che ci amano e continuare a credere che ci ameranno ancora.
Tutte le volte che si allontanano da noi le persone che amiamo, in modo più o meno forte riviviamo il sentimento che visse il bambino osservato da Freud che si inventò il gioco del rocchetto per esorcizzare l’assenza della madre. Lanciava sotto un mobile il rocchetto intorno al quale aveva avvolto un filo per farlo riapparire poco dopo; accompagnava i due movimenti con due espressioni vocali – o-o-o e a-a-a – che furono interpretate poi da Freud come equivalenti di Fort (via, lontano, partire) e Da (qui, ecco). Il rocchetto è già simbolo della madre.
Per mezzo del gioco del Fort/Da si tratta di «trasformare ciò che in sé è spiacevole in qualcosa che può essere ricordato e psichicamente elaborato». L’esito di questa elaborazione psichica è esemplare di un lavoro psichico di distacco, ma non bisogna dimenticare che viene ad ultimare tutta l’elaborazione anteriore che ha condotto il bambino ad assicurarsi di un sentimento di consistenza e della continuità del legame, malgrado la discontinuità provocata dalle assenze della madre.
Il gioco è una cosa seria perché, già nel gioco del nipotino osservato da Freud, di cui ci parla nel secondo capitolo di Al di là del principio del piacere (1920) [1977], è in questione la vita stessa, perché dall’esito di quel gioco dipende il nostro accesso all’umano, alla dimensione simbolica del reale – che è conquistata con la rinuncia alla distruzione dell’oggetto attraverso la sua negazione in effigie: è la rinuncia alla soddisfazione immediata della pulsione che fa sorgere il desiderio.
Se sperimentiamo lo smarrimento, lo spaesamento, il disagio e ‘subito dopo’ corriamo a cercare il senso, a restituire senso a ciò che non ne ha più; se l’esperienza del vuoto, conseguente al nichilismo tipico del nostro tempo, ci porta a ritenere che essa debba essere ‘curata’ aiutando i ragazzi che ne cadono preda insegnando loro a ‘riempire il vuoto’, cioè a restituire senso alla loro esistenza, è perché sappiamo bene come la mancanza sia costitutiva del nostro essere, dunque dobbiamo imparare a consistere a partire da essa, senza immaginare scorciatoie o facili ‘sublimazioni’ e idealizzazioni della nostra condizione naturale e storica.
Imparare a vivere è possibile, innanzitutto, riconoscendo come l’esperienza dell’assenza dell’altro costituisca l’entrata inaugurale della morte nella vita. Fin da bambini, di questo facciamo subito esperienza. Il nostro pianto è conseguente a tutti i rimproveri, le separazioni, le assenze, gli ‘abbandoni’.
Il mistero di questa condizione comune è nel fatto che ci ritroviamo a vivere come se non ricordassimo il bene che abbiamo ricevuto. Dunque, non speriamo. Ci convinciamo per un po’ del fatto che la persona amata non tornerà: è come se l’avessimo perduta, anche se è uscita solo per andare a fare la spesa! Noi ‘sappiamo’ che tornerà, ma ci comportiamo come se non dovesse tornare, ‘come se non sapessimo’!
La risoluzione del mistero è tutta nel ‘gioco’ stesso: il nostro errore è nel fatto che ci limitiamo ad elaborare il Fort, trascurando il Da: il bambino di cui ci parla Freud non si limita a lanciare il rocchetto sotto un mobile, per simulare la sua sparizione! Egli non si limita a constatare che la madre si sia allontanata. Fa di più: immagina che possa tornare. La fa tornare. Tira il filo del rocchetto e la fa apparire di nuovo. Giustamente, è stato osservato che la parte più importante del gioco è quest’ultima. La nostra attenzione, allora, per iniziare a definire l’esercizio dell’imparare a vivere, dovrà concentrarsi sulle strategie di apparizione, cioè su tutto ciò che mettiamo in opera per fronteggiare la mancanza, che costituisce la nostra condizione generale, immaginando tutto ciò che si richiede per sopperire ad essa.
Dai modi della risposta alla mancanza e dal loro successo dipende il corso che imprimeremo alla nostra esistenza, la qualità della nostra vita, l’esito del processo di costruzione del nostro carattere, il grado di ‘compiutezza’ della nostra crescita, la possibilità di vivere in armonia con noi stessi oppure no.
Tutti gli ‘aggiustamenti’ che interverranno a correggere il corso delle cose – anche attraverso processi riparativi e ricostruttivi – hanno di mira la marca della mancanza, il significante per eccellenza: il segno della nostra incompiutezza edella nostra finitudine, della nostra infondatezza e del vuoto da cui proveniamo.
Tutte le cure materne, assieme a quelle che interverranno successivamente per farci sentire amati, contribuiranno a colmare il senso della mancanza che non ci abbandonerà mai.

LA FUNZIONE TRANSIZIONALE DELLO SPAZIO EDUCATIVO

Si devono al pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott le nozioni di “oggetto transizionale” e “area transizionale”. L’oggetto transizionale (la pluricitata coperta di Linus) è quell’oggetto che consente al bambino la graduale separazione dalla madre, dando luogo alla paradossale esperienza di sperimentare l’assenza pur mantenendo un senso di continuità. La sua funzione è quella di unire e separare al contempo il bambino e la madre, offrendo un contenimento ai vissuti angosciosi e depressivi che il processo di separazione porta con sé. L’area transizionale è un’area intermedia tra l’individuo e la realtà: non è nel soggetto, ma non coincide nemmeno con la realtà esterna. L’area transizionale, nella sua dimensione illusoria e creativa di simbolizzazione, si configura come spazio del gioco e dell’esperienza culturale.
Proprio a partire dall’analogia tra esperienza ludica ed esperienza formativa, entrambe caratterizzate da una dialettica di finzione e di realtà, Riccardo Massa ha riconosciuto una funzione di natura transizionale all’educazione. Dove per dimensione transizionale “si intende che l’educazione viene a istituire una regione intermedia e mediativa, di contatto e di passaggio tra mondo esterno e vita soggettiva, richieste cognitive e bisogni affettivi, cose reali e immaginario infantile, attraverso modalità di sostituzione simbolica e di sperimentazione operativa” (Massa, 1987, p. 23).
Il concetto di spazio transizionale (nella declinazione di area potenziale) è stato quindi utilizzato come pertinente descrittore dell’area dove ha luogo l’evento formativo a qualsiasi età (Mattana, 1993). Uno “spazio tempo di esitazione”, distinto ma contiguo allo spazio-tempo non formativo. In esso ha luogo una potente trasformazione, ma al suo interno tale trasformazione è protetta e può quindi essere elaborata.
Risulta evidente quanto tale interpretazione dello spazio educativo sia feconda per tentare di illuminare la complessa relazione tra educazione e vita. Non solo, essa si rivela ancor più preziosa laddove l’intervento educativo abbia a che fare con situazioni di crisi e di disagio, in cui la trasformazione necessita l’elaborazione di vissuti angosciosi e terribili, connessi al sentimento della separazione e della perdita.

Elaborazione (da Mario Mapelli, Il dolore che trasforma. Attraversare l’esperienza della perdita e del lutto, Franco Angeli Editore)
Oggi il concetto di elaborazione si è esteso fino a comprendere l’attività psichica nel suo complesso. Essa indica la fatica di assimilazione interna della carica affettiva di un evento o di una rappresentazione in contrapposizione a una risposta di tipo reattivo ed evacuativo verso l’esterno. In questo senso la capacità di pensare i propri pensieri e un’attività riflessiva emotivamente situata sono entrambe esempi di elaborazione.
Fare dell’elaborazione il concetto-chiave in educazione per indicare l’appropriazione soggettiva (significazione) dell’esperienza vuol dire sottolineare alcune caratteristiche già presenti nell’accezione freudiana di Verarbeitung. Innanzitutto l’elaborazione implica una fatica (labor) cognitiva e affettiva che il soggetto deve compiere in proprio.
In questo senso un modello di elaborazione pedagogica dell’esperienza trova senza dubbio la sua più naturale rispondenza operativa in un approccio di tipo laboratoriale, che invita il soggetto ad attivarsi in prima persona.
In secondo luogo, l’elaborazione implica la possibilità di differimento dell’a-zione.
Tradotto in chiave educativa, ciò significa che piuttosto che “far fare delle cose” l’obiettivo deve essere quello di inaugurare tempi e spazi di riflessività sulle cose che si fanno. L’elaborazione ha quindi a che fare con la funzione della memoria e della narrazione ai fini di una presa di coscienza sui propri processi interni. L’elaborazione non può essere ridotta a un’operazione intellettualistica, ma ha a che fare con l’esperienza vissuta. Più che capire si tratta di comprendere, un’azione che coinvolge il soggetto nella sua interezza.
Di qui il valore profondamente trasformativo del processo elaborativo e, quindi, le resistenze al cambiamento che esso attiva. Ecco perché, benché l’elaborazione non possa essere compiuta da altri fuorché dal soggetto stesso, essa abbisogna di una mediazione relazionale e di uno spazio protetto in cui avere luogo.

Locandina

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Il potere della memoria


Martedì 3 maggio 2016

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Il potere della memoria non risiede nella sua capacità di far risorgere una situazione o un sentimento effettivamente esistiti, ma in un atto costitutivo della mente legato al proprio presente e orientato verso il futuro della propria elaborazione. – JACQUES DERRIDA, Memorie per Paul De Man. Saggio sull’autobiografia (1988)

Cadiamo sempre in un errore prospettico di cui non ci rendiamo conto quando ci attardiamo su posizioni sterilmente preoccupate del mero recupero del passato, mentre dovremmo considerare il vero compito di consistere nel presente, il nostro presente, e da lì muovere i nostri passi verso un futuro da costruire come spazio dell’elaborazione dell’esperienza vissuta, luogo di tutti i ‘vissuti’ che affiorano alla coscienza e che reclamano una ulteriorità di senso e spazio nella stessa coscienza, l’istituzione di file di continuità nella trama di sempre nuovi racconti, perché ciò che è stato non precipiti nella malinconia del ‘così fu’: solo ciò che è raccontato prende vita; dare forma alle cose è questo nominare e dare voce a ciò che preme dolorosamente in noi e che ci chiama a sempre nuovi compiti, all’esercizio rinnovato della parola che incanta e commuove il viandante che è in noi. Rimettersi in cammino gioiosamente è la scienza della vita che è vita davvero.

È coraggio di vivere questo congedarsi dalle secche del passato che non passa, per dare nuova voce ad ogni richiamo delle cose che chiedono senso, che si dia senso a tutte le voci che si accampano sulla scena della vita intorno a noi: ad esse corrispondere non è tradire il senso della nostra presenza – quasi un venir meno alla fedeltà alla terra che ci sostiene e che ci nutre -, se il posto che andranno ad occupare in noi quelle voci contribuirà a dare senso alla nostra vita, facendo diventare biografia l’infranto, se chi ci guarda è interessato a raccontarci la favola della nostra vita. È questo corrispondere alle nostre attese che dà senso all’attesa e alla speranza. Avviene, talvolta, che un ascoltante riesca ad essere angelo per noi. Massimo Cacciari ha scritto che «la creatura è in ascolto»: quell’«è» va scritto in corsivo, per significare che non di pochi ascoltanti di professione è il compito di costituire occasione di salvezza per qualcuno. Ad ognuno di noi sia angelo chi gli sta accanto, che sia capace di raccontare a noi quello che siamo stati, perché sia possibile consistere in questo presente e sperare di essere amati ancora.

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