Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti

Lunedì 8 luglio 2013

IL GENERE UMANO MASCHILE (3): CAM, cioè Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti

La Casa delle donne di Brescia cura la pubblicazione periodica dell’elenco dei Centri di ascolto per gli Uomini Maltrattanti esistenti in Italia.

Il CAM di Firenze è forse il più avanzato d’Italia. Leggere le Linee guida, l’opuscolo di auto-aiuto – Come affrontare la violenza domestica. Piccola guida per uomini che vogliono cambiare -, il pieghevole per gli uomini, il pieghevole per gli operatori, la bibliografia.

__________

Leggere anche:

IL GENERE UMANO MASCHILE (1): Uomini non più violenti 

IL GENERE UMANO MASCHILE (2): Assunzione di responsabilità

Pubblicato in Il genere umano maschile | Contrassegnato , , | Lascia un commento

Assunzione di responsabilità

Domenica 7 luglio 2013

IL GENERE UMANO MASCHILE (2): Assunzione di responsabilità

«La violenza sulle donne è questione che riguarda innanzitutto gli uomini ed è quindi necessario che nel mondo maschile cominci ad aprirsi una discussione» – Daniela Albanesi, Presidente del Centro Pari Opportunità della Regione Umbria

Per quanto mi riguarda, l’impegno che parte da qui, da questa Rubrica – Il genere umano maschile -, è un modo per parlare al pubblico maschile che mi legge, che esorto a schierarsi senza timori e reticenze. È tempo di aprire una discussione sulla maschilità, su quello che significa essere maschi oggi, di fronte all’emergenza rappresentata dalle uccisioni di donne e dalle violenze che esse subiscono, considerate in tutte le loro forme. Di esse occorre rendere conto, con un’informazione quotidiana. Io lo farò. Qui, non farò altro. Diffonderò tutte le notizie che abbiano a che fare con questo problema. Sarà il mio modo di dimostrare la volontà di assumermi la responsabilità di essere maschio: lo sono, ma per potermi sentire tale, senza vergognarmi di esserlo, debbo lavorare perché le donne non subiscano altra violenza, perché cambi il potere, perché cambi la mentalità, perché si affermi la differenza in pace dei sessi e delle culture.

__________

Leggere anche:

IL GENERE UMANO MASCHILE (1): Uomini non più violenti

Pubblicato in Il genere umano maschile | Contrassegnato , , | Lascia un commento

Uomini non più violenti

Sabato 6 luglio 2013

IL GENERE UMANO MASCHILE (1): Uomini non più violenti

Del genere umano maschile avevo iniziato a parlare per un libro soltanto, il 15 aprile 2011, nel tentativo di ‘salvare’ ciò che di più umano ravvisavo nell’umanità maschile: la solitudine dei padri, tra le altre cose.

Un’occasione nuova si è offerta il 26 giugno scorso, quando ho potuto leggere un servizio che si apriva con queste parole: “Uomini che maltrattano le donne. E si pentono”. Dunque, c’era qualcuno che registrava finalmente il cambiamento, addirittura presso coloro che condizionano l’immagine del maschio oggi, fino a causare la riproposizione dello stigma di sempre: il maschio è violento. L’impressione che ricevo dalla lettura dei giornali da qualche anno, infatti, – sicuramente da quando insistentemente si parla di femminicidio – è che l’ombra della violenza sia calata su tutti i maschi. Difficile, per questo, nascondere il disagio e la vergogna.

«La violenza sulle donne è questione che riguarda innanzitutto gli uomini ed è quindi necessario che nel mondo maschile cominci ad aprirsi una discussione» afferma la Presidente del Centro Pari Opportunità della Regione Umbria, Daniela Albanesi. Incominciamo a parlarne, dunque. Il 26 giugno ho scoperto, altresì, e con piacere, che in Italia esistono 11 Centri di ascolto per uomini maltrattanti (Abuser). Ho stabilito subito un contatto con Solidea “Relazioni libere dalla violenza” di Roma e con il CAM di Firenze, perché intendo lavorare alla creazione di un Centro di ascolto analogo nella mia città.

Pubblicato in Il genere umano maschile | Contrassegnato , , | Lascia un commento

Lettera d’amore in ritardo

Giovedì 25 aprile 2013

CAMMINARSI DENTRO (474): Lettera d’amore in ritardo

Contrassegnato | Lascia un commento

Il volto interno

Domenica 21 aprile 2013

CAMMINARSI DENTRO (473): Dell’amore il volto interno

Finché una luce senza margini d’ombra
illumina l’oscurità del tempo,
risale ad uno ad uno i suoi tornanti
e m’accorgo di te entrata nella mia vita
neppure mi chiedo da che parte e quando
e se lo sei o se invece non sei sorta
su dalla sua profondità di notte in notte affiorando.
– Che farà qui – mi dico mentre splendi
e sorridi un sorriso anche mio – forse
veglia su di me. Forse affina da sempre il mio pensiero
occupato da troppe parvenze e monco –
e ti guardo come sei, già nota
sebbene mai prima d’ora veduta
e stupisco che l’amore abbia questo volto interno.

Mario Luzi, Il pensiero fluttuante della felicità, dalla raccolta Su fondamenti invisibili

Di tutte le epifanie mondane di cui abbiamo fatto esperienza fin qui la sola che si affermi tra gli istanti eterni come irripetibile apparizione c’è lei, ogni volta di nuovo, solo colei che fa tremare il nostro cuore e ci riempie di gioia quando cade sotto il nostro sguardo e si fa subito sguardo che sorride a noi, soltanto a noi.

Avevamo apparecchiato per il rito d’amore un’altra macchina per noi, che valesse a proteggere le deboli mura dietro le quali credevamo di aver messo al riparo il nostro cuore. Avevamo immaginato un lento incedere, i gesti misurati di chi accortamente apre e chiude come fa la primavera con i suoi primi boccioli, lunghe pause dell’anima e spunti e avvertimenti e cenni di assenso, perché volevamo essere maneggiati con cura.

Ma lei era lì, già viva presenza che chiedeva ulteriorità di senso, un altro senso ancora, già desiderio di conoscenza. Noi la conoscevamo appena, eppure volevamo già fermare il tempo, ripercorrendo infinite volte gli istanti appena trascorsi per il futuro gioco della memoria. Cos’altro è poi il bisogno irrefrenabile di vederla ancora, quando si sia appena allontanata, se non l’urgenza della mente di disegnare ancora i confini e le frontiere interne e le piccole ombre e misurare la luce che promana dal corpo d’amore? 

Le sue esitazioni sono state pure avvertimento, e il silenzio non pausa né accorto meditare. Le sue ostinazioni non erano attesa di un’altra certezza da fornire, perché uscisse dalla fredda insicurezza in cui sempre si cacciava. Attraverso gli occhi, invece, attraversò fino all’ultima stanza il labirinto, mentre la mente estatica contemplava ancora stupefatta il volto interno di quello che si ostinava a chiamare amore.

La viva presenza è presenza viva solo se a sua volta protesa a cogliere l’ek-stasis della propria presenza mondana. Non basta amare ed essere amati, se quest’ultimo modo di consistere nel mondo non è consapevole accettazione della propria mondana presenza, oggetto di un desiderio che attenderà sempre una risposta.

Contrassegnato | Lascia un commento

Non ci basta primavera?

Martedì 16 aprile 2013

CAMMINARSI DENTRO (472): Non ci basta primavera?

Accade raramente di ritrovarsi a considerare che un’occasione preziosa è stata sciupata per insipienza e per impazienza. Siamo convinti che intervenga a compromettere una relazione umana che stava per nascere la nostra stupidità o una catena di sfortunate coincidenze. Equivoci, fraintendimenti, incomprensioni… Mentre, invece, è solo l’impazienza a guidarci verso la rovina.

Negli uomini ci sono due peccati capitali, da cui derivano tutti gli altri: impazienza e negligenza. Per l’impazienza sono stati cacciati dal Paradiso, per la negligenza non vi tornano. Ma forse c’è un solo peccato capitale: l’impazienza. Per l’impazienza sono stati cacciati, per l’impazienza non ritornano. – FRANZ KAFKA, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via

Non si può dire, però, che non ci si possa adoperare ad arginare la piena dei nostri affetti, per orientarli verso sponde più sicure. Basta ritornare a fare con metodo quello che ci eravamo disposti a fare prudentemente.

Tutti gli errori umani sono impazienza, interruzione precipitosa di ciò che è metodico, apparente recinzione intorno all’apparente. – FRANZ KAFKA, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via

Quello che resta lì a ricordarci chi siamo è l’errore commesso invadendo il campo con affrettate iniziative, con l’enfasi e l’entusiasmo, l’eccesso di interpretazione e il malcelato interesse ad acquisire un amico in più. Bisogna far finta di niente, magari fischiettare spensierati, per ingannare la vita e farle credere che il giardino non ha bisogno di acqua né di particolari attenzioni. Non ha bisogno di delicatezza né di essere maneggiato con cura. Non provvede primavera a risarcire le sue creature con i venti opportuni e le acque salutari e le ondate di luce e il tepore improvviso? Perché chiedere ormai quello che sicuramente verrà a recare conforto e ristoro? L’inverno è finito. A che vale l’affanno e la corsa e il trepido interrogare? Primavera è arrivata.

Contrassegnato | Lascia un commento

Leggere Foucault

Lunedì 8 aprile 2013

CAMMINARSI DENTRO (471): Leggere Foucault

foucault1SPECIALE MICHEL FOUCAULT, un Seminario… Genova 4 Aprile 2013 –

SPECIALE MICHEL FOUCAULT – Mario Galzigna, uscire dall’oleografia psichiatrica  –

SPECIALE MICHEL FOUCAULT: Mario Galzigna, la follia al di la’ della confisca istituzionale  –

SPECIALE MICHEL FOUCAULT – Mario Galzigna e Paolo Peloso, La follia tra prossimita’ e distanza

foucault2

Contrassegnato , | Lascia un commento

Dopo l’amore

Venerdì 29 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (470): Dopo l’amore

È un dolore diverso e difficile da sopportare. Non colpisce una regione del cuore tra le altre. Ne esce alterato il senso di tutta un’esistenza.

Ci siamo affacciati alla vita in un mondo in cui il matrimonio era indissolubile, l’amore eterno, l’esperienza sentimentale del tutto oscura: la cultura romantica era ancora ‘operante’: la sfera degli affetti confinava con l’assoluto e l’eterno. Nessuno era in grado di ‘pensare’ i sentimenti: essi apparivano nella nostra vita misteriosamente e sembrava che dovessero durare per sempre. La loro genesi, lo sviluppo, la durata erano questioni che nessuno si poneva. Si trattava di doni della vita sui quali nessuno osava interrogarsi. La mancanza di chiari riferimenti concettuali e l’assenza di ‘avvertimenti’ sul da farsi portavano tutti a credere che ci si dovesse affidare alla loro ‘bontà’, salvo poi affrontare separatamente la questione dell’errore e quella del male come prodotti della libertà personale: ogni errore e ogni colpa andavano ascritti alla sfera della responsabilità personale: i sentimenti negativi potevano essere riguardati come oggetti da studiare e su cui discutere. Direi che soprattutto l’amore conservava l’aura di mistero che aveva guadagnato nel tempo.
Se avessimo avuto ‘intelletto d’amore’, avremmo tenuto insieme luce e ombra, illuminando la zona luminosa, magari per decidere meglio di che cosa tutta quella luce fosse fatta, senza trascurare gli ‘avvertimenti’ che pure ci venivano dall’esperienza e che avrebbero renderci consapevoli di quanta ombra ci fosse in quell’esperienza.
È stato detto autorevolmente che l’amore non è cieco, anzi insegna a vedere. Ma quanta ‘sapienza’ si richiede per arrivare a ‘vedere’ e poi ad agire sulla base di ciò che si è compreso dell’altro? Perché, pure in mezzo a questo chiaro vedere, non riusciamo a decidere quasi mai che non vale la pena di inaugurare una relazione che si presenta già con caratteri a dir poco problematici? La conoscenza dell’altro è possibile solo dentro la relazione sentimentale ‘conclamata’? Perché non riusciamo a dare (il giusto) peso agli ‘avvertimenti’ dell’esperienza e al giudizio di coloro che, talvolta, ci mettono in guardia dal proseguire sulla strada imboccata?

Abbiamo impiegato quasi tutta la vita a districarci nella foresta di sentimenti, ostentando nella vita quotidiana una certa ‘sicurezza’ sul nostro sentire e sulla possibilità di intrecciare relazioni sentimentali soddisfacenti. Fino a quando non abbiamo scoperto che eravamo impegnati in una battaglia per il riconoscimento senza fine. In realtà, ogni cosa significativa e sana vive nel tempo, è fatta di momenti di verifica che non possono essere rimandati all’infinito: abbiamo appreso a nostre spese che modi sbagliati di intendere i rapporti uomo-donna, ad esempio, influenzano pesantemente la relazione affettiva, interferendo con i modi di risposta alla domanda d’amore. Ambivalenza e irresolutezza, che sono le caratteristiche di fondo della sensibilità romantica, sono la peste che trasforma poi ogni cosa, alterando il fragile equilibrio che sempre tiene insieme ogni relazione che si basi sulla reciprocità dello scambio. Senza tale chiara volontà, siamo di fronte alla patologia del sentimento, alla malattia dell’amore. Ci sono amori malati che bisogna aiutare a morire, per salvare la propria salute mentale e tornare a vivere in modo sano. Quando ci accada di essere noi l’oggetto del rifiuto, se l’esito finale tarda a manifestarsi, per  la pura volontà di perpetuare un rapporto che non si vuole troncare, a noi resta il comito di gestire il malato terminale. Bisogna aiutarlo a morire. E non è facile.

È un dolore difficile e diverso da sopportare. Quando lo stato di sospensione e la vana attesa si fanno deserto degli affetti, e ogni contatto non ci recherà più alcun conforto, ci ridurremo ad oscillare tra buone maniere e recriminazione. Come se ci fosse qualcosa da salvare ancora!

Ci siamo chiesti negli ultimi decenni cosa si debba raccontare ai ragazzi in materia di sentimenti, particolarmente oggi, in un tempo in cui si parla solo di emozioni, raramente di sentimenti. Si può dire che l’amore è un sentimento ‘a tempo’, che di solito dura qualche anno, difficilmente per tutta la vita? La realtà delle tante unioni felici si presenterebbe subito alla mente come un argomento efficace contro tanto ‘realismo’. Resta il fatto che il costume è cambiato. Il modo di sentire collettivo si è fatto pragmatico, cioè meno propenso a sposare teorie generali buone per tutti i casi. Ognuno di noi è portato a pensare che il campo degli affetti è forse il campo in cui la libertà personale si manifesta più ampiamente. Siamo, tuttavia, ancora soli di fronte alla vita e al suo ‘spettacolo’: le cose si manifestano a noi in modi sempre inediti, anche se ci affanniamo a vedere sempre lo stesso nelle più diverse situazioni, per quel bisogno di identità che impone il ricorso all’immagine della continuità della vita. Ad essa applichiamo schemi di comodo, per metterci al riparo dalla tempesta delle passioni e dalle intermittenze del cuore. Giuriamo fedeltà ed eternità per gli affetti che proviamo, ma ci scontriamo con il venir meno degli stessi. Si smette di amare, per la gravità delle incomprensioni, per l’insuperabilità dei fraintendimenti, per la volontà di non perdonare.

È un dolore diverso e difficile da sopportare, perché non c’è più amore. A questo non eravamo preparati. Abbiamo saputo affrontare tutto, le nascite e le morti, l’esaltazione per ogni nostra nuova nascita, ma anche l’afflizione per le perdite per cui non eravamo pronti. Questo dolore è più forte della stessa morte. Non perché l’amore fosse grande e abbracciasse ogni cosa in noi, ma per il fatto che questo abbandono ha il sapore del rifiuto, che si accompagna ad altri rifiuti che stiamo vivendo negli stessi mesi e nelle stesse ore. A questo dolore non siamo riusciti a dare ancora un nome.

È un dolore diverso e difficile da sopportare. Ne esce ridefinito il senso di tutta un’esistenza, perchè l’amore per noi non è solo l’amore per una donna: non si è trattato solo di una storia d’amore. Quando all’oggetto d’elezione sono state riservate le cure che nemmeno una figlia ha ricevuto e sono stati compiuti i gesti che avrebbero dovuto assicurare per sempre il riconoscimento e l’amore ricambiato, non è possibile fare a meno di pensare che si è trattato di un sentimento mal riposto, di una fiducia immeritata. Il tempo del disamore porta inevitabilmente con sé il disincanto. All’incanto perduto succede fatalmente la prosa quotidiana. Tutte le forme di deprivazione che vanno a costituire il tempo-dolore non possono essere compensate né surrogate da alcunché. Per chi scrive non si è trattato di una canzone di Cole Porter.

Contrassegnato | Lascia un commento

Il Segreto

Martedì 26 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (469): Il Segreto

«C’è un solo segreto, tra i valori maschili, ed è il segreto del padre: il padre che si fa segreto, che tace gli affanni, senza rinunciare al respiro lungo della vita distesa, che scioglie i grumi di dolore e rende giustizia dei diritti di ognuno nella propria mente ospitale. Il padre, infatti, è il lungimirante».

All’appuntamento con la vita solitamente si arriva impreparati come genitori: i titoli di studio non aiutano a fare bene. Se non fosse così, dovremmo concludere che gli Psicologi, in quanto scienziati dell’anima, saranno i migliori genitori! Tutte le altre categorie professionali, d’altra parte, avrebbero da rivendicare ‘competenze’ utili. Quale artigiano rinuncerebbe a credere, ad esempio, che la casa va avanti per i lavori grandi e piccoli che è in grado di fare, non solo per l’ordinaria manutenzione?
Non appena ci accingiamo a dire la ‘cosa’ – e la ‘cosa’ è l’oggetto del contendere, cioè l’Educazione, il modo in cui aiutare un figlio a crescere – le nostre ‘competenze’ si sciolgono come neve al sole. È lo ‘spettacolo’ della vita stessa che, fin dal suo primo apparire, ci costringe a rivedere il nostro lessico, il significato da sempre dato alle cose, il posto che occupiamo nel mondo. Non c’è una scienza conchiusa a cui attingere.

È stato detto che quando nasce un bambino in realtà nasce una madre. Quando nacque Sara, ebbi la sensazione forte che il mio organismo stesse subendo brusche trasformazioni. Quando nasce un bambino, nasce anche un padre.
Io credo, invece, che il padre fosse già presente in me, da molto tempo. Ne ebbi un chiaro sentore quando mio padre mi mise davanti una lettera che veniva dalla Direzione generale della Banca in cui lavorava. Mi disse: «Leggi e dimmi quello che c’è scritto». In seguito, volle che scrivessi io la risposta per lui. Avevo solo quattordici anni. Frequentavo il IV Ginnasio. Cosa aveva visto mio padre in me? solo una competenza linguistica?, peraltro ancora allo stato nascente! Oppure, come a me piace pensare, una misura, una saggezza che serviva in un momento di gravi decisioni?

Osservando in classe i nuovi alunni anno per anno e nel corso della loro crescita come studenti, ho avuto spesso la sensazione viva che in molti ragazzi ci fosse già il padre, per un senso della dignità personale, per la riservatezza, per la lungimiranza, per il rispetto delle ragazze e per la capacità di essere fattore di protezione per i deboli, fin dal primo anno della Scuola Media Superiore! Essi erano in grado di reggere all’urto delle situazioni dirompenti senza perdere la calma; sapevano assorbire in silenzio torti e mortificazioni a cui le circostanze suggerivano di non rispondere, per prudenza; erano equilibrati nei giudizi; capaci di mantenere i segreti; generosi e irreprensibili nell’amicizia.

La giusta ira che mi porto dentro oggi riguarda le persone che giocano con la sensibilità maschile e le situazioni in cui del valore maschile non risalta nulla. La sensazione nevrotica di non essere stimati né rispettati come padri è forte.
Con la storia del “padre assente”, tutti si approfittano vilmente delle situazioni per ritagliarsi spazi indebiti che tolgono la parola ai maschi, mostrando ignoranza criminale dell’umanità maschile, della sofferenza silenziosa in cui si consuma la condotta personale, in mezzo alla violenza delle parole che si sostituiscono alle persone e alla loro realtà umana.

Anche nel lavoro sociale che svolgo nel Centro di ascolto predomina la chiacchiera da bar sui padri, che sarebbero assenti, che arrivano ultimi alla battaglia contro la droga…
Il momento cruciale e decisivo di tutto il cammino di recupero dei ragazzi, tuttavia, è dato sempre dalla (ri)scoperta del padre. Il compimento dei processi riparativi e ricostruttivi è dato dai momenti di incontro tra padre e figlio.
Quello che si diranno, poi, è bene che resti patrimonio di chi è disposto ad ascoltare la vita e a rispettarla nella sua realtà segreta.

Contrassegnato | Lascia un commento

Che c’è di peggio del fatto di ricordare il tempo felice nel tempo della miseria?

*

Ricordando Domenica, 6 febbraio 2011

CAMMINARSI DENTRO (468): Feierlich und gemessen – Solenne e misurato

Come il movimento di una Sinfonia che si levi in crescendo per sostare meditante, in attesa della pausa breve, il cuore a volte avanza intrepido in mezzo alle voci che si accavallano scomposte per affermare la sua nota, il timbro di un’anima. Si ferma, allora, interdetto e perplesso, distratto da quelle voci che si fanno frastuono fastidioso e rumore, per ritrovare maestoso il cammino appena interrotto: il tempo di un’esitazione e poi di nuovo un polifonico succedersi di piani di realtà sfiorati, accennati, decisamente toccati.

E’ così che avanza la voce del desiderio nelle notti di luna, quando la sua pelle rispecchia il volto di Selene e tutt’intorno è festa di cicale e la nottola tace. E’ questo silenzio che siamo protesi ad ascoltare. Siamo in attesa. Quando la cicala interromperà il suo monotono frinire, il verso spettrale dell’uccello notturno annuncerà sinistri eventi al cuore. Questo temevamo. Che un segno esterno si facesse segnale, promessa smentita di nuovo dal cicaleccio del mondo, che si fa da presso a dire cose inaudite e strane. Che il tempo dell’amore è finito. Già il poeta aveva messo in guardia: il canto dell’allodola è cosa ben diversa dal canto dell’usignolo. La notte è finita.

Perché non accettiamo la felicità di un giorno – di una notte – e pretendiamo, invece, file ininterrotte di continuità, una condizione riservata solo agli dei immortali? Non fu voce del desiderio anche la sua? Non erano rivolti a noi sorrisi e gemiti, i dolci sguardi e le pause assorte dell’anima? Cos’altro chiedere al cielo, se non un’altra notte ancora, un incontro ancora con il nostro destino, il miele delle ore  e dei giorni non degli anni e dei secoli, la Luna su di lei, il dolce che si distilla nel cuore affannato? che si calmi il respiro, per più delicati affanni, per l’abbraccio, i capelli scompigliati e i lacci del cuore finalmente vinto dalla grazia e dal canto che monotono incede a ricordare che anche un’altra notte è passata?

Sia allora solenne e misurato il canto dell’anima che muta risponderà al canto di lei. Osservare l’incanto del suo stupefatto esistere. Un’altra nota ancora. Salutare insieme il giorno che avanza, io pianoforte, lei violino, e sentire l’eco della cicala, perché la notte continui ancora nel cuore assonnato e stanco.

Lunedì 25 marzo 2013

Contrassegnato , | Lascia un commento

Non basta essere soli

_______________________________________________________________

Lunedì 25 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (467): Non basta essere soli

Non bisogna dire ‘single’. Non bisogna scriverlo da nessuna parte. Come sono portati a fare i ragazzi, che hanno bisogno di gridare al mondo che un altro amore è finito. Quell’annuncio, poi, insospettisce: non è la sanzione del raggiungimento di uno status del tutto nuovo, una condizione che è anche scelta, come si addice a chi se ne va a vivere da solo e ci resta per sempre, acconciandosi a comprare singole porzioni di tutto, perché ormai il commercio mette nel conto anche la categoria dei solitari. Quell’annuncio insospettisce proprio perché è un annuncio: i single non vanno dicendo in giro di esserlo. Chi lo fa probabilmente è nella condizione del non-impegnato (ancora) sentimentalmente.

Non bisogna dire ‘single’, per non incorrere nella critica che parte dagli scettici: non tutti sono disposti a credere che non lo facciamo per dichiarare surrettiziamente la nostra disponibilità sentimentale. Questo è disdicevole, dal nostro punto di vista. Che senso ha, infatti, ‘mettersi sul mercato’ ad aspettare che risponda il prossimo partner, quando noi stessi finiamo per andare ad infastidire anche chi è impegnato già sentimentalmente, dimentichi dell’antico comandamento? E’ come se fossimo già tutti disponibili. Se è fatale che nasca l’attrazione per una persona, perché farsi prendere dall’impazienza di una dichiarazione che sa di impazienza? Può servire ad accelerare i tempi? Accorreranno a frotte partner impazienti?

Non bisogna dire ‘single’, per non affrettarsi a rinunciare al piacere di essere ascoltati ancora, perché anche un partner che ci abbia abbandonati è sempre il partner che amava ascoltarci. Sia così, allora. 

Sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell’opera del mondo. Sia così.

Contrassegnato , | Lascia un commento

Un mondo impazzito

________________________________

Lunedì 25 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (466): Un mondo impazzito

Sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell’opera del mondo. Sia così.

MARIO LUZI

La sensazione sgradevole che prova chi sia stato abbandonato dal proprio partner è quella di chi vede l’errore dappertutto intorno a sé.
Se prevale il silenzio del cuore dall’altra parte, se non arrivano più risposte, nemmeno alla più piccola richiesta di chiarimento, sembra che tutte le donne all’improvviso siano diventate insensibili e dure! Si finisce per vedere insensibilità e anaffettività dappertutto, come se la distanza naturale che passa tra le persone e il necessario distacco che appare indifferenza fossero  emblemi di una natura che non è più in grado di (cor)rispondere agli affetti che pure potrebbero interessarla e colpirla.
Ogni storia problematica o che finisca miseramente è riguardata senz’altro come effetto dell’incapacità di coinvolgimento emotivo e sentimentale di una delle due parti.
La tentazione di teorizzare e generalizzare va combattuta. Sentirsi assediati da folle di anime vaganti che non sorridono mai o che lo fanno perché prese dai piaceri del consumo e basta è vana follia. Immaginare un mondo impazzito che non è più capace di amare lo è ancora di più.
E’ accaduto soltanto che nelle regioni inferiori dell’essere ci sia stato un sommovimento del cuore che ha interessato uno solo degli infiniti individui che popolano quelle regioni. Il venir meno di un amore può essere riguardato come il venir meno della sensibilità generale? o come la perdita di sensibilità di intere categorie di quel mondo, come le donne, non importa di quale età, solo perché una donna abbia cessato di amare?

Contrassegnato | Lascia un commento

Il non vissuto che ci accompagna

________________________________

Lunedì 25 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (465): Il non vissuto che ci accompagna

Forse il momento della consapevolezza più grande fu quello dell’estate del 1967, quando mi ritrovai – superato l’Esame di maturità – a dover scegliere. Era la prima volta. Fino a quel giorno, avevo visto scorrere la vita senza inciampi. Nessun blocco, nessuna esitazione. Trascorsi l’estate su I fratelli Karamazov e ne uscii prostrato, senza fede, ormai. Con il compito non facile della scelta universitaria di fronte. In realtà, avevo poche chances, perché mi sentivo da anni votato all’insegnamento, ma quando non si sia superata ancora la linea d’ombra, tutte le possibilità possibili si affacciano alla mente e ci piace baloccarci con l’idea che siamo liberi e che intendiamo restare tali, cioè mantenere aperte tutte le possibilità. Continuai ad arrovellarmi fino al momento della partenza per Roma, con i documenti ancora incompleti: mancava il nome della Facoltà universitaria. Nell’Ufficio postale di Piazza Bologna, sul bollettino dei versamenti, invece di scrivere Lettere, scrissi Filosofia. Decisi proprio lì, in quel momento. Anche successivamente, dissi a me stesso che scegliere Filosofia era non scegliere ancora: si trattava di una sorta di passaggio propedeutico a tutte le altre scelte. Immaginavo, come tutti i miei coetanei, che fosse tutto possibile, che si potesse scegliere tutto. Mi angosciava il pensiero che, una volta fatta la scelta definitiva, non sarebbe stato più possibile tornare indietro, al di qua del bivio su cui mi sembrava di essere accampato, per imboccare un’altra delle tante direzioni che mi ostinavo a tenere ‘aperte’. In realtà, era solo la mia mente che si avviluppava nei ragionamenti segreti intorno al da farsi, perché per la prima volta ne andava della mia vita. Io non volevo prendere decisamente la strada che dall’età di dodici anni, avevo visto chiara davanti a me: l’insegnamento. Mi sembrava che la vita offrisse molto di più. Non capivo perché la vita mi mostrasse molto di più, se io avevo già deciso cosa fare, considerato che il mio cuore non aveva dubbi su ciò che desiderava.

Successivamente, chiamai libertà il grumo di emozioni e stati d’animo che si rincorrevano disordinatamente, sotto la spinta di una mente che non cessava di vagliare ogni aspetto della situazione. Subito dopo la pubblicazione dei ‘quadri’ della Maturità, avevo avvertito violentemente la sensazione che gli spazi chiusi erano finiti, dissolti ormai. Avevo davanti a me una dimensione sconosciuta, senza confini. Era inebriante, ma faceva male al cuore. Era quella una linea di confine tra due tempi della mia vita? Ero felice di essermi liberato delle infinite costrizioni della scuola, ma lì mi sentivo anche al riparo. Al riparo da cosa? Perché avrei dovuto sentirmi in pericolo? Se di libertà si trattava, perché averne paura? Solo molto tempo dopo, imparai con Leopardi a dare un nome a quel sentimento misto che era già proprio della vita adulta: il timore che accompagna sempre la speranza.
Gli studi classici mi avevano abituato a ragionare in termini di libertà/necessità, come se la libertà si stagliasse sempre di fronte a quello che credevo il suo contrario, cioè la necessità ferrea di ciò che è come è e non può essere altrimenti. In realtà, la libertà ha di fronte a sé il nulla. L’angoscia che l’accompagna proviene dal chiaro avvertimento di quel nulla in cui ci ritroviamo tutte le volte che siamo messi di fronte a una scelta. Ero libero, per la prima volta. Ma non lo sapevo. Provavo soltanto un misto di paura e felicità.

L’arrivo all’Università fu accompagnato da un checkup riservato a tutte le ‘matricole’. L’internista mi trovò rigido, teso, al punto che si irritò con me, perché non riuscivo a rilassare la muscolatura addominale. Mi spedì dallo Psichiatra, che mi trattenne a lungo. Questi mi chiese se intendevo proseguire gli studi. Gli risposi sì, non poco perplesso per la sua domanda. Mi descrisse il mio stato di eccitazione, i circoli viziosi in cui si avviluppava la mia mente, i rischi per lo studio… Mi suggerì esercizi per l’igiene mentale e mi raccomandò di farmi una ragazza. Il colloquio fu lungo. Lo ricordo quasi per intero. Mi ritrovai per la prima volta di fronte a qualcuno che sapeva di me, senza avermi conosciuto mai. Il turbamento che mi trasmise non mi abbandonò più, per tutto il Corso di laurea, fino alla discussione della tesi, e oltre. Si trattava di mettere ordine nel cuore, di imparare a fare i conti con la realtà e altro ancora, ma quando si ha la sensazione di avere il vuoto alle spalle, è difficile trovare un terreno solido su cui consistere.
Solo il 1969, con la conoscenza della donna che poi avrei sposato, provvide a darmi un po’ di stabilità. Molte cose ancora dovevano succedere, però, perché io potessi dire di aver trovato un equilibrio.
Temo che la linea d’ombra non sia solo una linea. Che non si tratti di un confine che si attraversa una sola volta. Le scelte che si succedono nel tempo, ma soprattutto, le conferme e i riconoscimenti sono tanti. E tanti debbono essere, per poter abbandonare l’età precedente, se ci accade di venire dalla ‘provincia’, come era il mio caso, e dal Risorgimento, forse dal Rinascimento, se non dal Medioevo, come sembrava a me di venire.
L’educazione sentimentale ricevuta era fatta di niente: nessuno aveva avuto il coraggio di parlarci di sentimenti. Ci siamo sporti sulla realtà facendoci aiutare dallo studio della Letteratura. L’amore era quello di cui parlava Dante, poi quello di cui parlava Petrarca. Boccaccio già ci confondeva le idee. Ma non finì nemmeno con lui. Tutti continuarono a parlare d’amore. A chi credere? Evidentemente, si trattava di demolire le teorie inammissibili. Con quale criterio? Se avessimo avuto un criterio, avremmo saputo dire che cos’è l’amore.
Il difetto della vecchia scuola si riassumeva nel fatto che mancava il punto di vista del presente, uno sguardo sulle cose che sapesse dare ordine e misura, aiutando a discriminare, a sceverare vero da falso.
Ai miei alunni, all’altezza del terzo anno del Liceo scientifico, avrei spiegato, poi, che la visione cortese della donna è spuria, perché negazione della donna; quelle che seguirono, fino a Dante, assumevano astrattamente l’amore e la donna, non erano espressione del rapporto con una donna reale. Solo a partire da Petrarca è possibile parlare di una reale esperienza d’amore. E il petrarchismo si protrasse fino a tutto il Settecento. La rivoluzione romantica mise l’accento sul soggetto amoroso, esasperando il senso delle cose: malattia del desiderio, era proprio quello che non ci voleva per un’età come quella adolescenziale in cui si tende a sposare l’infinito e la verità assoluta, la purezza e la fedeltà… Anche questa visione delle cose sarebbe stata cosa buona ‘demolire’. Ma la vecchia scuola si limitava a parlare di Letteratura, quindi non era dato sapere fino a che punto fosse utile seguire le suggestioni che provenivano da quei modelli di comportamento. Non bastarono nemmeno quattro anni di Filosofia, per arrivare a darmi un’educazione sentimentale. Solo la prova di realtà offerta da una donna reale avrebbe contribuito a bonificare il campo, ma restavano dubbi su quello che accadeva, sull’esperienza amorosa in corso, sul nome da dare alle cose.
Il 1968 d.C. segna per me la linea di spartiacque tra il vuoto di Educazione e la scoperta della vita, considerata in tutte le sue forme. Il ciarpame politico, ideologico e perfino storico su quell’anno cruciale della storia di una generazione è ciò che disprezzo di più. Nell’autunno del 1967 furono spazzati via dentro di me Medioevo e Rinascimento, Romanticismo e Risorgimento, a vantaggio della storia del mondo che si dischiudeva davanti ai miei occhi, aiutandomi a ridefinire ogni cosa, anche Medioevo e Rinascimento, Romanticismo e Risorgimento. Scoprimmo di essere Corpo, di avere una Mente che pensa: noi credevamo che pensassero solo i Filosofi… Nel magma incandescente delle lotte studentesche, apparve un’umanità nuova, che era lì, tutta davanti a me. Anche le mie cose – le persone che avevo sempre amato – ne uscivano ridefinite. Niente era più come prima. La sessualità e la passione politica mi fecero nascere a nuova vita.
Ma restava da definire la scelta fatta: pensare all’insegnamento voleva dire immaginare Lettere, l’insegnamento della Lingua e della Letteratura, mentre io mi ero iscritto a Filosofia. A partire dal 1965, quando la scoprii a scuola, la Filosofia non ha mai smesso di accompagnare la mia vita. Sono trascorsi quarantasette anni, ormai, eppure sento ancora forte il bisogno di proiettare ogni cosa in una dimensione filosofica. Nello stesso tempo, non ho cessato di interrogare i poeti e i narratori, perché il commercio tra pensiero e poesia che contraddistingue ogni forma d’arte, compresi il Cinema, la Musica e le arti figurative, ci fa dire che molte verità sono racchiuse nelle immagini artistiche più che nei discorsi della Scienza e della Filosofia. Per questo, poi, non disdegnai di insegnare per trentacinque anni Lettere, cioè Lingua e Letteratura, pur essendo laureato in Filosofia.
Ad aiutarmi in questa scelta intervennero le circostanze. Nel 1975 mi trovavo in Trentino, per una lunga supplenza di Lettere. Non fui mai chiamato per una supplenza di Filosofia e non c’erano cattedre di Filosofia, quando dovetti scegliere il Corso di abilitazione all’insegnamento. Anche in quel caso, scelsi l’abilitazione all’insegnamento delle Lettere, senza esitazioni. La Filosofia avrebbe continuato a guidare la mia vita. Subito dopo, vennero un incarico annuale, l’incarico a tempo indeterminato, l’immissione in ruolo, il trasferimento, l’assegnazione di una cattedra, la sede definitiva, la ricostruzione della carriera. La via era tracciata ‘per sempre’. Avevo accettato ogni passaggio della mia ‘carriera’ di insegnante senza obiettare nulla: mentre insegnavo ai miei alunni i segreti della Lingua e della Letteratura, continuavo a praticare privatamente lo studio della Filosofia, che era ormai una pratica di vita per me. Mi accadeva di dire sempre: Insegnante di Lettere, laureato in Filosofia. Era un po’ come dire che ero prestato alle Lettere. La mia natura era un’altra.

Nelle settimane passate tra il novembre e il dicembre 1967, trascorrevamo da una Facoltà all’altra, in cerca di qualcosa che non avevamo trovato ancora, a dispetto dell’iscrizione a una Facoltà universitaria. Di fronte alla prospettiva delle sessioni d’esame che ci aspettavano – giugno, ottobre, febbraio, giugno, ottobre… – mi resi conto del fatto che stare sui libri per quattro o dieci anni era la stessa cosa: una volta imboccata una strada, si trattava solo di percorrerla fino in fondo, senza soste. Pensavo ai sei anni di Medicina e ai quattro che sarebbero seguiti per la specializzazione in Psichiatria. Ero convinto di aver capito finalmente quello che volevo dalla vita. Rientrai a casa pieno di entusiasmo. Chiesi a mio padre il permesso di fare il passaggio di Facoltà, ma lui, già spaventato dal fatto che avessi scelto di proseguire gli studi oltre la Scuola Media Superiore, si preoccupò del fatto che potessi essere solo attratto da una chimera. Per lui, passare da 4 a 10 anni non era cosa chiara e ‘pacifica’ come per me. Disse di no. Così si aggiunse nel mio cuore, mentre studiavo Filosofia, l’interesse, la passione, la propensione allo studio della Psichiatria, a cui si aggiunsero subito Psicologia e Psicoanalisi. Da allora, non ho mai smesso di trascorrere dalla Letteratura alla Filosofia alla Psicologia alla Psichiatria alla Psicoanalisi, cercando in ognuna risposte ai problemi dell’esistenza. Per ognuna di queste discipline, poi, non ho mai smesso di cercare le relazioni con tutte le altre. Nel 1972 mi laureai in Filosofia con una tesi, che avevo iniziato a preparare al secondo anno, sui rapporti tra Filosofia e Psichiatria, segnatamente sull’influenza esercitata dal pensiero di Sartre sull’antipsichiatria di Laing e Cooper. Non avevo smesso di praticare le regioni di confine tra le discipline, anzi, era solo l’inizio.

Nel corso degli anni, quando ci intrattenevamo a discutere di Didattica, a scuola, un Collega mi ripeteva spesso che ero avvantaggiato nella cura della Didattica di Lingua e Letteratura dagli studi di Estetica fatti all’Università. In realtà, tutto quello che mi sosteneva sulla cattedra proveniva da studi che avevo proseguito senza interruzione su tutto il campo della Filosofia del linguaggio, della Linguistica generale, della Linguistica testuale, della Semiotica, dell’Estetica, della Teoria della letteratura scoperto all’Università. I quattro anni di Filosofia mi avevano fornito le ‘bibliografie’ e le ‘enciclopedie’ su cui avrei poi lavorato nei decenni successivi. Ancora oggi, oltre il passaggio alla pensione, sono impegnato su testi teorici e su Autori scoperti in quegli anni. Il rapporto tra Etica ed Estetica, tra Etica e Letteratura, è questione sempre aperta.

Lungo i miei trentacinque anni di insegnamento, ho avvertito sempre come bordo dell’esperienza, non vissuto, la parte di me restata in ombra: la Filosofia prima, la Psichiatria poi. Avrei dovuto insegnare Filosofia? Perché successivamente non ho mai fatto niente per passare a quell’altro insegnamento? Avrei dovuto fare lo Psichiatra? o lo Psicoterapeuta? Era quello che volevo veramente? Perché non ho fatto mai niente poi per renderlo possibile?
Dentro l’esperienza di volontariato, che dura dal 1989, ho avvertito la stessa sensazione di ‘inautenticità’. Avverto ancora oggi la sensazione di essere fuori posto; che debba sempre definire accuratamente, in modo ossessivo, i confini del mio intervento, come se temessi di essere accusato di invadere il campo degli Psicoterapeuti: il lavoro sociale che svolgo come Educatore, mentre sono emerse da qualche decennio le figure degli Educatori professionali, è ‘autorizzata’ in Exodus, la realtà nella quale mi sono formato per venti anni esatti, ma è sufficiente sentirsi Educatori, senza possedere le ‘coordinate’ professionali che contraddistinguono l’azione educativa al di fuori della Scuola? L’autoeducazione è sufficiente?

Contrassegnato | Lascia un commento

Tra un’apparenza e l’altra: un’altra solitudine

________________________________

Sabato 23 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (464): Tra un’apparenza e l’altra: un’altra solitudine

Il potere grande dell’illusione è tutto qui, nella sua capacità di far durare nel tempo, anche per anni, addirittura per decenni, il sentimento di qualcosa che accadrà, che accadrà a breve, che senz’altro accadrà. Almeno, così ci è stato detto e promesso. Magari con vaghe allusioni, sicuramente con rinvii e pretesti credibili, per impegni verosimili, impedimenti reali, ma crescenti.
Il difetto grande della fonte dell’illusione risiede nel fatto che deve essere quasi totale, avvolgere e riempire tutto il tempo, mantenerci in uno stato di sospensione che non si traduce mai in una parola chiara, una sentenza definitiva. Noi vorremmo anche un giudizio di condanna senza appello, i sensi di una decisione irrevocabile che aiutasse a mettere il cuore in pace, distogliendo magari lo sguardo altrove, per concentrarsi meglio sulle proprie umidità gastriche, da sempre aborrite, quasi fossero trasgressione morale o tradimento. Dovevamo essere interamente proiettati sulla chimera, presi dal sogno ad occhi aperti, dalla favola di ciò che sarebbe accaduto. Ma che puntualmente non si è verificato.

La distruttività di questa emozione sta esattamente nel fatto che ci accade di chiedere, di ostinarci nella ricostruzione di momenti e di cose dette, per carpire un segreto, per far rilevare la crepa che dovrebbe immettere in una nuova verità, concedendoci finalmente lo squarcio di luce sulla nostra condizione, che è poi tutto ciò che chiediamo. La pericolosità dell’insistenza è nella povertà da cui parla. E’ la mancanza il peccato di origine.
Ci era stato promesso ciò che immancabilmente è presente in ogni relazione sentimentale che si rispetti. La promessa non risiede in un giuramento o in un patto sottoscritto con un rito non scritto. E’ sufficiente imboccare la strada del sentire condiviso perché poi si finisca giustamente per accampare diritti che non sono riconosciuti.

Ci scaraventa nel paese senza tempo delle chimere la convinzione di stare in un patto, di averlo sottoscritto con qualcuno che ha detto sì assieme a noi, che avrebbe nel tempo rispettato l’accordo, come noi abbiamo fatto fedelmente ogni giorno per mesi e per anni, ingenuamente convinti del fatto che passare dal riconoscimento quotidiano e dalle corrispondenze amorose ai silenzi studiati e ai dinieghi faccia ancora parte del patto.

Siamo ciechi. Diventiamo ciechi. L’evidenza dell’amore che sola conta non c’è più. Ora altre evidenze si impongono alla vista che non vede, perché presa da altre evidenze, dai vuoti riempiti da noi, che prestiamo le parole e ci diciamo quello che nessuno ci sta dicendo, che continuiamo a credere a ciò che non c’è lì davanti a noi, luminosa presenza di sempre.

Siamo nella mancanza, eppure riscaldiamo il nostro cuore di una fede che proviene senz’altro dal bene ricevuto, che ci acconciamo a credere che sia ancora lì, a due passi da noi, dunque ancora per noi.
Questa nostra fede non merita la smentita crudele che non verrà, che non viene. Noi crediamo di non meritare una smentita, per aver lungamente prestato fede all’amore. Questo ci sembra di poter dire a noi stessi, per affrontare i giorni sempre uguali, trafitti solo dal dolore della mente, che si affanna a cercare un varco che non si apre più.

Il nuovo in cui ci ritroviamo quando arriviamo a decidere di non credere più – e questo è ciò che prevalentemente non facciamo – è dato dal puro vuoto della mancanza, dalla perdita di senso di qualcosa di cui non ci siamo ‘sbarazzati’ ancora. Siamo lucidamente infelici, perché comprendiamo bene che la felicità è a portata di mano, ma non riusciamo ad afferrarla. Questa è l’infelicità più grande.
L’indugio e l’ostinazione nascono da qui, da questa sensazione di possibile che sconfina in una libertà infinita. E’ tutto nelle nostre mani. Sembra quasi che il nostro destino sia nelle nostre mani. Ma si tratta solo del fatto che siamo a due  passi dalla decisione di riprenderci la nostra vita, per ritrarci al di qua dell’amore in cui avevamo creduto.

Noi possiamo oscillare indefinitamente tra apparenza e realtà, tra la falsa apparenza dell’amore che non c’è più e la bella apparenza di un tempo, che rinviava alla evidenza prorompente dell’amore.
Il destino dell’infelicità è tutto qui, in questo credere inutile nell’evidente apparenza che non è (più) tale, perché il nostro cuore, impegnato a far esistere e a far durare nel tempo l’oggetto d’amore, continua a generare la luce e il calore che riscalda l’altro furtivamente, che non si lascia più toccare l’anima dalle piccole mani che aprono e chiudono delicatamente, come fa accortamente la primavera con i suoi primi boccioli.

Contrassegnato | Lascia un commento

Nell’aperto

_______________________________________________________________

Giovedì 21 marzo 2013

CAMMINARSI DENTRO (463): Nell’Aperto troverà il suo ubi consistam ogni nostro più intransitabile stato di abbandono

Il bisogno di esistere non è soddisfatto solo dall’amore ricambiato. Senza rassegnarsi alla condizione dolente di chi è stato abbandonato e non riesca a ritrovare una dimensione piena dell’esistenza personale, conta spostare il baricentro della realtà sul proprio Sé, sulla parte oggettiva della personalità, sull’immagine depositata nella vita delle relazioni, nel lavoro… Non sull’io e le sue pretese di controllo e di dominio, di presa diretta e di direzione.

C’è l’onda del desiderio da soddisfare. Sempre. E il desiderio ci riporta alla vita e alle sue innumerevoli opportunità. La realtà è piena, secondo la grande psicoanalisi. La dimensione del vuoto è perdita di senso, fascino della dissolvenza, delirio di immobilità. All’ostinazione del vano chiedere sostituire la ricerca di senso, non rinunciando mai a darne uno ad ogni nuova evidenza. Dobbiamo imparare a governare i nostri sentimenti, attraversando il deserto del nostro scontento e curando pazientemente ogni più dura mancanza che si aggiunga alla mancanza che ci costituisce. Cedere alla tentazione di esistere. Abbandonare la dura soglia. Non attardarsi nell’attesa.

Ek-sistere, cioè protendersi oltre la mera percezione della propria ferita, per attingere il più corposo Sé, tutto quanto con il tempo si è stratificato e che è stato costruito accatastando i beni ricevuti, fino a farne muro al vuoto dei giorni perduti.

C’è dell’altro dentro e fuori di sé. Il lungo inverno del disamore deve essere attraversato impegnandosi a coltivare la propria anima: non bisogna trascurare il giardino della propria interiorità, armandosi degli attrezzi appropriati, per consentire alle più piccole piante di crescere e di affermarsi alla luce che attende.

In attesa del distacco definitivo, prepararsi al peggio, al deserto che verrà. La traversata può durare anche anni. Non ha senso restarsene immobili a implorare la pace perduta. Curare un’anima è il compito più grande. Anche la propria anima.

Se l’amore fu troppo grande, se l’investimento emotivo e sentimentale non consente oggi di riguadagnare spazi perduti, per poter dire ‘giardino’, impegnarsi a diradare le nebbie che impediscono di raggiungere i confini del mondo per piantare la bandiera della disperazione e lasciarla lì.

I sei lati del mondo vanno ridisegnati tutti: alto, basso, avanti, dietro, sopra, sotto. La tenda è senza teli. Restano esili bacchette a ricordare che un tempo lì c’era una casa. Il vento freddo e arido del silenzio ha portato via con sé ogni riparo. I confini di ogni ‘lato’ sono perduti.

Imparare a perimetrare la propria esperienza è il da farsi. Fare un tetto. Inventarsi una porta. Chiudere finestre. Tracciare confini. Occupare saldamente lo spazio dell’aldiqua. Arredare la provincia dell’uomo. Curare piante nei vasi e in giardino. Sistemare ogni giorno vestiti e suppellettili nelle proprie stanze. Togliere la polvere ogni giorno. Restituire allo spazio della propria esistenza i caratteri della casa. Riaprire i confini all’ospitalità. La cura è nell’aperto.

L’esperienza del dolore soltanto garantisce il governo dei sentimenti. Senza scadere in una masochistica accettazione della sofferenza che ci è stata inflitta, dobbiamo virilmente dire sì a un dolore che ci appartiene. Di esso definire le ragioni. Ma affrettarsi a portare fuori il cane. Innaffiare le piante. Mettere nei cassetti la biancheria pulita e stirata. Attivare l’aspirapolvere. Restituire trasparenza ai vetri. Riassettare il letto. Liberare il giardino dagli sterpi abbandonati. Ordinare ogni angolo della casa. Fare pulizia di fino, come viene insegnato ai ragazzi nelle Comunità educative: controllare che non ci siano ombre sui rubinetti e sulle maioliche del bagno e della cucina; passare il detergente sui lampadari, sotto i tavoli, lungo il battiscopa, sullo stipite di ogni porta… Ma, soprattutto, uscire a fare la spesa, provvedere alla manutenzione della macchina, rinnovare la carta d’identità scaduta, controllare in libreria le novità, come un tempo. Fermarsi a parlare con tutti quelli che hanno qualcosa da dirci. Prima o poi, ci ritroveremo di fronte a una nuova evidenza, accanto a tutto ciò che già si mostra a noi, che richiederà da parte nostra che diamo senso all’aperto, alla vita che di nuovo ci viene incontro.

Contrassegnato , | Lascia un commento