Come leggere Lacan

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Mercoledì 23 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (447): MASSIMO RECALCATI, Come leggere Lacan

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L’amore secondo Jacques Lacan

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Martedì 22 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (446): JACQUES LACAN, Sessuazione, sessualità, omosessualità, eterosessualità

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Noi siamo responsabili

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Martedì 22 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (445): Noi siamo responsabili

Il saggio di Vittorio Zucconi e Valeria Vaccari, Psicologia della responsabilità nella tossicodipendenza è del 1997. Ne venni a conoscenza attraverso il rogersiano Paolo Iaria, per qualche anno Supervisore del gruppo degli Educatori di Libera Mente, in qualità di medico psicoterapeuta, impegnato per 14 anni nella sede di Exodus di Santo Stefano in Aspromonte. Grazie a loro, abbandonai l’idea iniziale dell’“irresponsabilità” del tossicodipendente.
Pensare questa ‘responsabilità’ non è mai stato facile: bisogna fronteggiare la ‘naturale’ tendenza del tossicomane alla manipolazione, ma nello stesso tempo bisogna cercare un varco in cui inserirsi per comunicare con la sua parte sana. Solo in questo modo è possibile prendersi cura della persona che si rivolge a noi in cerca d’aiuto.

La prima competenza da sviluppare è proprio nella capacità di tenere insieme gentilezza e fermezza: l’accoglienza rispettosa e affettuosa accompagnata a lucido scetticismo sulle parole non verificate con la famiglia.
La prima mossa della ragione è data dalla proposta di aprire il ‘confronto’ con la famiglia: di solito, usiamo l’argomento che vogliamo ottenere almeno il risultato che la famiglia non danneggi emotivamente il lavoro che facciamo; successivamente, diremo che la famiglia ‘ci serve’, perché riteniamo che debba essere aiutata ad uscire dall’assedio in cui necessariamente si è chiusa. A tutti diremo che la ‘droga’ si combatte a viso aperto, senza trucchi, senza accordi segreti con nessuno. Per questa via, il ragazzo si trova sempre più ‘stretto’ tra gli obblighi a cui viene chiamato: accordi di ogni genere saranno tentati, per tastare il suo grado di ‘libertà’, la responsabilità che è in grado di esprimere.

Quando ho avviato l’esperienza di volontariato, nel 1989, ho scelto, tra le altre formule propiziatorie, le parole del sociologo tedesco Sigfried Kracauer: «La realtà si comprende a partire dai suoi estremi». Per molto tempo, ho pensato che per comprendere la salute, la sobrietà, la normalità occorresse concentrarsi sulla malattia, sull’eccesso, nel nostro caso, sulla dipendenza. Il risultato non è dato per ‘sottrazione’, cioè ‘togliendo’ tutte le condotte disfunzionali. Non basta immaginare che si debba esser sobri. Nemmeno aiuta pensare ‘per confronto e contrasto’: paragonata a quella del ‘malato’, la nostra vita ‘normale’ sarebbe sempre preferibile, come se anche in essa non si annidasse il germe del dubbio, il gusto dell’avventura, l’amore del rischio, la tentazione del gesto irresponsabile! Anche a noi piace bere il buon vino. Chi deciderà per noi fin dove sia prudente spingersi? Insomma, siamo liberi. Quando ci svegliamo al mattino, non sappiamo se ci faremo guidare da un demone buono o da un demone cattivo. Siamo esposti, come i nostri ragazzi, che si perdono nel gorgo muto della dissolvenza, a cui amano abbandonarsi per dimenticare quanto sia insopportabile consistere in questo tempo, in questa città, in quest’ora della vita. Occorrono buone ragioni per non cedere all’angoscia di morte che ci attanaglia. Il nostro destino dipende in gran parte dalla capacità di opporci all’ineluttabile e all’immensurabile, per arrivare a consistere qui e ora, paghi di quello che abbiamo, anche se dappertutto risuonano le grida scomposte di chi soccombe sotto i colpi di fortuna.

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FAUSTO PELLECCHIA, Sull’amore

Lunedì 21 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (445): FAUSTO PELLECCHIA, Un’idea sull’amore

Che la filosofia contenga già nell’etimo del suo nome un’originale  relazione con l’amore e il desiderio, è una caratteristica tenacemente rammemorata nella sua plurimillenaria tradizione.
 
Si suole ripetere che proprio questa relazione amorosa definisca la sua  dimora, nella distanza che la separa tanto dalle solitarie vette della sophia, quanto dai virtuosismi dell’antilogia sofistica.
 
Ma essa non potrebbe  attestarsi come inesauribile amore del sapere senza costituirsi, al tempo stesso, come sapere dell’amore, nel senso però di un genitivo soggettivo che non riesce mai a venire a capo di se stesso come genitivo oggettivo. In altri termini,  l’amore in cui abita la filosofia sarebbe nient’altro che un pensiero che ama o l’amore stesso in quanto pensa e si pensa, senza mai riuscire a raggiungersi come un sapere d’amore (che resta piuttosto riservato alla poesia e alla letteratura).
 
D’altra parte, proprio a Platone, che ne segnò per sempre la storia, vien fatta risalire la prossimità di quella scienza senza oggetto, che in occidente prese il nome di ontologia – sapere votato all’esistente puro, senza  proprietà – e della passione amorosa. Ciò a cui la filosofia volge il suo sguardo affascinato è l’esistente come tale che, sottraendosi ad ogni predicato reale, può essere appresa solo come punto di arresto del potere nominante del linguaggio.
 
Reciprocamente, ciò che appassiona nell’amore è propriamente solo l’esistenza dell’Altro che, svelandosi come imprendibile prossimità, si mostra come l’unico, quotidiano “miracolo” di cui ci sia riservata l’esperienza. L’intenzione suprema della filosofia consiste infatti nell’educare alla meraviglia più trita e, al tempo stesso, più imparabile: lo stupore che l’altro semplicemente sia, al di là o al di qua delle mie attese, dei miei desideri o del mio potere, meravigliosamente sciolto dalle parole e dai discorsi che tentano di catturarlo e di darne ragione – essendo piuttosto, proprio in questa loro impotenza, già da sempre a lui rivolti.
 
Di qui, l’inconsistenza dei tratti che nel discorso corrente sono raccolti sotto la rubrica di “amore platonico”.  Tanto l’idea che l’amato sono infatti esprimibili solo attraverso la radicale anonimia del nome, cioè attraverso l’impossibilità del nome di nominare la sua stessa capacità di chiamare l’Altro, di rivolgersi unicamente ad esso.
 
Non è un caso che l’idea platonica abbia la sua espressione tecnica nel nome della cosa seguito da “autò”, cioè nell’anafora del nome: l’idea della rosa è “la rosa stessa”.  Reciprocamente, la tesi secondo cui  l’Agathon è l’idea al di sopra di ogni altra idea, esprime il singolare statuto ontologico dell’amore: l’Agathon (solitamente tradotto con “il Bene”) non ha alcuna connotazione morale, ma appartiene alla famiglia di “agapao” (= amare, aver caro, da cui “agapeton” = amabile, desiderabile).  Che “esistente”  (ens) non sia un predicato reale, ma inerisca a ogni predicazione senza però aggiungervi alcuna proprietà, ciò può solo significare, se ben si riflette, che l’“agape” insegue unicamente l’essere dell’altro, non le sue qualità; e poiché  non potrebbe mai appropriarsene, lo cerca solo mantenendosi da esso indefinitamente a distanza: lo reclama, lasciandolo essere tale qual è, nella splendida sembianza del puramente Amabile.
 
Una prima indicazione proviene dall’aporia della categorizzazione dell’oggetto amato.  Ciò che rende possibile l’innamoramento e ne costituisce la causa, non è né il bello, né il buono né, tanto meno, la somma dei predicati reali con cui invano l’intelletto si sforza di afferrare l’essenza dell’amabile.
 
Se l’amante si dichiarasse dicendo: “Ti amo perché sei bello e intelligente, perché sei onesto e generoso, perché mi copri di attenzioni, perché mi sei fedele, ecc.”, bisognerebbe assolutamente diffidare delle sue parole. Molto più disperatamente autentica sarebbe l’ammissione costernata:  “Sono follemente innamorata di te, sebbene tu non sia né bello né intelligente, ed anzi un bugiardo,  egoista e  mascalzone…!”.
 
In questo senso, un’erotica filosofica sarebbe una versione profana della teologia della grazia:  l’essere eletti  senza merito, in virtù di un imperscrutabile volere – per non dire un capriccio – del dio, diviene il presupposto necessario da cui misteriosamente consegue l’amabilità  dell’oggetto. Per questo, ogni sapere e ogni discorso d’amore si arresta, infine,  sulla soglia del nome dell’amato, che lo interpella e  lo invoca nella sua intatta, inafferrabile singolarità

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Per amore di conoscenza

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Sabato 19 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (443): Per amore di conoscenza

Amore è desiderio di conoscenza.
CESARE PAVESE

Alla domanda su che cosa sia per noi Educazione è possibile rispondere in tanti modi. Se pensiamo nello stesso tempo a cosa sia a fondamento dell’Educazione e cosa sia un Educatore per noi, ci sembra più urgente riferire ciò che abbiamo messo di personale nell’azione educativa e che è possibile rinvenire nel tempo dell’insegnamento a scuola, nel tempo dell’aiuto al Centro di ascolto, nel tempo della crescita di una figlia a casa.
Tutta la mia esperienza educativa è stata sorretta da idee non proprio ‘pedagogiche’: non ho scomodato le moderne Scienze dell’educazione per andare avanti: piuttosto, mi sono fatto guidare dalle neuroscienze, dalla filosofia, da tutto ciò che aiutava ad accrescere la sensibilità, dall’arte alla letteratura, alla musica e al cinema.
A scuola è stato facile: dovevo addestrare i ragazzi a sviluppare competenza nelle quattro abilità fondamentali – ascoltare, parlare, leggere, scrivere -, per accrescere le capacità espressive e comunicative. Su tutto, però, ho fatto prevalere la scrittura.
A casa mi sono fatto guidare dalla cultura femminista, perché si trattava di aiutare a crescere libera dalla paura una figlia.
Al Centro di Ascolto si tratta sempre di “riportare i ragazzi a casa”, di aiutarli a riconoscere ciò che esalta l’esperienza personale e ciò che la deprime.

Della mia vita so con certezza che ho sempre lavorato per dare continuità a tutto quello che ho fatto. Quando mi sono reso conto dei cambiamenti che intervenivano in me, perché mi lasciavo alle spalle un’epoca della vita ormai trascorsa, non ho mai indugiato a lungo a rimpiangere le cose belle dell’infanzia o della prima adolescenza. Sono stato, piuttosto, impaziente di scoprire cosa la vita mi riservasse di nuovo. Ho accettato sui banchi di scuola e poi all’Università che la ‘sintesi’ arrivasse a tempo debito e che le cose prendessero forma dopo sforzi cognitivi, tentativi ripetuti, errori. Ho capito presto che solo il lavoro dà risultati: intelligenza, volontà, attitudini aiutano, ma non bastano. L’oscuro lavoro quotidiano soltanto è il crogiuolo in cui precipitano tutte le intenzioni e i propositi e i sogni e le aspirazioni e le performance. Ho visto crescere la mia parte sana grazie allo studio e alla prova a cui sottomettevo le mie facoltà superiori.

Mi è sempre piaciuta l’espressione “lavoratori della conoscenza” scelta dal mio Sindacato per designare gli Insegnanti. L’accento per me è posto su ‘conoscenza’. L’espressione più difficile del nostro compito umano nello sforzo di costruire relazioni significative con gli altri è “la conoscenza personale”, cioè la conoscenza della persona. Tutto il nostro sentire dipende dalla nostra capacità di conoscere la natura dell’altro, per stabilire di conseguenza contatti e scambi emotivi fruttuosi, per allacciare rapporti e dare vita a relazioni durature.
Siamo abituati a ricondurre l’idea della conoscenza a complesse strategie di apprendimento che portino all’acquisizione del significato di termini, concetti, fatti, principi, regole, leggi… Se rivolgiamo lo sguardo dalle ‘cose’ alle persone ci rendiamo presto conto del fatto che non si tratta mai di venire a capo una volta per sempre del significato di un’esistenza, come se fosse possibile ridurre la trascendenza personale, tutto l’invisibile dell’esperienza personale alla fissità di un concetto! A volte ci accade di dire che ‘sappiamo’ chi è una persona, perché abbiamo attribuito importanza ad essa, perché occupa un posto nella nostra esistenza, perché siamo spinti dalla curiosità ad indagare ancora, per dare ancora senso, più senso al modo di declinarsi nel mondo di qualcuno. Se non ci faremo accecare, però, da impazienza e avidità, dovremo riconoscere che il darsi a noi di un’esistenza non è mai paragonabile al modo di darsi delle cose, su cui finiremo sempre per esercitare una qualche forma di possesso. Nell’amore, come in tutti i modi di relazionarci all’altro, ciò che incontriamo è un soggetto, mai un oggetto. ‘Ridurre ad oggetto’ della nostra azione l’altro è sempre impresa destinata al fallimento e generatrice di follia.
La vita del soggetto è possibile ‘afferrare’ solo nel tempo, giacché essa si dà solo nel tempo. Tutti i tentativi di fermare il tempo sono pura pazzia. Noi siamo abitatori del tempo. Siamo i mortali. Non possiamo fare altro che consistere qui e ora, nel nostro tempo mondano, consci del nostro sbandato andare. Ci è concesso istituire file di continuità per dare orientamento al nostro cammino. È nell’istante eterno soltanto che dura l’incanto delle cose belle. Riesce a rendere eterno ciò che non dura solo chi arriva ad attribuire valore alle cose.

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L’aggressività umana come paradossale risposta paranoica alla gratificazione

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Martedì 15 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (442): Il soggetto inconscio del desiderio che noi siamo e la ‘vittoria’ dell’Io contro la vita: l’invidia della vita all’origine dell’aggressività umana

LacanA pagina 50 del suo Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Massimo Recalcati illustra incisivamente l’esito violento e la successiva pacificazione del soggetto che abbia esercitato la sua aggressività contro il “più simile”, il “più prossimo” a lui: «L’oggetto colpito – come insegna Aimée – è una versione idealizzata del soggetto che colpisce. È il suo “ideale esteriorizzato”. L’ammirazione idealizzante dà luogo a un’aggressività invidiosa perché l’esistenza dell’oggetto mostra persecutoriamente al soggetto ciò che esso non è. In questo senso, colpire l’altro è sempre colpire se stessi. Per questo, nel caso Aimée, Lacan indica come sia proprio la punizione del crimine, la sua sanzione simbolica – la reclusione di Aimée in carcere -, a riassestare i ruoli simbolici e a rivelarsi come pacificante per il soggetto». [Torneremo sul caso Aimée, su cui Lacan riferisce nella sua Tesi di Dottorato di Medicina, pubblicata nel volume Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità (1932), che inaugura un interesse costante, destinato a protarsi fin dentro la tarda maturità: la paranoia coincide tout court con la personalità (Seminario XXIII, pag.50); una tendenza primaria dell’uomo.]

Sembrerebbe, così, tutto spiegato, anche il caso di Erika De Nardo, la ragazza di Novi Ligure che uccise la madre e il fratellino. Gustavo Pietropolli Charmet, che faceva parte del Collegio dei periti che dovevano stabilire se Erika fosse colpevole, annotò nei suoi appunti che alla domanda: «Tua madre ti voleva bene?» Erika aveva risposto: «Non lo so». Charmet commentò in seguito: «Come è possibile andare in giro per le vie del mondo senza sapere che tua madre ti vuole bene?» La sua conclusione, che per tutto questo tempo io non avevo capito, fu: «Erika, dunque, è colpevole».
Proprio perché le condizioni di salute di Erika non furono definite buone – si parlò di un disturbo di personalità che forse le impediva di ‘sentire’, cioè provare emozioni e sentimenti -, io non riuscivo a comprendere la natura della sua colpevolezza: era capace di intendere, ma era anche capace di volere? La sua era una volontà libera, posto che non era sostenuta adeguatamente dalla percezione del valore, del significato della madre e del fratello?
Anche una volta accertato che lei – come il marito che uccide la moglie in casa, come tutti noi che spesso esplodiamo contro l’altro senza una ragione prossima, cioè senza una causa chiara – è ‘sana di mente’, ci ritroveremmo comunque di fronte a una colpa, che trae origine da quella che Lacan chiama “invidia della vita”, perché la nostra ‘risposta’ aggressiva non è conseguente ad una frustrazione ma ad una gratificazione. Ciò che si staglia davanti a noi non è qualcosa che ci viene negato: paradossalmente, dall’oggetto della nostra invidia aggressiva deriva solo amore, sovrabbondante amore. Il rifiuto dell’accettazione di quell’amore dipende dai sentimenti negativi che esso suscita in noi, che ci sentiamo esclusi da esso, e proprio mentre più grande si fa la cura nei nostri confronti! Ci sentiamo esclusi, perché le forze che ingabbiano la nostra parte ‘buona’ ci fanno proiettare sull’altro sentimenti persecutori, inducendoci ad elaborare pensieri negativi che sono solo la proiezione della nostra parte ‘cattiva’: finiamo per odiare nell’altro quello che non ‘troviamo’ in noi. Uccidiamo nell’altro quello che noi vorremmo essere, quello che abbiamo sempre sognato di essere.
La causa della nostra aggressività è tutta nella fissazione irrigidita nello “stadio dello specchio”, nella mancata accettazione della scissione originaria tra il soggetto inconscio del desiderio che noi siamo e l’ideale dell’Io con il quale erroneamente ci identifichiamo, pretendendo di ricondurre ad unità la dualità insanabile che solca la nostra coscienza: noi non proveniamo da una unità originaria a cui poter tornare: ogni nostalgia di questo genere è condannata ad essere insoddisfatta, non può essere soddisfatta da niente e da nessuno. Superare lo ‘stadio dello specchio’, allora, significa abbandonare la pretesa di unità per imparare a cogliere e a rispettare la diversità, la differenza irriducibile con l’altro che è in noi, come con l’altro che è fuori di noi.

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Un grido perduto nella notte

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Lunedì 14 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (441) : Un grido perduto nella notte

Fragile patrimonio sono i sogni,
ci fanno ricchi un’ora –
poi, poveri, ci scaraventano
fuori dalla purpurea porta
sul duro recinto
dimora di prima

Emily Dickinson

Il testo che segue è apparso poco fa nello spazio web del professor Recalcati, su Facebook.

Anche l’amore più grande, più assoluto, più certo, più simile ad un destino, può cadere, rivelarsi polvere, diventare niente. Cosa ci accade quando facciamo ancora esperienza di non essere altro che un grido perduto nella notte, quando incontriamo ancora la ferita traumatica dell’abbandono assoluto? Quando, come si dice meno radicalmente, “non è più come prima”? Può la vita resistere? Può continuare ad abitare un mondo che non è più lo stesso mondo? Può non cedere alla tortura dell’insensatezza? Ritarderò l’uscita del mio secondo tomo su Lacan per scrivere di questo. MASSIMO RECALCATI

Quello che sconcerta di più è l’inaudito stupore, l’imprevisto della nuova condizione, l’arresto del tempo dell’attesa e della speranza, l’apertura dell’anima non più ‘sostenuta’ dall’altra parte, l’eclissarsi improvviso dell’altra parte, assieme al gioco d’amore, alla voce, al volto, al caldo abisso della trascendenza personale. Non più risposte, spiegazioni e conferme, assillo e affanno, premuroso richiamo, appello invadente, rimprovero, sorriso. Cessa l’incanto della viva presenza, lo charme del tempo, con le file di continuità e il dono di sé. L’assenso, l’accordo, il conforto, la carezza non sono più. Il tanto mi dà tanto e l’apparato dei giorni, ma soprattutto delle ore. Il sapore immutato dei momenti vissuti insieme. L’attimo di gioia che si faceva istante eterno inspiegabilmente sottratto. Della gioia dispensata a piene mani più nessuna traccia, nemmeno il dolce ricordo. Solo disincanto e tragedia, scissione, separazione. Frantumi di tempo. Il nunc scomparso. «Potremmo riparlarne dopo?» Non più ‘dopo’. Solo immobile e vuoto presente. Anancasmi e brevi affanni. Poi, più nulla. Silenzio nella testa. Inerzia intellettuale e noia. L’orrenda, barbara malinconia che lima e che divora. Non la celeste nostalgia degli umani. Il vano sforzo della vicinanza sollecita e la testimonianza del solidale abbraccio. E poi? Cessati gli sforzi e gli abbracci e la vicinanza e la sollecitudine affettuosa? Solo tetraggine e abbandono. Come quello mortale del tempo dei sogni e delle belle speranze, quando era intollerabile a tutti che appena un po’ venissimo lasciati a noi stessi, come se fosse per sempre! Ma ora è così, è per sempre. Non avevamo creduto che si potesse giurare amore eterno, perché l’amore, come tutte le umane cose, è nel tempo, ma ci apparecchiammo per un tempo senza tempo, anche se non credevamo si potesse seriamente dire ‘per sempre’. Abbiamo prediletto perfino una canzone che chiede proprio quello che non si può promettere: Amami per sempre. Perché c’era chi aveva qualcosa da dire a noi sempre. Immancabilmente. Come la chiacchiera dei bambini, che farfugliano a volte cose insensate, ma vere, accompagnate sempre da convinto entusiamo e la serena certezza di essere creduti ancora. Sentivamo ad ogni piè sospinto che ci fosse tempo ancora per noi. Abbiamo creduto. Ci siamo affidati. Ora non c’è più sponda. Non sappiamo dove depositare le nostre emozioni. Ma la ferita che brucia in mezzo al petto e ci consegna all’angoscia dell’insussistenza e dell’infondatezza insensata è del cuore. È il tempo del dolore senza fine. Sentiamo già che esso potrà solo farsi più tenue e accennare a scomparire, per ripresentarsi a noi come morbo incurabile e strazio senza fine. Le intenzioni lacerate stanno lì a segnalare l’infranto e l’irreparabile, come morte sopraggiunta a colpire selvaggiamente. Come i venti freddi sferzanti di marzo, che tagliano la faccia e pietrificano e sconquassano le più miti pretese. Siamo stati così lasciati a chiedere e basta. E dopo aver dedicato una vita alla critica all’insensato chiedere, siamo lì, sulla nuda porta a chiedere, pur sapendo bene che si possa chiedere soltanto ciò di cui si conosce già la risposta. Eppure, non facciamo altro, ormai. Perfino nell’assenza fisica di chi dovrebbe rispondere ancora.

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Declinare crescendo

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Domenica 13 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (440): Declinare crescendo

A quattro anni dal congedo dall’insegnamento attivo, mi ritrovo spesso a considerare ciò che resta dell’esperienza di Educatore. Il mio ultimo Preside ci tenne a dichiarare in pubblico che, se pure andiamo in pensione, non cessiamo di essere Insegnanti: abbiamo il diritto di chiamarci ancora Insegnanti. E’ uno status sociale che non si perde. Confesso che a me fa piacere verificare, quando esco di casa, l’atteggiamento deferente degli adulti che mi chiamano Professore. Sento che una parte grande del mio Sé è ‘depositata’ in quella parola. Anche nel Centro di ascolto mi chiamano “il professore”.
Ciò che resta, perciò, non è un ‘resto’, per il fatto che da ventitré anni a questa parte alla condizione di insegnante si è sovrapposta per me quella di educatore nel Centro di ascolto: conclusa l’esperienza di insegnamento, non ho cessato di sentirmi educatore.
Negli ultimi sei anni, poi, mi sono nati due nipotini che contribuiscono ad impedirmi di invecchiare inutilmente e precocemente. Ho da fare.

Il ‘tempo’ dell’Educazione, tuttavia, è cambiato: è tempo della relazione d’aiuto e tempo della relazione educativa in famiglia.
Rispetto al ruolo istituzionale imposto dalla Scuola, mi sento ‘in trincea’, impegnato in un tipo di ascolto più ricco e vario, che mi ripropone gli stessi problemi, senza Didattica: non ho ‘materie’ da insegnare; prevale l’Educazione sull’Istruzione. Se a scuola bisognava rivendicare il ruolo dell’educazione su quello della mera istruzione – formiamo i ragazzi, non ci limitiamo ad istruirli nella nostra disciplina -, adesso è solo formazione, a casa e nel Centro di ascolto.
La preoccupazione della crescita dei bambini di casa e dei ragazzi del Centro  è esclusiva: non ha bisogno di ‘aggiungersi’ ad altro. Sento più nitidamente il valore e il  ‘peso’ della relazione umana: sono esposto, ne va di me, della mia natura, del mio carattere, delle mie inclinazioni, delle mie capacità relazionali; prima ancora di attivare conoscenze e competenze, mi sembra decisivo quello che riesco a fare a partire da quello che sono, perciò parlo di capacità.
Mi trovo ad interrogarmi ancora su identità sessuale, individuazione, disagio, famiglia, progetti di vita. Sono tornato a studiare l’età evolutiva, la formazione del carattere, le scelte educative, la natura umana, la struttura della personalità, la persona… con lo sguardo rivolto ai nipotini e ai ragazzi-adulti affetti da tossicomania. Non sono, però, il semplice ‘prolungamento’ dell’insegnante di un tempo, anche se quella relazione educativa resta sullo sfondo, come termine di confronto continuo.

Paolo Poli ha dichiarato recentemente, alludendo alla sua età, che si sente più libero, perché non lo guarda nessuno quando esce di casa. E’ importante trovare modi di convivenza accettabili con adulti privi di pregiudizi, perché dai giovani non può venire niente: non possono comprendere cosa significhi avere 64 anni. Non sono molti, se paragonati alla condizione triste di chi ne abbia dieci o venti di più e nessuna voglia di vivere… Tuttavia, questi miei anni portano già il segno della vecchiaia, ancorché incipiente. Il tempo del silenzio, dell’esperienza delle mancate risposte è iniziato. Per questo, è meglio parlar d’altro.

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Dove sono gli uomini?

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Perché ci illudiamo di non cambiare mai

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Giovedì 10 gennaio 2013

NOVITÀ: Perché ci illudiamo di non cambiare mai

 

Sul quotidiano la Repubblica di oggi, leggere: 

Anime immobili. Giovani e vecchi, perché ci illudiamo di non cambiare mai, di John Tierney

Una ricerca pubblicata su Science dimostra che a ogni età della vita siamo convinti, sbagliando, di restare sempre gli stessi per gusti e abitudini.

La ricerca degli psicologi Daniel Gilbert e Jordi Quoidbach di Harvard e di Timothy D. Wilson dell’Università della Virginia ha coinvolto 19.000 persone tra i 18 e i 68 anni.

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Chiara come un grande vento

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Martedì 8 gennaio 2013

CAMMINARSI DENTRO (439): «Chiara come un grande vento»: la coscienza secondo Sartre

Esattamente quarant’anni fa, il 17 aprile 1972, ho discusso la mia tesi di laurea su L’essere e il nulla di Sartre, che avevo intitolato: «Una filosofia della coscienza. Lettura fenomenologica de L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre». Avevo avviato lo studio dell’opera sartriana tre anni prima. Per tre anni ho lavorato in vista di quella che poi riuscii a far accettare come tesi personale per concludere il corso di Filosofia.
Convinto ‘sostenitore’ della Fenomenologia di Husserl dal 1967, l’approdo all’esistenzialismo fu per me il portato della crisi religiosa di quegli anni e l’esito più chiaro del bisogno di arrivare a un’idea almeno provvisoria della natura umana: l’espressione sartriana «libertà in situazione» mi avrebbe accompagnato, poi, per il resto della mia vita, assieme all’idea della trasparenza della coscienza. Per converso, mi abituai a pensare che non si possa temere niente più della vischiosità della coscienza.
Tra gli studi propedeutici alla scrittura, La trascendenza dell’Ego, che tradussi in italiano per i miei amici: avvertivo già l’importanza di quel piccolo saggio.

LacanA distanza di quarant’anni, nel dicembre 2012, avviando la lettura del ponderoso volume di Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, 643 pagine, edito per i tipi di Raffaello Cortina, ho scoperto quanto segue: «il passo inaugurale dell’insegnamento di Lacan consiste nel mettere in scacco la nozione di Io e ogni supposizione di padronanza che essa comporta» (pag.1). «La sua ripresa della riduzione freudiana dell’Io lo conduce a trovare in Sartre un compagno di strada capace di offrirgli una nuova ispirazione per provare a sganciare ancora più rigorosamente la nozione di soggetto da quella di Io» (pag.2). «La tesi sartriana dell’Io come oggetto, insieme al suo contributo alla critica fenomenologica del concetto tradizionale di “Io” e di vita psichica – sviluppata con rigore e originalità nel saggio del 1938 intitolato La trascendenza dell’Ego – costituisce indubbiamente lo sfondo della rilettura della teoria freudiana del narcisismo con la quale Jacques Lacan entra nel campo della psicoanalisi» (pag.2).

La coscienza non è costituita da nessun essere, non riposa mai su se stessa, ma si manifesta come spinta verso il fuori da sé, come “coscienza di…”, coscienza d’altro da sé, coscienza che non consiste mai di se stessa, dunque priva di unità o identità, strutturalmente “rivolta verso”, aperta, esplosa, in costante autotrascendimento, «chiara come un grande vento». (Jean-Paul Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità)

Nell’Introduzione al volume, Recalcati afferma: «Se c’è, come io credo e provo a sviluppare in questo libro, un neoesistenzialismo di Lacan …». La suggestione forte offerta da Recalcati, che l’intera opera di Lacan sia solcata dalla volontà di proporre un neoesistenzialismo, costituisce la conferma di tante intuizioni e supposizioni che hanno segnato questi quarant’anni di studi personali di Lacan. 

 

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La prima opera di Lacan acquistata (26 ottobre 1972)

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Godimento

L’ultima opera di Lacan acquistata (20 dicembre 2012)

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Prima di ogni più esatto sentire

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Lunedì 31 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (5)
Aσκήσεις (8): Prima di ogni più esatto sentire

Si potrebbe riassumere questa riflessione dicendo, in prima istanza: Uscire dall’indifferenza. Se vogliamo ‘curare’ la nostra infelicità o siamo impegnati a rincorrere la felicità, come se essa fosse il bene più grande a cui mirare, dobbiamo prendere coscienza della vera natura di questo grado zero della sensibilità che è distacco emozionale, mancanza di interesse per il mondo, distrazione, noncuranza, mimetismo conformista del sentire.

L’indifferenza è il nocciolo duro da spaccare nella vita di relazione, per dare vita a più significativi rapporti umani. Noi vogliamo che le persone escano dall’indifferenza, scegliendo di dare un senso alla nostra presenza. Ma non sospettiamo nemmeno lontanamente che l’indifferenza possa essere una necessaria difesa dall’invasione delle emozioni, che bombarderebbero la nostra anima, se ogni presenza nel mondo ci colpisse fortemente, alterando i nostri stati di coscienza oltre misura e indiscriminatamente. Rischieremmo di essere ‘affetti’ da chiunque volgesse lo sguardo verso di noi. Tra le altre cose, finiremmo per innamorarci senza ‘criterio’!
La distanza che mettiamo tra noi e gli altri non è il modo più efficace per proteggere il nucleo fragile della nostra anima? E non è quello che fanno in ogni istante della loro vita anche gli altri? Paradossalmente, è proprio perché i più sono poco interessanti ai nostri occhi e per questo non entrano nella sfera del nostro sentire, per lasciarvi tracce durature, che costituisce un evento significativo nell’orizzonte della nostra esperienza l’epifania di una persona che distingueremo da tutte le altre, perché oggetto di amore naturale o di amore elettivo.

Naturalmente, tra i due estremi dell’indifferenza e dell’esatto sentire c’è l’errore, l’illusione, la convinzione acritica di essere nel giusto. E questa certezza personale ci situa già oltre l’indifferenza. È preferibile all’indifferenza.
Naturalmente, accanto all’angustia della mente, all’apatia dei sensi, all’aridità del cuore, che concorrono a generare indifferenza, c’è l’insieme delle vicissitudini della coscienza più autentiche e positive: ogni più esatto sentire è preceduto dalla spontaneità, dalla genuinità, dall’innocenza della vita degli affetti. 

Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione

Aσκήσεις (5): I nostri Esercizi

Aσκήσεις (6): Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore

Aσκήσεις (7): Parlare in pubblico

 *

Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Parlare in pubblico

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Domenica 30 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (4)
Aσκήσεις (7): Parlare in pubblico

L’esercizio della parola in pubblico è uno dei più duri da ‘svolgere’. Ad esempio, prendere la parola per trentacinque anni di fronte a una classe di studenti delle Scuole medie superiori, per interessarli a un’ora di Italiano o di Latino, quando chi deve prendere la parola sia una persona timida, è un esercizio di cui non si parla, di solito. Si dà per scontato che ogni insegnante abbia sufficiente ‘faccia tosta’ da affrontare il pubblico studentesco senza affanno o timore. Gli insegnanti sembrano tutti votati alla ‘recitazione’ quotidiana. Pochi sanno che per alcuni di loro è ogni volta di nuovo un compito arduo da affrontare, perché si tratta di vincere insicurezze difficili da superare: si ripresenta ogni volta il timore di arrossire, di incepparsi mentre si parla o di risultare poco chiari o di non avere più niente da dire, soprattutto nei momenti di stanchezza morale, quando si vorrebbe piuttosto stare a casa, magari tra le braccia di qualcuno che sia disposto a dispensare carezze di ogni genere.

Delle quattro abilità linguistiche fondamentali – ascoltare, parlare, leggere, scrivere -, la meno curata è forse proprio il parlato, a dispetto delle innumerevoli verifiche orali che gli insegnanti compiono per dovere d’ufficio. All’interrogazione tradizionale, pure indispensabile perché fatta di domande specifiche, occorrerebbe affiancare il colloquio basato sul “Parlami di…”, per consentire un più fluente e compiuto discorso.
Dalla parte dello studente si consuma una battaglia permanente che egli ingaggia innanzitutto con il lessico, nello sforzo quotidianamente ripetuto di trovare le parole. Chi non ricorda la fatica della preparazione pomeridiana alle interrogazioni del giorno dopo? C’è chi non abbia tirato un sospiro di sollievo a sentir dire in classe che non sarebbe stato giorno di interrogazioni, anche essendo ben preparato? A chi non è capitato di ritrovarsi a balbettare vicino alla cattedra, nel vano tentativo di restituire il lungo lavoro fatto il giorno prima? Quanto volte si è verificato il caso dello studente che si è ribellato all’insegnante che non ha saputo apprezzare il lavoro svolto a casa, quando però la prova sia stata al di sotto degli sforzi fatti per prepararsi? Quanto tutto ciò dipende dal ‘parlato’, cioè dal fatto che una performance in pubblico non sia cosa scontata?
Per me, si trattava di affrontare un pubblico non sempre benevolo. C’era da superare l’emozione che montava e che non incoraggiava a parlare. C’era la sensazione di non ricordare più niente, che non ci avrebbe abbandonati più, fino alla discussione della tesi di laurea. In me, soprattutto il timore di chi si sente gli occhi addosso e fa voti agli dèi dei rinvii, perché l’esposizione al giudizio altrui è sempre troppa: non avevo ancora imparato ad affrontare il pubblico mentre parlavo. Fare le due cose insieme – pensare a ciò che doveva esser detto in modo chiaro e farlo senza impaccio – era decisamente troppo!
Eppure, ho attraversato il mio deserto, il deserto delle mie aspre solitudini, senza indietreggiare mai: ho accettato per decenni di arrossire davanti a tutti e con la morte nel cuore ho continuato a cercare le parole.
All’altezza del primo liceo, ho deciso che dovevo mettermi a parlare in Italiano in casa, dove si parlavano ben tre diversi dialetti: quello dei miei genitori, quello dei primi tre figli, quello del quarto figlio. Naturalmente, tutti mi prendevano in giro e mi giudicavano aspramente: erano convinti del fatto che ostentassi uno spirito di superiorità nei loro confronti, essendo un liceale! Nessuno comprese il mio dramma privato.
Anche se nessuno mi insegnava ad ascoltare, a parlare, a leggere, a scrivere, io dovevo comprendere i meccanismi della lingua, della grammatica, dello stile. Non sapevo ancora cosa fosse la pragmatica, cosa la semantica. Non avevo scoperto ancora Estetica, Filosofia del linguaggio, Linguistica generale, Linguistica testuale… Ogni progresso nella conoscenza e ogni voto lusinghiero equivalevano a una promozione sociale per me, non solo alla promozione scolastica, a un incremento del profitto.
All’Università avrei fatto le scoperte maggiori, proseguendo il lavoro avviato su di me. Mentre mi accingevo a sostenere gli Esami che avevano a che fare con la Lingua, il Testo, il Linguaggio, pensavo a quello che avrei fatto in classe con i miei alunni, per aiutarli a progredire come animali parlanti: sarebbe stato quello il mio risarcimento.  Avrei assunto come termine di confronto, per generare l’indispensabile dissonanza cognitiva, la condizione in cui versavo io come studente di liceo prima e universitario poi.

La fluenza del parlato, con il ritmo che pure richiede, non è capacità che si possiede e basta. Contribuirà ad accrescerla la tendenza ad imitare gli adulti a casa, se questi parlano in Italiano. Fu decisivo per me scoprire quanto sia importante accettare la propria voce. Un ragazzo non si rende conto fino in fondo quanto possa costituire un ‘freno’ all’espressione libera di sé la non accettazione della propria voce. A tutti i miei alunni ho suggerito la riflessione privata su questo punto: occorre allenarsi ad ascoltarla, fino ad arrivare a provare piacere a sentirla.
Dare alla voce un’intonazione durante la lettura di un testo, cercando di rendere il senso, alla maniera degli interpreti di professione, gli attori e i dicitori, è forse una delle ultime cose da fare, ma si avverte in ogni momento che ‘interpretare parlando’ è indispensabile per far capire a chi ci ascolta che il testo ci appartiene, ha influito sulla nostra sensibilità, ne abbiamo compreso il senso. Un esempio chiaro di questa difficoltà è dato dalla lettura de L’infinito di Leopardi. Per decidere fino a che punto fosse da premiare un ragazzo di quinta liceo che affrontava l’Esame di stato, mi sono limitato sempre a far leggere i primi versi de L’infinito. Dicevo soltanto: voglio sentire come leggi. La voce di una persona ci rivela più di quanto il parlante non sappia!

I miei alunni mi prendevano in giro affettuosamente dicendomi che la mia voce era soporifera. Naturalmente, cercavo di essere caldo e rassicurante e fermo e sereno… Inutile dire quanto fossi sicuro di aver raggiunto negli ultimi anni di insegnamento un livello alto di consapevolezza di quello che accadeva durante l’ora di lezione.

Soltanto negli ultimi anni di insegnamento ho capito quanto incida l’improvvisazione nella conduzione della classe durante la ‘lezione frontale’. Lungo tutta la mia carriera, non ho fatto altro che studiare per arrivare in classe pronto su tutto. L’intera estate era dedicata alla preparazione del Progetto didattico per l’anno scolastico successivo. Al mare o in montagna, avevo sempre i miei libri con me. Fermo restando che lo studio è indispensabile, sbagliavo a pensare che non si debba mai improvvisare! che tutto debba essere previsto!
Uno dei momenti più importanti della mia vita è stato la scoperta dell’improvvisazione, della necessità di improvvisare. Quando andiamo a un appuntamento importante, con una donna o per un posto di lavoro, al Centro d’ascolto per un colloquio, in un luogo in cui non siamo stati mai, per parlare con qualcuno che non sappiamo ancora se ci accetterà oppure no, noi siamo ‘esposti’, perché non sappiamo cosa dire. Non sappiamo bene quello che diremo, con quali parole, con quanta efficacia… Massimo Cacciari parla dell’arrischio della relazione, per significare questo essere in prima linea, senza difese o protezioni di sorta. Non siamo in pericolo, ma ne va della nostra immagine, dell’idea che l’altro si farà di noi: temiamo di non riuscire a far intendere quello che ci preme di più l’altro sappia.

Oggi so quanto sia inutile consegnare ad un incontro occasionale e fortuito il senso di sé, preoccuparsi di deludere l’altro: è fin troppo facile che accada! Ci si salva solo pensando alla fragilità del bene, a quanto dipenda dall’altro il significato che vorrà attribuire alla nostra esistenza. Attraverso le nostre ‘parole’ trasparirà comunque ciò che siamo.

Imparare a vivere attraverso l’esercizio della parola, imparando a parlare in pubblico. Per ascoltarsi vivere. Per conoscere la propria anima attraverso la sua capacità di divinare dal fondo enigmatico e buio da cui parla. Per imparare ad accettare il bene e il male che ne verranno da ciò che gli altri vorranno restituirci di noi.
Molti ragazzi affetti da tossicodipendenza mi hanno rivelato che hanno fatto ricorso alle sostanze per trovare il coraggio di parlare davanti agli altri. Al termine di lunghi percorsi segnati dai necessari processi riparativi e ricostruttivi della persona, tutti i ragazzi  hanno dichiarato sommessamente: ho imparato a parlare in pubblico senza paura. A loro è dedicata la maggior parte degli sforzi che faccio per essere una persona migliore, da ventitré anni.

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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione

Aσκήσεις (5): I nostri Esercizi

Aσκήσεις (6): Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore

 

 

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Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore

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Mercoledì 26 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (3)
Aσκήσεις (6): Di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda d’amore

[ La stesura di questo articolo si basa per intero sul saggio di MORENO MANGHI, Il rifiuto. La Versagung nell’insegnamento di Lacan (ottobre 2009). Il progredire della conoscenza delle questioni teoriche e delle implicazioni pratiche imposte all’attenzione dalla lettura del saggio stesso comporterà correzioni e aggiornamenti del nostro articolo. La provvisorietà di questa sintesi personale è un tacito invito a chi legge a procedere con la lettura personale di quel testo nevralgico della letteratura psicoanalitica contemporanea.  ]

INDICE del saggio:

I. La frustrazione, 2
Riferimenti bibliografici dei seminari di Lacan citati, 3
Liminare, 4
PRIVAZIONE-FRUSTRAZIONE-CASTRAZIONE, 8
Privazione, 9
La privazione è la mancanza reale di un oggetto simbolico
Frustrazione, 11
La frustrazione è la mancanza immaginaria di un oggetto reale
Castrazione, 12
La castrazione è la mancanza simbolica di un oggetto immaginario
LA DIALETTICA DELLA FRUSTRAZIONE NELLA DOMANDA D’AMORE, 16
IL NESSO FRUSTRAZIONE-REGRESSIONE, 23
A CHE PUNTO SIAMO. RICAPITOLAZIONE, SCHIARIMENTI, GLOSSE, 28
AL DI LA’ DELLA DOMANDA D’AMORE: IL DESIDERIO, 32
AMORE INCONDIZIONATO E DESIDERIO COME CONDIZIONE ASSOLUTA, 36
LA VERSAGUNG AL CENTRO DELLA TRAGEDIA MODERNA, 42

La vertiginosa altezza raggiunta con il concetto di Versagung in ambito psicoanalitico può essere compresa solo da chi abbia dimestichezza con i temi dell’Educazione e della Cura, per le ripercussioni che quel concetto è destinato ad avere sulle idee che guidano Educatori e Terapeuti. Siamo oltre Pedagogia e Psicoterapia: non vale qui il solo specialismo delle Professioni d’aiuto, con titoli e curricula. Parliamo di cure informali, cioè di qualcosa che si situa al di qua dell’intervento codificato da setting e protocolli, perché il ‘fenomeno’ descritto non è riconducibile al solo ambito psicopatologico.
Accade a tutti noi, nel corso della vita, di ritrovarci accanto al dolore di qualcuno: allora saremo confortati nell’azione dal nostro sapere pratico e dall’esperienza, la nostra esperienza delle cose. Per me, ad esempio, che lavoro in un Centro d’ascolto per tossicomani da ventitré anni, è facile stare accanto a un ragazzo che sia affetto da quella grave patologia. Avendo imparato a tenere distinti ambiti di intervento e ruoli, riesco a stare nel ‘campo’ che mi appartiene, che è quello dell’educazione e delle cure informali. A proposito di queste ultime, non andranno confuse con le cure dei familiari, quando si tratti di assistere una persona affetta da malattie invalidanti o tipiche della vecchiaia. Genericamente intese, anche se previste con rigore dalla Scuola di Trento, ad esempio – vedere la Voce di Dizionario Community care in “lavoro sociale 3/2004, pp.421-426” e Cure informali (care) in “lavoro sociale 1/2002, pp.131-138” -, esse sono il nostro prenderci cura di persone che affiancheremo anche per anni: nel Centro di ascolto Libera Mente ci sono persone che frequentano il Centro anche da quindici anni. L’opera di affiancamento dei genitori che vi si conduce nel gruppo di auto-aiuto delle famiglie ci spinge a fare queste riflessioni sulle cure informali: in quanto adulti educatori, i genitori apprenderanno nuove modalità di comunicazione con i loro figli e nuovi stili educativi. Dovranno scegliere nuovi modelli educativi. Oppure, fare riferimento a vecchi modelli che conservino ancora la loro efficacia. Sicuramente, dovranno modulare il loro comportamento, basandosi sulla ‘fase’ che si sta attraversando: di puro ‘contenimento’, quando il ragazzo è nella fase acuta della dipendenza; di accettazione e di orientamento, quando i processi riparativi e ricostruttivi della personalità siano stati avviati.
Un Educatore che operi in un Centro d’ascolto può rivendicare l’assenza di competenze sviluppate in ambito accademico, essendo fornito di esperienza d’insegnamento – come nel mio caso – e di saggezza di vita, essendo un adulto impegnato nella formazione permanente di sé, nella cura di sé, nella ricerca costante delle proprie ragioni di vita nello studio, nella riflessione, nell’azione. Quasi cinquant’anni di studio della Filosofia, trentacinque anni di insegnamento della Letteratura italiana e latina, ma soprattutto della Lingua italiana, ventitré anni di lavoro sociale in un Centro d’ascolto, un’esperienza di formazione permanente in Exodus avviata venti anni fa autorizzano a pensare di aver conseguito certezze nel campo dell’Educazione e della Cura.
Rivendicare il valore e il peso di cure informali ha senso, perché prima, durante e dopo ogni intervento riparativo e ricostruttivo, intervengono a diverso titolo famiglia e volontariato sociale con un’azione educativa che è importante oggi che non dica genericamente ‘frustrazione’ e ‘rinuncia’: più correttamente c’è da dire Rifiuto (Versagung), con tutto quello che comporta di nuovo, anche per noi, questa rinnovata prospettiva.

La pedagogia dei sacrifici e delle rinunce, da cui provengo, non sembra essere più di moda. Eppure, il senso del limite si apprende soltanto quando ci si scontri con le prescrizioni per l’azione che sono dettate da un’autorità riconosciuta e ‘ascoltata’. Un tempo contribuivano anche le pene corporali a confermare l’autorità della scuola e della famiglia. Oggi, è più difficile acquisire autorità sul campo, senza la ‘sponda’ rappresentata da Autorità che non era necessario nemmeno riconoscere, perché si imponevano sui ragazzi per il mandato ricevuto.
Il ‘comandamento’ Onora il padre e la madre, ad esempio, aveva una sua forza, per cui si imponeva nelle nostre vite attraverso esempio e testimonianza: i padri non erano soltanti i ‘patriarchi’ che rivendicavano un potere quasi esclusivo sui figli: essi provvedevano sempre alla trasmissione del desiderio. Quando chiesi la bicicletta nuova a mio padre, non disse di no. Ci pensò un po’ su e disse solennemente che l’avrebbe comprata «tra un anno». Naturalmente, io mi misi subito a contare i giorni. Così nasceva e si irrobustiva in noi il desiderio. Così imparavamo a differire nel tempo la soddisfazione dei nostri desideri: sapevamo che non sarebbe stato mai possibile avere ‘subito’. Nemmeno potevamo sperare di avere ‘tutto’. Passavamo il tempo a pensare a tutto quello che non avremmo avuto mai, perché troppe erano le cose che giudicavamo ‘irraggiungibili’. Così potevamo sognare ad occhi aperti, portandoci nel cuore le nostre segrete speranze. Così curavamo lo sviluppo dello spazio interiore indispensabile ad elaborare quello che poi sarebbe stato chiamato frustrazione. Ciò che ci veniva negato per l’immediato rientrava nel numero delle cose a cui bisognava rinunciare temporaneamente, in attesa di un ‘incasso’ certo ma lontano nel tempo. Così imparavamo a conoscere attesa e speranza. Così imparavamo ad accettare la rinuncia, la mortificazione, il sacrificio, l’assenza, la mancanza. In seguito, avremmo compreso meglio l’abbandono e la perdita.
Possiamo dire oggi che l’esperienza dell’abbandono è devastante, perché va ad intaccare i fragili equilibri che siamo impegnati a costruire ‘intorno’ al nostro Io, dimentichi del più poderoso e solido ‘contesto’ della persona.
L’esperienza della morte ci è più ‘familiare’, se non altro perché ‘attesa’, anche se la cultura dominante tende ad esorcizzarla, aiutandoci a ‘scansarla’, ad evitare di fare i conti con essa: è stato detto autorevolmente che è l’ultimo dei tabù.

Il campo dell’esperienza si è dilatato, per noi. Si potrebbe parlare di una mutazione antropologica che ha investito i sessi e le culture, che ha messo in questione sempre più i modelli educativi, che non ci consente di pensare l’esperienza nei termini autoritari in cui risultava ‘facile’ trasmettere esperienza da una generazione all’altra. La stessa espressione ‘trasmettere esperienza’ era forse già inadeguata allora: si trattava sempre di imposizioni, che spesso tradivano le vocazioni naturali delle persone… Quando, a partire dagli anni Sessanta, le energie ‘creative’ delle giovani generazioni si sono liberate, la mobilità sociale è cresciuta, le classi sociali sono scomparse, le distanze tra le persone si sono accorciate. La caduta delle barriere che tenevano separati i mercati, tuttavia, ha generato un nuovo tipo di solitudine: forgiare il destino personale in un campo tanto grande ha reso tutti esposti, più deboli, con meno tutele e scarse certezze sul mondo esterno. Da venti anni, almeno, nelle politiche di intervento a sostegno delle persone affette da grave disagio sociale, a partire dagli adolescenti, si è affermata una pedagogia interamente incentrata sulla persona, per ‘scoraggiare’ la domanda di sostanze stupefacenti e psicotrope, anche attraverso la promozione delle forme più impensate di agio sociale. Lo sfondo sociale, però, è rimasto immutato. Sdoganamento del narcisismo, epoca delle passioni tristi, nomadismo intellettuale, tribalismo giovanile sono stati invocati per dare un nome al disagio della civiltà di oggi. Schematizzando molto, si potrebbe dire che all’idea freudiana di un principio della realtà che si imponeva sul principio del piacere, inducendo il soggetto a rinviare il soddisfacimento del desiderio, si è sostituito un principio del piacere, che trova nel soddisfacimento immediato di tutti i desideri un indebolimento del soggetto stesso, che stenta ad incontrare il suo limite, impegnato com’è a scansare ogni forma di privazione e di dolore. Sacrificio e rinuncia sembrano i termini di una ‘regola’ del vivere quotidiano che non trova mai la propria misura.

Può, allora, ‘funzionare’ ancora una pedagogia dei sacrifici e delle rinunce, aiutando le autorità parentali e scolastiche a segnare il limite che solo consente di crescere, giacché assegna mete credibili all’azione e fonda i processi di individuazione personali  su un senso di sé che non si risolva nella dissipazione infinita del consumo e basta?

La riconsiderazione della frustrazione nel quadro da cui ‘proviene’ e le sue relazioni con privazione e castrazione soltanto ci consentiranno di inscrivere le forme della mancanza sotto i registri del simbolico, del reale, dell’immaginario. Solo per questa via l’amore troverà la sua giusta collocazione, se sapremo oscillare tra presenza e assenza, senza perdere mai di vista il potere di chi ha da dispensare il dono, che può sempre revocare il patto, rifiutandosi di rispondere alla domanda d’amore.
Ritrovarsi di fronte a questo rifiuto non significa soltanto sperimentare l’abbandono reale e la perdita reale dell’oggetto d’amore. Il ‘soggetto del rifiuto’ è inizialmente la madre, in seguito la donna, che ci metterà di fronte alla sua mancanza costitutiva, facendoci misurare nella maniera più esatta il ‘destino’ del desiderio.

Imparare a vivere, in questo quadro, significherà imparare a comprendere che non ci troviamo più di fronte all’onnipotenza delle madri, che non rinunceranno mai a donare l’amore incondizionato di cui i piccoli hanno bisogno, ma saranno costrette sempre più consapevolmente a rifiutarsi di dire sì a ciò che non possono dare, perché ne sono prive, e per l’insaziabilità del desiderio: soddisfare esso ‘incondizionatamente’, ammesso che sia possibile, non basterebbe a ‘colmare’ la mancanza costitutiva di ogni essere umano, che è destinata a rimanere tale, in tutte le epoche della vita.

A questa coscienza alta della nostra condizione deve corrispondere una capacità di visione della realtà dell’anima altrettanto alta: ‘psiche’ non basta più, con i vecchi schemi del Novecento.
L’esercizio che ci attende è abitare la distanza, come etica del linguaggio che pensa l’invisibile dell’esperienza propria e quella altrui, senza impazienze e senza soverchie illusioni. La distanza che separa dagli altri è da ricondurre sempre alla nozione definitiva di mancanza, che istituisce ogni altra nozione e tutte le categorie di cui ci serviamo per ordinare l’esperienza nei suoi confini.

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«Vi ho pregato di rivedere l’uso che si fa oggigiorno in analisi del termine frustrazione. Volevo così incitarvi a ritrovare ciò che vuol dire nel testo di Freud, dove quel termine non viene mai utilizzato, il termine originale di Versagung, nella misura in cui ha un accento che va ben al di là e più a fondo di ogni frustrazione concepibile». (Jacques Lacan, Il Seminario, Libro VIII, p. 330 dell’edizione in lingua francese) 

Per tornare a Versagung e alla portata di questo concetto per noi, sarà utile fare riferimento a un’occasione linguistica denunciata da Moreno Manghi, autore del saggio Il rifiuto. La Versagung nell’insegnamento di Lacan su cui poggia questa nostra riflessione: tutta la psicoanalisi del Novecento ha contribuito a costruire una ‘pedagogia della frustrazione’ sulla base di un termine che non compare mai nell’opera di Freud! (Anche noi, in verità, abbiamo creduto fino a poco fa che il tossicomane sia persona che non tollera il peso della frustrazione! E’ dato poco rilevante che si dia pure il fatto dell’irritazione conseguente a tutte le esperienze di assenza e all’incapacità di agire indotta dalle sostanze: il disturbo prodotto dalle condotte d’abuso ha la sua ragione in un più generale ‘blocco’ della capacità di accettare le rinunce che accompagnano i nostri atti liberi. In assenza di questi ultimi – se anche noi ci ritroviamo nella condizione di non poter agire liberamente, saremo irascibili, irritabili, ‘frustrati’… -, cercheremo altrove la spiegazione del nostro disagio).
La nozione di frustrazione andrà ricondotta dentro più nitidi confini, se opportunamente distinta da privazione e castrazione e articolata rispetto alla mancanza dell’oggetto secondo le categorie dell’oggetto simbolico, reale, immaginario:

Mancanza Reale: Privazione Immaginaria: Frustrazione
Simbolica: Castrazione
Oggetto simbolico reale immaginario

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Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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I nostri Esercizi

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Martedì 25 dicembre 2012

IMPARARE A VIVERE (2)
Aσκήσεις (5): I nostri Esercizi

Il quadro dei moderni Esercizi spirituali è destinato a crescere. Già Goethe aveva da proporne di suoi. Sarà utile aggiornare la nostra mappa del territorio, includendovi le pratiche a cui ricorriamo e che si configurano sempre più come veri e propri Esercizi.

La mia Rubrica Camminarsi dentro costituisce per me dal settembre 2006, dal giorno della morte di mia madre, un’occasione permanente per mettere alla prova la capacità di verbalizzare l’esperienza. Dare voce all’inespresso, ‘sfidando’ l’Ombra e la forza del Pudore, è compito. L’una si annida nei meandri dell’Anima, per assumere nella vita quotidiana le più diverse maschere; l’altro si erge a custode dell’Inconfessabile, per proteggere l’Anima stessa dagli assalti dell’immortale volgarità umana. Questo Esercizio è per me Scrittura più che conoscenza di me stesso: non il mero ‘contenuto’ del pensiero ma la forma dell’Anima, la piega delle cose, il ritmo dell’esistenza mi interessa restituire.
Qualcuno mi ha preso in giro per i modi della mia scrittura, ma non me ne sono curato, perché mi è parso non accettazione di ciò che sono: a questo la Scrittura non può porre rimedio in alcun modo. «Il suo scopo non è comunicare né convincere nessuno, bensì superare il confine tra realtà e immaginario». (M.Foucault)
Diremo, allora, Imparare a scrivere, per significare il nostro divinare dal fondo enigmatico e buio da cui proveniamo.
Per quanto riguarda la fedeltà a ciò che chiede di essere tratto fuori dal silenzio, diremo soltanto che non è in questione la verità: tutte le volte che è stato possibile riferire ‘fedelmente’ i dati della nostra esperienza lo abbiamo fatto, e ci impegneremo a farlo ancora! Altrimenti, abbiamo praticato la dissimulazione onesta, per proteggere la nostra fragilità e quella delle persone a cui sarebbe stato utile accennare. «La scrittura, come elemento dell’ascesi, ha una funzione etopoietica: essa è un operatore della trasformazione della verità in ethos» (M.Foucault). La speranza che ci muove è sempre la stessa: fare della scrittura un mezzo di testimonianza, per indicare ad altri un modo di consistere presso di sè e nel mondo.

Accanto alla Scrittura non esiteremo a situare il ‘parlato-parlato’, cioè quella forma di espressione orale ‘faccia a faccia’ che trova nella Voce «il vettore dell’esperienza più prossimo all’inconscio» (J.Lacan), che restituirà una verità non soltanto supposta tale: occorreranno occhi di seconda vista per riuscire a sentire le voci di dentro – quelle che risuonano dentro di noi come quelle che risuonano dentro gli altri – e a dare senso ad esse.
A tutti gli ‘increduli’, cioè a coloro che non riescono mai a venire a capo della verità, giacché pretendono soltanto di scolpire nella pietra la ‘verità’ di quello che è accaduto ieri pomeriggio alle cinque, di cui sono indubitabilmente certi, non basterà l’autorità della Voce, ancor più potente della Scrittura, per accedere alla realtà dell’esperienza dell’altro, per coglierne gli invisibilia. Essi non hanno ancora scoperto il «quasi-niente» (Jankélévitch) che stringono tra le mani!
Chi non è guidato dalla saggezza dell’amore non saprà dare valore a Voce, Volto, Scrittura dell’altro: continuerà a chiedere e a pretendere una verità che gli sfuggirà sempre, pur ‘possedendo’ tutte le tracce che conducono ad essa. Queste tracce sono sotto i nostri occhi, ben nascoste alla superficie. La natura ama nascondersi. L’anima personale non è da meno. Pur non essendo riducibile all’essere che si eclissa, i modi del suo darsi finiscono per risolversi nei modi del suo nascondersi. Solo aprendosi a nuove evidenze arriveremo ad attingerne il senso.

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[ L’esigenza ricorrente di aggiornare nel tempo il quadro dei nostri Esercizi, anche integrandolo con tipologie a cui non aderiamo ma che sono espressione di Pratiche filosofiche proprie del nostro tempo, richiederà aggiornamenti ulteriori di questo articolo, magari un suo trasferimento tra le Pagine, dove sono ospitali i Testi esemplari e i Testi definitivi. ]

 

Leggere anche

Aσκήσεις (1): La nostra esperienza morale

Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo

Aσκήσεις (3): La dissimulazione onesta

Aσκήσεις (4): Strategie di apparizione

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Ασκήσεις è parola greca (è il plurale di Àσκησις), che sta per esercizi spirituali. La preferiamo al più chiaro ‘esercizi spirituali‘ di Hadot, perché ci consente di ‘risalire’ alla fase precristiana della nostra civiltà morale. Non per opporre una tradizione all’altra o per esprimere una preferenza ‘laica’ da anteporre allo spirito cristiano… Piuttosto, per una ragione terminologica.
Esercizi. Semplicemente, esercizi che vedranno impegnata sicuramente la parte immateriale della nostra esperienza, ma nondimeno graveranno, accanto alla presenza di atteggiamenti emozioni sentimenti passioni, gli stati di corpo, le pratiche a cui ci sottoporremo per entrare nella nuova condizione che ci aspetta.
Dovremo prepararci a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, pur possedendo i beni accumulati nella fase precedente. Non è detto che vivremo male. Dovremo, sicuramente, convivere con tanti giovani senza prospettive certe di vita, in un mondo che non sarà più quello di prima. Chi ha avvertito per tempo i cambiamenti in atto si sta preparando. Molti sono già pronti.
L’esperienza sta subendo una torsione ‘restrittiva’, a causa degli sconvolgimenti economici che investono Cosmopolis. Bisogna registrare i cambiamenti che intervengono nel mondo-della-vita in seguito all’austerità obbligata che ci ritroviamo a vivere. Non rinunceremo solo al superfluo. Saranno intaccati stili di vita ‘da sempre’ improntati a dissipazione e consumo.
C’è forse speranza che tornino i volti, quando avremo ‘archiviato’ la civiltà malata dell’usa e getta?

Il termine Ασκήσεις contiene anche una preziosa sfumatura ‘ascetica’, un’allusione a ‘rinuncia’ che non abbandoneremo mai. Chi scrive queste note ‘proviene’ da un’educazione interamente improntata a sacrificio e rinuncia. Occorre verificare quanto resti di quella tradizione e se non stia giungendo il tempo in cui sacrifici e rinunce acquisteranno un senso nuovo, nel fuoco della moralità privata.

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