Voglio chiedere in prestito le sue parole a CONCITA DE GREGORIO (Dolce morte grande ipocrisia, l’Unità, 28 settembre 2008), per dire oggi come continuare a pensare non tanto la morte, quanto il morire. Della morte sappiamo molto, della nostra morte, cioè di come morremo, non sappiamo nulla. Martin Heidegger la definisce l’Irrappresentabile: è cosa di cui non è dato fare esperienza. Per questo, è difficile parlarne; non perché ci spaventi. Si discute se possa, se debba essere riguardato come un diritto, se abbiamo il diritto di scegliere come morire. Scegliere il momento per farlo non vuol dire che un individuo possa farlo quando è in salute, ma che si possa scegliere per sé quando la salute non c’è più e continuare a vivere è penoso e inutile. Ricordo le parole che pronunciò un giorno mio padre, che pure era credente e timoroso di Dio: quando la sua malattia aveva svuotato del tutto la sua vita, mi disse dolcemente un giorno: «Ma ormai a che serve?». Non ho fatto né prima né dopo esperienza di un dolore più contenuto e più dignitoso. Egli si limitò a chiedere che senso avesse ormai continuare a vivere. Eppure, poteva vivere ancora, circondato com’era dall’affetto di tutti! Dunque, il pensiero che sia tempo di morire arriverà un giorno. Lo avvertiremo. Lo penseremo. Lo diremo. In regime di tirannide, io voglio che nessuno si occupi della mia morte. In assenza di ogni forma di rispetto della vita e della libertà, ho già provveduto. Alla manipolazione della vita e della morte oppongo oggi il diritto di morire con dignità. Quando arriverà l’ora che non ha sorelle, per me non deciderà un berlusconiano o un servo di preti.
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Sono un cattolico che crede che sul tema della fine della vita si ascoltino molto i monsignori e poco i cittadini. Mi hanno colpito le parole di Mina Welby: «Bisogna arrivare a una legge sul testamento biologico che raccolga le dichiarazioni di fine vita non solo per rifiutare alcune cure, ma anche per chiederle». Penso che la libertà di chiedere cure faccia il paio con la scelta drammatica di lasciarsi morire. E ci si lascia morire in tanti modi: smettendo di lavarsi, di cibarsi, di interessarsi a ciò che ci circonda. Una legge può aiutare solo se ci sa mettere al riparo dalle ideologie, dalle demagogie. Una legge che non tuteli gli interessi di chi la fa ma quelli dei malati. Delle persone che vivono coi malati. Di noi. Alvaro Malerba, Vercelli
Al riparo dalla demagogia. Che meraviglia sarebbe, no?, se per una volta, per questa volta almeno la discussione si concentrasse sull’oggetto – chi sta morendo, chi vive senza vivere – e non sul soggetto, sulla tronfia presunzione di chi pontifica, sul narcisismo di chi vuole un palcoscenico nuovo per dire gonfiando il petto qualcosa di clamoroso e di insolito, i riflettori ancora su di sé e qualche voto, qualche copia di giornale in più. Il dibattito sul testamento biologico è il festival nazionale delle parole a vuoto. Ipocrita fin dalla scelta dei termini: eutanasia non si può dire, non sta bene. Ipocrita alla radice, la più grande delle ipocrisie. L’eutanasia, in Italia, esiste già. Lo sanno bene tutti: i medici e i pazienti, le famiglie a cui è toccato e tocca il dolore di star vicino a chi se ne sta andando o se ne è andato già ma non può morire davvero. Esiste e funziona così: quando un malato terminale non reagisce più, quando la sua vita è solo un calvario di cateteri e di sonde c’è sempre qualcuno, tra i meravigliosi medici che lavorano al confine con la morte, che avvicina le mogli, i figli, i genitori e spiega loro, chiede, prova a capire. Nessuno domanda: volete voi che. No, non è così. Sono pochi, pochissimi quelli che riuscirebbero a rispondere. È enorme il peso della decisione, insopportabile. Allora succede questo. C’è un momento di non ritorno, i medici lo conoscono. Inutile declinarlo qui: quando il drenaggio delle urine rallenta, cose indicibili così. Quando i familiari smettono di parlare tra loro. Ecco, quello è il momento in cui arrivano, una mattina, gli infermieri (persone che hanno scelto di lavorare in hospice, angeli a volte rudi, ma angeli) e dicono con la voce squillante al malato in coma «buongiorno, come va stamattina?». Lo chiamano per nome. Gli raccontano cosa succede fuori e intanto lo spogliano nudo, lo lavano, aprono la finestra e meglio ancora se è gennaio, fanno cambiare aria, raccontano una storia, insaponano, fa freddo, l’acqua sul corpo corre, che buon profumo il sapone, no?, che bello sentirsi puliti. Loro lo sanno bene. Sanno cosa stanno facendo. Cantano, a volte. Non ci si sveglia più da quell’ultimo bagno. Era l’ultima aria quella entrata dalla finestra aperta. Poi la sera, poi la notte, poi basta. Basta andare negli hospice, basta vivere la vita per sapere che è così. Chi maneggia il dolore lo sa. Il Paese è più avanti – sempre – di chi dibatte sulle sue sorti. La realtà è un chilometro oltre l’orizzonte delle parole a vuoto. La vita vera è questa, la morte – succede – un sollievo. Chi la frequenta lo sa. E ora torniamo pure al dibattito: prego monsignore, dica pure onorevole. (CONCITA DE GREGORIO (Dolce morte grande ipocrisia, l’Unità, 28 settembre 2008))