CAMMINARSI DENTRO (132): Un altro sguardo. Leggere testi, discorsi, persone.

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Questa mattina mi sono svegliato con un’idea vecchia in testa che riassume, però, le cose più importanti in cui credo e che mi vengono dall’esperienza di insegnante, da un’attitudine ormai quasi naturale a pensare e ad agire con intenti educativi. E’ importante saper leggere, quindi insegnare a leggere ai ragazzi e agli adulti. E’ importante imparare a leggere, apprendere aspetti nuovi del leggere che non conoscevo, arricchendo le conoscenze relative a lingua, testo, comunicazione. Naturalmente, per me leggere significa comprendere testi (scritti), discorsi (orali), esistenze (persone).

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IMPARARE A LEGGERE (2) – I dintorni del testo. Prime considerazioni su ciò che accompagna l’icona, a partire dalla lettura dei testi linguistici.

 

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Sotto una foto o un’immagine fantastica, un titolo che ne restituisca sinteticamente o estesamente il significato è paratesto, è soglia. Sta di fatto che un’immagine da sola non sempre parla alla nostra fantasia. D’altra parte, se il suo senso si imponesse ad una prima ‘lettura’ anche al passante distratto, non presenterebbe il carico di senso che per lo più la contraddistingue. In quanto icona, poi, più che testo, per sua natura propone una sovradeterminazione del senso più grande dei testi linguistici. Basti, per questo, l’esempio di un’immagine che voglia restituire il contenuto di un sogno. Ci spingeremo fino a dire che nemmeno un titolo può bastare per introdurre al senso.

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IMPARARE A LEGGERE (1): Le pratiche della Lettura

 

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«La parola ‘lettura’ non rimanda a un concetto, ma a un insieme di pratiche diffuse. E’ una parola dal significato sfumato: da quale lato si può iniziare ad esaminarla? Si potrebbe cominciare da dove aveva iniziato Sartre, per la scrittura, in Qu’est-ce que la littérature? (1947): che cosa è leggere? perché si legge? O come Proust nella sua prefazione a Sesame and Lilies (1868) (due conferenze di Ruskin sulla lettura) con la narrazione delle giornate di lettura della sua infanzia. Due modi di intendere la lettura: uno sociale e l’altro individuale, uno politico e l’altro etico.

Quale punto di vista adottare su una parola che ha troppi usi? Quella della sociologia, della fisiologia, della storia, della semiologia, della religione, della fenomenologia, della psicanalisi, della filosofia? Ciascuna ha una parola da dire e la lettura non è la somma di queste parole. Al termine del catalogo, la domanda rimarrebbe invariata: che cosa è la lettura? Bisogna allora mancare di metodo – vi sono argomenti che sono intrattabili con metodo – e procedere per colpi d’occhio, per istantanee: aprirsi degli spiragli nella parola, occuparla per sondaggi successivi e differenziati, tenere più fili a un tempo che s’intreccino, che tessano la trama della lettura» (ROLAND BARTHES e ANTOINE COMPAGNON, Lettura, ENCICLOPEDIA EINAUDI vol.8°, 1979, pag.176


INDICE DELLA VOCE

1. Pratiche.
1.1. Leggere è una tecnica. 
1.2. Leggere è una pratica sociale. 
1.3. Leggere è una forma di gestualità. 
1.4. Leggere è una forma di saggezza. 
1.5. Leggere è un metodo. 
1.6. Leggere è un’attività voluttuaria. 
2. L’oggetto. 
3. L’operazione. 
4. Il fenomeno. 
5. Il desiderio. 
6. Il senso.
7. L’intertesto. 
8. La lettura oggi.


Sintesi della voce Lettura, curata da Roland Barthes e Antoine Compagnon per il volume 8° dell’Enciclopedia Einaudi (1979), pp.176-199.

La lettura può venire intesa come l’operazione inversa a quella della scrittura, cioè come il meccanismo, che richiede una certa tecnica e un certo metodo, di accesso al testo (cfr. discorso, narrazione/narratività). Si parla però di lettura non solo a riguardo della decodifica (cfr. codice, comunicazione) di un messaggio scritto (cfr. orale/scritto), ma anche in rapporto alla percezione e alla visione di oggetti e di immagini (cfr. oggetto, immagine), o perfino all’analisi di fenomeni culturali, come ad esempio l’ambiente costruito e il paesaggio (anche sotto l’aspetto della ricostruzione storica: cfr., ad esempio, rovina/restauro), o ancora in rapporto all’interpretazione (cfr. diritto) anche di fenomeni tra natura e cultura (cfr. divinazione, magia, natura/cultura).

Nell’ambito della più recente analisi letteraria e artistica (cfr. letteratura, arti), si preferisce parlare di lettura piuttosto che di critica, privilegiando in tal modo la mediazione della lingua sugli altri sistemi di modellizzazione. Qualunque sia lo spettro semantico e applicativo che il termine ‘lettura’ può occupare, non si può tralasciare l’aspetto pedagogico (cfr. educazione) che mostra come l’insegnamento e l’apprendimento della lettura non possa essere indipendente da una qualche forma di controllo sociale.



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CAMMINARSI DENTRO (131): Stabat mater. Mentre un figlio muore.

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La settimana passata è stata segnata da due avvenimenti simili: un colloquio chiarificatore – nel Centro di ascolto – con una madre che ha imparato a non piangere; l’incontro – a casa sua – con una madre a cui è morto il figlio tossicomane, e che non piange.

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CAMMINARSI DENTRO (130): C’è un tempo per ringraziare.

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Il ringraziare è nemico della fretta. Quando mai è bastato dire un grazie! per esprimere riconoscenza? Evidentemente, non stiamo parlando della consuetudine di offrire da bere in un bar o di un invito a cena: non parliamo delle cose che non cambiano la nostra vita. Per queste non si richiede un grande sforzo morale. Non ricordare il bene che si è ricevuto, invece, è cosa che si accompagna spesso ai rapidi congedi.

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CAMMINARSI DENTRO (129): Pensare ciò che è autenticamente da pensare.

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Il ‘contenuto’ del pensare autenticamente ciò che c’è da pensare non resta impensato per noi, se corriamo a dire la cosa stessa. E’ stato lo stesso Heidegger – che ci ha guidati fin qui sulla materia del ringraziare, del ricordare il bene ricevuto – a dire: l’essenza della verità è la libertà.

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CAMMINARSI DENTRO (128): Ciò di cui vorremmo ringraziare.

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La traccia sempre viva in me del bene ricevuto è ciò di cui vorrei ringraziare. Non si tratta mai di dire addio a ciò che ha fatto il proprio tempo, che è passato secondo la sua misura, che si è compiuto. Non è nemmeno il semplice ricordare quella ‘traccia’: è, piuttosto, un rammemorare strettamente connesso al ringraziare.

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CAMMINARSI DENTRO (127): ‘Dopo’ la relazione. L’oblio della gratitudine.

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Le moderne Neuroscienze e le Scuole psicoterapeutiche conoscono bene la natura della ‘risposta’ all’azione d’aiuto che abbia ricevuto una persona affetta da disturbi psicologici quando la terapia giunge al termine. E’ noto, altresì, il dibattito su “analisi terminabile e analisi interminabile” in psicoanalisi.

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CAMMINARSI DENTRO (126): Fin dove. La profondità dello sguardo.

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Gli ultimi passi compiuti con questa Rubrica Camminarsi dentro risalgono al 13 aprile. Nel mese trascorso c’è stata la riunione d’area – l’incontro delle sedi di Exodus dell’Italia centrale (6 maggio) -, che aveva come tema importante da discutere proprio Spostare le tende, su cui si erano concentrati tutti gli Educatori d’Italia all’incontro di Sonico, tenuto dal 16 al 18 aprile. Propriamente, si trattava e si tratta ancora di decidere fin dove spostare le tende.

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VERSO LA TERRA INCOGNITA (7): Ai confini. Dentro la terra incognita. Al di là del silenzio.

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Quando mi dirigo fisicamente verso l’altro, come quando lo interpello con la voce e con i gesti, è verso una persona che oriento le mie intenzioni. Ciò che si staglia davanti a me non è un mero corpo, cioè un organismo, la sintesi psicofisica di soma e psiche. Mi appare un oggetto fisico che non è un semplice oggetto tra gli altri. Esso condivide con gli oggetti della natura particolari caratteristiche ed aspetti che diventano oggetto di studio delle scienze più diverse. Tuttavia, nessuna delle scienze esatte esaurisce l’oggetto né aspira a farlo. Se vorremo sapere chi sia la persona che ci viene incontro, non interrogheremo nessuna delle scienze della natura. Non potremo fare appello, d’altra parte, nemmeno alle scienze dello spirito. Siamo soli di fronte all’altro. Tutt’al più verranno in nostro soccorso le reminiscenze dello studio delle scienze umane, che ci guideranno per un po’ nel cammino incerto che conduce al cuore della cosa stessa, a quella natura che vogliamo comprendere e che non si dà come un ‘semplice’ fenomeno della natura. Sotto il nostro sguardo cade un individuo che è un intero, cioè la risultante di caratteristiche e momenti che lo fondano, che ne istituiscono l’identità.

Se la foresta dei simboli della nostra cultura ci disorienta, non è da meno la congerie delle idee e delle teorie che si affollano nella nostra mente e che non ci aiutano a decidere cosa ci sia da fare tutte le volte che la nostra realtà umana entra in contatto con la realtà umana dell’altro. Oscilleremo tra la considerazione della realtà fisica, corporea dell’altro e l’immateriale che lo fa muovere, che gli dà voce e senso. In tutte le vicissitudini della nostra esistenza ci appelleremo ora al corpo, ora all’anima. Ci dedicheremo all’educazione del corpo e della mente dell’altro, quando ci sia affidato nelle istituzioni educative, prima ancora nella famiglia che avremo creato. Cercheremo il nutrimento della persona nel cibo e nella cultura. E attenderemo una risposta.

E’ indubbiamente complesso – e a parer nostro ‘completo’ – il lavoro che riserveremo alla cura dell’altro. Non tralasceremo nulla che possa venirci in soccorso per corrispondere ai bisogni materiali e spirituali di un figlio, di un alunno, di un cittadino che ci vengano affidati o che si rivolga a noi in cerca di cure.

Eppure, non tarderemo tanto a scoprire che non poche volte i nostri sforzi sono vani, che non raggiungono per niente l’altro, che sono al di sotto delle sue attese. Allora moltiplicheremo i nostri sforzi. Accresceremo attenzione e interesse. Affineremo  strumenti e metodi. Svilupperemo abilità e competenze. Per servire l’altro al meglio, per soddisfare appieno bisogni insopprimibili e nondimeno quelli superflui, perché egli esca dallo stato di indigenza, dalla mancanza che è costitutiva della condizione umana. Produrremo ‘ricchezza’, abbondanza di beni di ogni sorta. Forniremo i mezzi per l’emancipazione dall’ignoranza personale. Promuoveremo autonomia linguistica e morale, libertà, consapevolezza. Cercheremo di dare la felicità, anche se sappiamo che non è in nostro potere elargire un dono così grande.

Al di là e oltre l’agire disinteressato dell’amicizia e dell’educazione, contratteremo quotidianamente il significato del mondo, per dare senso a una realtà sostanzialmente estranea che ci adopereremo a far sì che diventi una realtà durevolmente condivisa. Introdurremo file di continuità per dare senso alle cose e alla nostra presenza nel mondo. Ci disporremo in ascolto. Interrogheremo e cercheremo risposte al nostro inquieto domandare. Attenderemo sempre una risposta.

La risposta verrà da un’altra persona, che dovremo comprendere, a cui dovremo dare un significato e un valore, con cui compiremo gesti, azioni, atti. A cui parleremo e che ci parlerà. Ma che, soprattutto, si mostrerà a noi oltre il suo mero apparire. Occhi, sguardo, voce, volto ci parleranno. L’altro si esprimerà con tutti i sensi di cui dispone e noi dovremo ‘tradurre’, interpretare il suo ‘dire’, penetrare l’invisibile da cui provengono voce, sguardo, volto. Questo lavoro di comprensione della realtà dell’altro è ciò che ci si presenta come compito tutte le volte che usciamo di casa e che andiamo incontro al mondo. Vorremmo essere sostenuti da un sapere dato, magari acquisito a una scuola dello sguardo che valesse per noi e per l’altro; che ci fosse possibile, insomma, comprendere sempre senza errore, per consistere nel mondo senza incertezze ed esitazioni, sicuri del nostro dire e del nostro fare, ma soprattutto certi dell’esattezza delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti, dei nostri giudizi.

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VERSO LA TERRA INCOGNITA (6): L’ordito e la trama. La struttura delle relazioni interne alla persona e la struttura delle relazioni che la persona intrattiene con il mondo.

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Quando mi rivolgo a me stesso, alla mia intimità, con l’introspezione e con il dialogo interiore, non mi incontro veramente, se non nella forma del monologo, e non realizzo alcuna conoscenza di me. Tutt’al più, potrei imbastire, nella scrittura, un confronto ideale con un Io immaginario, come in un dialogo tra due personaggi immaginari, uno dei quali potrei essere io! L’astratta coincidenza tra me che osservo e me che vengo osservato rende vana l’osservazione. In realtà, non c’è osservazione, per la coincidenza di soggetto e oggetto: non riesco veramente a farmi oggetto della mia osservazione, semplicemente ripiegandomi su me stesso. Io posso essere solo il soggetto che osserva. Non c’è reale ed efficace sdoppiamento, per rendere possibile l’osservazione, e se pure si richiedesse una tale incomprensibile ‘scissione’, non saprei proprio come realizzarla. Occorre, piuttosto, sviluppare la capacità di osservarsi vivere, prendendo in considerazione i modi in cui l’esistenza si manifesta: nel patire, nell’agire, nel pensare. Certo, ascolto le ‘voci di dentro’, ma quanto esse possono dirmi di ciò che più mi preme sapere, relativamente ai modi del mio consistere e al più autentico significato del mio modo di darmi al mondo? E’ proprio la natura di ciò che c’è di più proprio in ognuno di noi che rende difficile raggiungere il nucleo nascosto della persona, l’invisibile dell’esperienza, oltre l’apparenza data dal comportamento: la trascendenza della persona è il più concreto; non un aldilà che escluda ed elida l’apparenza; piuttosto, la profondità degli strati del sentire, non disgiunta mai dai modi del mio apparire. Lo sguardo più adeguato alla realtà della cosa è quello fenomenologico, il solo che sia capace di tenere insieme polarità distinte come esperienza e comportamento, apparenza ed essenza, visibile e invisibile, interno ed esterno…

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CAMMINARSI DENTRO (125): «Non guardare agli specchi grandi! Guarda agli specchi piccoli, a quelli che sono più vicini a te!»

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Giustamente è stato scritto: «non guardare agli specchi…» e non: «negli specchi…» – Prima ancora di ‘specchiarsi’, per cercare la propria immagine riflessa, noi volgiamo lo sguardo a uno specchio. Si tratta di scegliere a quale specchio chiedere di noi.

«Non guardare agli specchi grandi! Non ti bastano le delusioni che hai ricevuto fin qui?» – Queste parole sono scritte sul frontespizio di un libro regalato alcuni anni fa dal figlio, prima che morisse tragicamente, alla madre M., membro di un gruppo di alcolisti in trattamento. Forse le parole di quel figlio, attinte non si sa a quale sorgente, sono all’origine della ‘salvezza’ di sua madre. E’ anche in questo modo che si continua a vivere, oltre la morte del corpo.
Recentemente, M. ha riformulato quella prescrizione, ad uso di una ragazza del gruppo che non ce la fa ad uscire dalla dipendenza: “Non guardare agli specchi grandi! Guarda agli specchi piccoli, a quelli che sono più vicini a te!” Evidentemente, la ragazza lasciava trasparire dai suoi racconti la tendenza a cercare lontano da sé conferme ai suoi sforzi, nella fase difficile della prima astinenza: si rivolgeva ai vecchi ‘amici’, ai più fortunati di lei che non sapevano parlare al suo cuore per incoraggiarla a proseguire; magari, questi si atteggiavano superficialmente a persone che danno generici consigli, senza mordere alla radice del problema…
Nella condizione di grave disagio esistenziale in cui versano le persone affette da dipendenza, gli specchi grandi sono anche espressione della favola mondana che alimenta tutte le illusioni, assieme all’applauso facile che quelle persone cercano, ai falsi riconoscimenti, alle seduzioni dei compagni di sventura. Le fragilità esistenziali spingono ad ascoltare tutte le voci o a non ascoltarne nessuna.

Gli specchi piccoli, sicuramente di minor pregio agli occhi di chi non vede, sono la casa, la famiglia, una madre. La vita autentica palpita in questi luoghi, non dentro improbabili mete verso cui tendere con un vano viaggiare. Il vero eroismo è stare al ‘quia’, consumare le guerre per il riconoscimento e l’individuazione personale nei confini dell’esperienza personale, in essa avanzare e consistere.

Delle poche cose che ho scoperto in tanti anni di scuola e di lavoro sociale, la più preziosa è forse proprio questa: è difficile accettare l’amore. E’ molto più facile darne, non importa come. Il sapere analitico ci ha insegnato molto al riguardo. Quante cose si decidono sulla scena primaria! E’ lì che si gioca il nostro destino, si decide di che pasta saremo, quanto saremo capaci di vedere e quanto saremo capaci di accogliere e di riconoscere a nostra volta il bene che abbiamo ricevuto. E’ stato scritto: «chi non ricorda il bene che ha ricevuto non spera». Come è terribile quel “non ricorda”! Fa pensare, infatti, non a un non ricordare, come se nella mente non ci fosse traccia dei doni ricevuti. Piuttosto, quel che manca è il riconoscimento del valore del dono, del significato dei gesti e delle parole, addirittura delle persone che pure sono state accanto o che hanno lungamente pensato ed amato chi patisce la ferita dei non amati. Ciò che non è mai stato ‘accolto’ nel proprio cuore è il diverso amore, se consideriamo i modi in cui gli adulti sono soliti prendersi cura delle diverse persone a cui si dedicano: tra due figli, a dispetto delle dichiarazioni di principio e delle giustificazioni ‘postume’, si scopre a distanza di anni che uno di essi probabilmente non ha avuto ciò di cui aveva bisogno o ha patito ‘ingiustizie’ che avrà vissuto come tali, come superficiale considerazione del più grande bisogno d’amore o, al contrario, come amore eccessivo, intrusivo o fermo all’elargizione dei soli beni materiali… Nella confusione dei sentimenti e tra le recriminazioni e le incomprensioni del presente, è solo nel colloquio intenso e nella confessione di sé e nel riconoscimento dei torti fatti – non importa se involontariamente e inconsapevolmente – che si può sperare di redimere il tempo perduto, di riscattarsi agli occhi dell’altro, di ottenerne il perdono, per arrivare a perdonare se stessi e arrivare a consistere insieme in un modo nuovo, più autentico, più giusto.

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CAMMINARSI DENTRO (124): E’ il sopraggiungere dell’Ospite inatteso, che scopriremo seduto accanto a noi, il dono insperato. E’ felicità l’annuncio delle cose di noi mai intraviste, lo stupore dell’istante eterno e l’accordo che fa l’ordine del cuore…

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L’approdo costituito da serenità e pace – soprattutto dal sentimento di pace che inonda l’anima nei momenti più impensati e lungamente si impossessa di essa – non è conquista di un giorno. Esso è preparato da anni, anche decenni, di prolungato esercizio spirituale, dalla rinuncia ripetuta e convinta ai facili acquisti, alle scorciatoie morali: è un sentimento di giustizia appagato che rende l’anima in armonia.

Quante volte occorre dire no ai raggiri, alle menzogne, alla conquista di posizioni sociali conseguite magari con aiuti disonesti, che avrebbero fatto torto ad altri, sicuramente alla Legge, al rispetto di essa che si richiede per poter dire di sé di essere cittadini!

Antonio Gramsci parlava di sviluppo onnilaterale dell’uomo per riferirsi al compito di un’educazione integrale dell’uomo. Insomma, stiamo parlando di una vera e propria paideia. Abbiamo in mente una formazione integrale dell’uomo. Conoscenza abilità e competenza, assieme a capacità e naturali inclinazioni della persona, saranno sicuramente alla base di ogni progresso spirituale del singolo e condizione ulteriore per uno sviluppo e una crescita non meramente biologici, veicolati dal tempo e basta. Non è sufficiente una buona alimentazione e condizioni familiari favorevoli. Non basta essere favoriti degli dei, per poter affrontare le tempeste della vita con qualche speranza di successo! E quand’anche fossimo dotati dalla nascita e dalla fortuna dei doni indispensabili per essere felici, essi basterebbero per dare la felicità? Quest’ultima è a portata di mano dei fortunati e dei più ‘dotati’? Finalmente, chiameremo felicità uno stato di grazia contraddistinto dall’assenza di sventure e di ogni più piccolo inciampo? E’ felicità l’assenza di dolore?

In verità, non ci basta tutto quanto pure è da noi richiesto, quando siamo nella mancanza. Il conseguimento dei beni materiali e la condizione insperata di benessere anche spirituale non soddisferanno l’ansia di infinito e il bisogno di un accordo con il mondo e con se stessi. Il cuore non vuole improbabili compensi, riconoscimenti effimeri, brevi sorrisi.

Ciò che più acconciamente si adatta alle pieghe dell’anima, ciò che le raggiunge quasi una per una rendendosi farmaco e duraturo sollievo non è l’intesa di un giorno o la promessa di eterna fedeltà. Non attaccamento assoluto e assoluta trasparenza della coscienza basteranno a dire l’istanza del desiderio. Non un appagamento qualsiasi né il mero piacere di vedere corrispondere voce a voce, passo a passo realizzeranno lo spasmo e l’anelito dell’anima protesa verso l’altro da sé. A volte non basta tutto ciò che pure corrisponde a quanto è stato lungamente cercato. Non vogliamo meno dell’istante eterno che infutura. Non ci basta il tempo mondano che pure scandisce il compiersi del godimento e del benessere intensamente attesi.

Noi vogliamo stare lì, accanto alla luce che copre le cose, e sentire ugualmente il dolore che reca con sé il suo ritrarsi improvviso. Ci accade di scoprire che il declino della luce non è un semplice tramontare del Sole, che non mancherà di tornare a rivestire le cose di sé regolarmente: non un eclissarsi della Bellezza si mostra a noi tutte le volte che l’anima si apre a nuove evidenze. Piuttosto, verifichiamo un suo trasformarsi in più solide forme invisibili allo sguardo distratto e impaziente del viandante smarrito.

Il nostro Oriente non è lì davanti a noi, in una superficie completamente illuminata dall’ora e dalle circostanze. In realtà, noi siamo perennemente in contatto con l’impermanenza delle cose, con caducità e silenzio. Anche se cerchiamo l’essere che non si risolve nello svanire, ciò che più vogliamo attingere non è la corposa consistenza delle cose quanto le forme dei sogni e dei palpiti del cuore: vogliamo essere frastornati dal suono della vita, dalla voce che finalmente raggiunge l’anima e dice sì con gli occhi e con lo sguardo, con il volto e con l’incedere maestoso della vita stessa che non sempre si mostra attraverso file di continuità né per chiari segni premonitori. La presenza dell’altro non è mera presenza. Essa è sempre promessa di un invisibile che ci è dato conoscere. La più grande infelicità, infatti, è solo la possibilità di tendere alla felicità senza poterla raggiungere. Non sarà un raggiungere e un oltrepassare che serviranno al compito. L’altro si dà sempre – in noi e fuori di noi – nella pausa, nell’intervallo; è sconcerto, nuance, bisbiglio, il parlare sommesso che solo raggiunge il cuore delle cose, lontano dalle strade battute di sempre.

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VERSO LA TERRA INCOGNITA (5): La relazione con l’altro non è tra meri indifferenti e nemmeno puramente psicologica: essa comprende sempre in sé il riferimento al valore dell’esistenza dell’altro. La relazione è sempre etica, mai genericamente sentimentale.

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Sotto qualsiasi rispetto si consideri il suo avvio, l’instaurarsi della relazione con l’altro – anche e soprattutto quella d’aiuto – si configura come un legame affettivo, quando dalla nostra parte si dia l’attivazione degli strati profondi della sensibilità, attraverso il chiaro ed esatto riconoscimento del valore dell’esistenza dell’altro.

Abituati dal senso comune, e dal pregiudizio classico della psicologia e della filosofia, a concepire tutta l’esperienza in una sfera chiusa rispetto al suo “al di là” reale, releghiamo ancora l’esperienza affettiva nella sfera della soggettività pura e semplice e solo “dopo” ci poniamo il problema di come “aprirci” all’evidenza della presenza dell’altro. In realtà, l’esistenza è originariamente aperta al mondo in una modalità costitutiva tale che il suo consistere è sempre già plurale in sé e orientata all’altro, grazie all’intenzionalità della coscienza.

Secondo le teorie classiche, la vita affettiva è chiusa ad ogni esperienza di apertura al vero (cioè essa non è capace di fondare giudizi veri, ma solo giudizi conformi al comune sentire e al sistema delle approvazioni o delle disapprovazioni sociali in vigore), perché, essendo emotivamente fondati, i suoi giudizi sarebbero privi di condizioni di verità, cioè puramente soggettivi Per questa via, il rischio è che non venga mai fuori un’etica, tutt’al più una teoria del carattere socialmente funzionale di alcune disposizioni caratteristiche della specie umana.

Secondo la filosofia freudiana dell’uomo, la gratuità dell’emozione estetica disinteressata è inspiegabile, perché non si aggancia a un bisogno biologico determinato, come è inspiegabile la grazia. Tuttavia, essa ha saputo riconoscere gli affetti “disutili”. L’errore è consistito nell’aver generalizzato: ha ridotto tutti i fenomeni affettivi a una delle due dimensioni della vita affettiva, che sono il sentire e il tendere. La psicoanalisi ha operato una riduzione dell’affettività alla pulsionalità. Questa riduzione è fenomenologicamente infondata e incomprensibile, perché riduzione dei modi del sentire ai modi del tendere. Infatti il sentire è per eccellenza un recepire, e non può di conseguenza essere ridotto a una funzione della sfera pulsionale, la quale è un modo del tendere (aspirazioni, desideri, pulsioni, reazioni), che è – a differenza del sentire – un vettore d’azione.

Nel Novecento, solo la fenomenologia ha saputo affrontare i fenomeni della vita affettiva riconducendoli alla regione ontologica della persona. Questa regione è la base della teoria etica, vale a dire di una teoria dei fondamenti della conoscenza morale.

La migliore antologia dei testi classici della fenomenologia è in Roberta De Monticelli, La persona. Apparenza e realtà – Testi fenomenologici 1911-1933, Raffaello Cortina 2000. Con i classici della fenomenologia noi condividiamo, sulla scia del magistero della De Monticelli, il duplice riferimento di una teoria degli affetti a una teoria della persona e a un’etica. Teoria della persona, questione dell’identità personale, filosofia morale ci servono per fare un po’ di luce sulla nostra frammentaria esperienza morale: sui fondamenti delle nostre convinzioni, sulle ragioni nostre e su quelle degli altri, sull’apparente miseria morale di troppe menti che oggi governano la politica, il mondo e i suoi conflitti, sulla confusione concettuale e sulla tendenziosità ideologica che regnano incontrastate, con i loro esiti nefasti nei domini dell’educazione, del diritto penale, della psichiatria criminale…


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VERSO LA TERRA INCOGNITA

Le basi dell’educabilità di un Educatore (in Exodus) sono tre: muovere verso se stessi, verso gli altri, verso il mondo. La condizione dell’educabilità dei ragazzi dipende interamente dalla capacità di educare se stessi.

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VERSO LA TERRA INCOGNITA (4): L’incanto delle cose.

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Il cuore della cosa stessa – la realtà dell’anima, la sua vita, le forme del suo sentire – è storia, narrazione, racconto, vicissitudine, incanto.

Dentro il flusso della vita, nel caotico succedersi dei fatti quotidiani, non cerchiamo un Oriente: sappiamo di dover consistere nel magma indistinto, cercando appigli, file di continuità nella catena dei frammenti, riconoscimenti, la ‘salvezza’ delle cose oltre il loro svanire. Noi cerchiamo di risalire, oltre il disincanto del mondo, all’autentico dispiegarsi dell’esistenza umana.

Ciò che pregavi con amore,
che come cosa sacra custodivi,
il destino alle vane ciance umane
ha abbandonato per ludibrio.

La folla entrò, la folla irruppe
entro il sacrario dell’anima tua,
e di misteri e sacrifici ad essa
aperti tu arrossisti tuo malgrado.

Ah, fosse mai che le ali vive
dell’anima librata sulla folla
potessero salvarla dall’assalto
dell’immortale volgarità umana!

Fedor Tjutcev

Questi versi rendono bene l’idea di ciò che si dà quando si superi la linea di confine che separa dall’invisibile: l’accesso a quest’ultimo non è ingresso letterale, effettivo, l’affacciarsi determinato al senso dispiegato delle cose.

Il contatto con l’anima e con il corpo dell’altro non è possesso. Non di un oggetto si tratta, infatti, ma di un soggetto che si dà per ritrarsi subito dopo, per pudore, perché sia salvo il nucleo di sé dall’oltranza della bellezza.

L’insistenza del pettegolezzo e dell’insinuazione, come la rivelazione di segreti lungamente custoditi nell’anima, ma anche – più semplicemente – il tradimento dei sensi nascosti di una vita, che era stato consentito di conoscere per privilegio o per amicizia, tutto l’intrudere, l’invadere, l’irrompere scomposto e ‘non autorizzato’ è far precipitare nel disincanto una relazione non importa quanto profonda e importante.

Stare ‘al di qua’ è contemplare l’incanto delle cose. Anche l’amore non dovrebbe essere stropicciato. La manutenzione degli affetti prevede cura e attenzione, certo, ma anche distanza e rispetto.

L’arte di fare passi indietro andrà ‘coniugata’ adeguatamente da una parte e dall’altra con accettazione e perdono, con l’arte della redenzione del ‘così fu’: contro la malinconia, che tende a far precipitare nell’irredimibile torti e incomprensioni, occorre elaborare in ascolto l’accaduto, prevedendo l’approdo a un’innocenza seconda che non è impossibile attingere, oltre l’errore e la dimenticanza.

L’imperfezione dei nostri strumenti umani è colpa. Solo prudenza e pazienza, umiltà e accettazione potranno impedire il perpetuarsi dell’errore e il rischio della caduta nella confusione dei sentimenti, che si traduce nell’incapacità di percepire il valore di ciò che ci sta più a cuore. La colpa più grande è, tuttavia, perdere di vista l’incanto delle cose, accostarsi ad esse con distrazione e scetticismo, incuranti della fragilità delle esistenze che popolano il mondo intorno a noi.

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VERSO LA TERRA INCOGNITA

Le basi dell’educabilità di un Educatore (in Exodus) sono tre: muovere verso se stessi, verso gli altri, verso il mondo. La condizione dell’educabilità dei ragazzi dipende interamente dalla capacità di educare se stessi.

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