Sul tema della fragilità mi ero pronunciato il 12 settembre, rievocando le parole di don Antonio Mazzi indirizzate ai suoi Educatori: «Fate tesoro delle vostre fragilità!». Intervengono in mio aiuto oggi due circostanze inseguite da settimane: l’opera di Duccio Demetrio, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali (edito in ottobre da Raffaello Cortina) e L’uomo di vetro. La forza della fragilità di Vittorino Andreoli (edito a gennaio del 2008 da Rizzoli).
L’opera di Demetrio è dedicata soprattutto a chi, «non affetto da patologie, attraversi momenti di fragilità e smarrimento, dovuti a lutti, malattie, passaggi di età, stati depressivi temporanei». A partire dalla sua quasi ventennale esperienza, l’autore evidenzia l’efficacia di programmi innovativi di formazione e consulenza autobiografica e ne offre un’articolata esposizione metodologica, in 450 dottissime pagine dedicate al potere terapeutico della scrittura di sé.
Già nel 1996, con Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé (Raffaello Cortina Editore) aveva dichiarato che arriva un momento nell’età adulta in cui si avverte il desiderio di raccontare la propria storia di vita. Per fare un po’ d’ordine dentro di sé e capire il presente, per ritrovare emozioni perdute e sapere come si è diventati, chi dobbiamo ringraziare o dimenticare. Quando questo bisogno ci sorprende, il racconto di quel che abbiamo fatto, amato, sofferto inizia a prendere forma. Diventa scrittura di sé e alimenta l’esaltante passione di voler tracciare traccia di noi a chi verrà dopo o ci sarà accanto. Sperimentiamo così il “pensiero autobiografico”, che richiede metodo, coraggio, ma procura, al contempo, non poco benessere.
Il capitolo dedicato al pensiero autobiografico si apre con le parole di Oliver Sacks, poste in esergo: «Si deve cominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli dei ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. Senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, il nostro agire».
Il capitolo dedicato al racconto che cura si apre con le parole di James Hilman: «L’intera attività terapeutica è in fondo questa sorta di esercizio immaginativo, che recupera la tradizione orale del narrare storie; la terapia ridà storia alla vita».
Senza essere terapeuti, dunque, possiamo stare accanto al dolore umano, chiedendo alle persone di dare ad esso voce, invitandole semplicemente a raccontare. E a scrivere.
Il fragile è l’uomo per eccellenza, secondo Andreoli, perché considera gli altri suoi pari e non potenziali vittime, perché laddove la forza impone, respinge e reprime, la fragilità accoglie, incoraggia e comprende.
Significativamente, L’uomo di vetro si apre con le parole: «Ho trovato a fatica il coraggio di vivere. Ora mi manca completamente il coraggio di morire». E poi: «Sento forte il desiderio di svelare la mia fragilità, di mostrarla a tutti coloro che mi incontrano, che mi vedono, come fosse la mia principale identificazione di uomo, di uomo in questo mondo. Un tempo mi insegnavano a nascondere le debolezze, a non far emergere i difetti, che avrebbero impedito di far risaltare i miei pregi e di farmi stimare. Adesso voglio parlare della mia fragilità, non mascherarla, convinto che sia una forza che aiuta a vivere. […]
Io sono fragile e, paradossalmente, sono portato a parlare di forza della fragilità: di forza, anche se lontano dalla stabilità, dalla infrangibilità.
Ho dedicato il mio tempo alla follia, al dolore mascherato di insensatezza, di depressione; alla sofferenza che si fa silenzio, che sdoppia le identità e fa di un uomo uno schizofrenico.
Un lavoro che molti ritengono esclusivo dei forti, degli uomini di ferro che magari si piegano ma non si rompono, degli uomini di pietra cui il vento rende liscia la pelle, che cambiano forma, ma non perdono mai la durezza e il destino fissati per sempre.
La fragilità richiama il tempo e la caducità del tempo, del tempo che passa. Ebbene, se sono stato, e sono, un buon psichiatra, se ho aiutato i miei matti, ciò è avvenuto per la mia fragilità, per la paura di una follia che si annida dentro di me, per la fragilità che avverto capace di sdoppiarmi, di togliermi la voglia di vivere e di rendermi simile a un depresso che chiede soltanto di scomparire per cancellare il dolore di cui si sente plasmato.
E il dolore è una qualità dell’essere fragile.
Ecco perché voglio gridare la mia fragilità, dirlo ai miei matti, a tutti coloro che corrono da me per ancorarsi a una roccia. […]
Io sono tanto fragile da pensare sempre all’amore, nelle sue varie specificazioni, e sento la voglia di essere amato per poter amare: un circolo virtuoso per cui la voglia di amare coincide soltanto con l’essere amato: due fragilità si uniscono e si fanno forza dentro il segreto, nel mistero dell’amore […]».
Lasciamo ora la lettura di Demetrio e di Andreoli, perché la proseguiate voi. In materia di fragilità esistenziale, c’è da studiare e da meditare; ma, soprattutto, c’è da confessare alle persone che ci amano che non siamo indistruttibili né eterni, perché si prendano cura di noi, almeno un po’, prima di scioglierci dal loro abbraccio. Allontanandoci l’uno dall’altro, che non sembri di essere stati in piedi perché appoggiati l’uno all’altro. Che si senta nitido nell’aria il sospiro di chi non vorrebbe separarsi mai. Così, ci illuderemo sempre di essere amati, e lo ricorderemo ancora.